«Arrigo, a che ora si può iniziare a bere senza sembrare degli alcolizzati?».
«Alle nove del mattino. Le nove a Venezia è un buon orario».
Parto dalla fine dell’incontro con Arrigo Cipriani, 89 anni, mentre, seduta al bancone dell’Harry’s bar, ho avuto l’onore di vedere lui, il patron di questo luogo di culto, preparare con cura un Bellini per me.

Forse un po’ troppo alcolico rispetto alla ricetta originale, ma credo che, secondo i suoi severi parametri, me lo sia meritato.

«Mi chiami pure Arrigo. Sono l’unico uomo al mondo che ha preso il nome da un bar, non avevo antenati che si chiamavano così».

Parla a voce bassa e profuma di colonia, questo signore elegante e con lo sguardo furbo, mentre racconta che tipo era suo padre Giuseppe. Fu lui nel 1931 ad aprire questo bar, dichiarato settanta anni dopo, nel 2001, patrimonio nazionale dal ministero dei Beni culturali.

«Negli anni Trenta il locale si trovava già qui dov’è oggi, ma questa calle era una strada chiusa, non era collegata col ponte che porta a San Marco. Mio padre la considerava una dote, voleva solo clienti affezionati, non turisti che passavano per caso», spiega. Riuscì nel suo intento visto che diventarono di casa, per citarne alcuni, gli scrittori Truman Capote, Ernest Hemingway, Ezra Pound, la femminista mecenate Peggy Guggenheim ed Eugenio Montale, che resero questo posto leggendario. Alcuni di loro si sono persino incontrati, con tassi alcolici degni di nota. Un sogno, oggi, per chiunque abbia avuto tra le mani anche solo un loro libro.

Andava sempre tutto liscio o ricorda anche discussioni?

(Alza le mani al cielo). Certo, magari per le donne. O per motivi futili. Memorabile fu la scazzottata tra Francis Scott Fitzgerald ed Hemingway. Io ero troppo piccolo, me la raccontò mio padre. Finì male per Fitzgerald. Hemingway beveva molto e faceva il pugile.

Che cosa beveva?

Martini, che aveva ribattezzato Montgomery, come il generale britannico. Dentro dovevano esserci 15 parti di gin e una di Vermouth, come la proporzione che il militare usava quando andava in guerra: 15 soldati suoi e uno del nemico. Può capire come andassero a finire certe serate.

Chi altro ricorda?

I miei preferiti erano scrittori e poeti. Eugenio Montale veniva spesso con la Mosca (soprannome della scrittrice Drusilla Tanzi, ndr) e litigavano selvaggiamente. Ero poco più che un ragazzo allora, credevo che si odiassero e invece, quando lei è morta, lui ha scritto quella poesia bellissima: “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino….”.

Non mi faccia piangere.

Tra le liti e il fatto che mangiasse in modo scomposto, noi lo nascondevamo in corridoio e lui era contento, mi ringraziava sempre. Dopo aver ricevuto il premio Nobel tornò qui. Tra i miei prediletti c’era Ezra Pound, rimaneva seduto ore, non parlava mai ma osservava tutto.

Durante la mostra del cinema i famosi vengono tutti a cena qui, dai rapper come Puff Daddy all’attrice Catherine Deneuve, da Brad Pitt a Penelope Cruz.

La lista è lunga, la regola è che dentro il locale non si fanno foto. I grandi non vogliono essere notati e chiedono la saletta dietro. Anni fa chiamò l’assistente di Tom Cruise, si raccomandò che gli riservassi il tavolo più bello. Quando l’attore arrivò, con l’allora fidanzata Nicole Kidman, mi pregò di dargli il tavolo nascosto, quello più defilato. Per dire.

Una follia a cui ha assistito?

Woody Allen viene spesso. Una volta si è alzato, è andato da una signora e gli ha detto: «Signora potrebbe fare a meno di guardarmi?».

Donne affascinanti?

Indimenticabile per me è lady Diana Cooper, vedova di tre mariti, bianchissima perché non prendeva mai il sole. L’ultima volta che la vidi era con le sue tre nipotine, che si alzavano continuamente dal tavolo per andare in bagno. Rassegnata lei mi disse: «Quando eravamo piccole noi, non facevamo mai la pipì».

La contessa morì nel 1986. Incontri più recenti?

Jane Birkin, tra le più belle che ho visto qui. Lui, il fidanzato Serge Gainsbourg, chiedeva sempre lo stesso tavolo. Teneva alzato quel colletto della camicia, era insofferente. Folle era Greta Garbo: una volta mi fece sostituire il cameriere, sosteneva che il suo non la servisse con delicatezza, non le faceva sentire la spiritualità del piatto. E poi c’era Maria Callas, sempre a dieta, pretendeva i tagliolini senza condimento. Era ammesso un po’ d’olio, ma solo se glielo mettevo io.

Veniamo al dunque. So che è furibondo con monsieur Bernard Arnault, 72 anni, patron di Lvmh, perché quest’estate ha aperto un ristorante Cipriani a Saint Tropez.

Lui può usare il nome, fa parte della sua proprietà dopo l’acquisto del Belmond Hotel Cipriani nel 2018. Ciò che trovo ingiusto è che lui sta copiando l’Harry’s Bar e gli altri nostri ristoranti Cipriani nel mondo: le tovaglie, gli allestimenti e molti piatti e drink del nostro menu. Perfino l’impiattamento del carpaccio che ha inventato mio padre. Guardi le foto, il loro ristorante è identico al mio (chiede alla nipote Anna di mostrarmi le foto sul cellulare, ndr). Anche le sedie che ha progettato mio padre sono uguali. La storia di Cipriani non si compra.

Forse la stima al punto di essersi ispirato tanto a lei.

No, è una scelta ponderata per creare confusione nei clienti. Arnault vende oggetti di lusso, ma un oggetto si considera di lusso quando chi lo ha creato ci ha messo talmente tanta attenzione che gli ha dato un’anima. Noi abbiamo un’anima. E una storia. I suoi oggetti no. Se lui ha pensato di copiare, si è sbagliato perché l’anima non si copia».

Che cosa le fa più male?

Ho dedicato la mia vita a questo posto e alle altre attività di famiglia. Per farle capire la fatica, ho lavorato al fianco di mio padre Giuseppe per 35 anni, sei giorni a settimana. E sa che cosa mi diceva lui? «Pensi troppo alla pesca», perché il settimo giorno andavo a pescare. Non mi ha mai imposto di lavorare, ma col suo esempio non potevo fare altro che imitarlo. L’Harry’s Bar è stato riconosciuto come monumento nazionale, è l’unico locale che ha avuto questo riconoscimento nel ventesimo secolo per tutto il lavoro che c’è stato messo. Tutto quello che c’è dentro, compreso me, non sono copiabili.

Anche negli Stati Uniti avete avuto qualche problema con l’uso del nome Cipriani, o sbaglio?

«Sì, ma in America c’è un accordo coi vecchi soci di mio padre stipulato nel 1996. E un giudice americano di 96 anni – vede, ho ancora tempo per fare delle cose – ha detto che io potevo fare ciò che volevo e anche loro potevano aprire un albergo e chiamarlo Hotel Cipriani. L’importante è che lo facessero dove non ci fossi già io.

Qual è la dote necessaria per stare dietro a un bancone?

Ci vuole umorismo per comprendere la follia degli altri.

Dai clienti cos’ha imparato?

Che il Bellini piace a tutti. Alla pinacoteca di Brera sono esposte le opere del pittore Bellini, ma alla fine il drink creato da mio padre è diventato più famoso dell’artista.

Come fa a mantenersi così a quasi90 anni?

Merito dei miei due Martini al giorno, senza oliva. Il Martini deve essere asciutto, pulito. Un drink primordiale. Da sette anni però ho dovuto smettere con l’alcol.

Una lezione indimenticabile?

Avevo 15 anni, era un sabato di settembre. C’era la fila fuori dal bar, tante persone aspettavano di entrare. Il primo era un signore solo, e mio padre gli dette l’unico tavolo non prenotato, quello da dieci persone. Io rimasi colpito, e lui: «Dai sempre il tavolo alle persone sole perché non hanno nessuno con cui parlare». Ho imparato molto anche da mio figlio Giuseppe. Lui ha la visione, fa quello che avrebbe fatto suo nonno se avesse continuato a vivere.

Si narra che suo figlio, nel ristorante di New York, non fece mangiare un critico culinario del New York Times.

Mio padre e mio figlio si assomigliano, sono entrambi imprevedibili. Anni fa avevamo guadagnato due stelle Michelin ma mio padre sosteneva che non fossero importanti. Un giorno, era il 1985, entra nel nostro ristorante di New York appena aperto un critico famoso e Giuseppe, mio figlio, gli dice che il cuoco non voleva cucinare. Al che il giornalista chiede: «E che cosa possiamo fare?». E Giuseppe: «Posso licenziare il cuoco ma lei non mangia lo stesso». E così ci massacrarono.

Che cosa spera oggi per la sua città, Venezia.

Le città sono fatte di pietre e cittadini. Le pietre ci sono, ma non ci sono più i veneziani. Facciamoli tornare.

Dei politici non mi ha parlato.

Lei non ha idea, di quando i politici nominavano giornaliste le loro amanti. Poi queste giovani venivano qui a intervistarmi e nessuna sapeva farmi le domande. Lei mi ha fatto le domande giuste. E di cognome si chiama Venezia. Merita un Bellini.


Il video di Arrigo Cipriani che prepara il suo Bellini si trova sulla pagina Instagram di Domani.

Arrigo non ama parlare con la stampa e per questa intervista ringrazio la famiglia Cipriani, in particolare le nipoti Anna, Sofia e Giulia Pittini, care amiche, figlie di Carmela Cipriani.

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