Secondo la filosofa Donatella Di Cesare ogni rivolta è espressione della «pura e intrattabile rinuncia al potere», eccezion fatta per la rivolta non violenta. Mentre Heidegger, da teorico del nomadismo e dell’emigrazione, aderendo al nazismo ha solo «scelto la rivoluzione sbagliata»
- Nel suo recente Il tempo della rivolta, Donatella Di Cesare tesse l’elogio di tutte le rivolte, senza differenziarle tra loro e senza dare indicazioni sul mondo che dovrebbe scaturirne.
- Tuttavia l’elogio un escluso ce l’ha: è la rivolta non violenta. Si tratta, per Di Cesare, di un modo di riconoscere comunque l’autorità statale, e per questo va delegittimata indipendentemente dai risultati che storicamente ha ottenuto.
- Anche sul piano filosofico, Di Cesare non va troppo per il sottile, e stravolge i testi fino a trasformare Heidegger, filosofo nazista e antisemita, in un teorico del nomadismo, della migrazione e dell’accoglienza.
Animata dal virtuoso proposito di smentire il mantra neoliberista «There is no alternative», la filosofa Donatella Di Cesare ha abbandonato gli innocui studi di storia del pensiero per passare a scrivere libri incendiari e barricaderi, in cui preconizza la «sospensione del tempo storico», si propone di «affrancare l’agire dalla economia dei fini», e annuncia «l’impaziente epifania del dopodomani».
Veramente i contorni di questo oltre e di questo altro sono così indefiniti, così inafferrabili, così immersi nella nebbia più fitta che risulta difficile che qualcuno possa capire di che si tratta. Se il tenore della diagnosi epocale è questo, temiamo che i nemici di Di Cesare possano dormire sonni tranquilli. A inquietarci, però, non è la vaghezza della meta. Se quello che si vuole è «aprire a possibilità di cui si ignorano i confini», se quella di cui si va in cerca è «una nuova interpretazione dei sogni», ammettiamo che sia fuori luogo, addirittura ineducato, pretendere qualche indicazione più precisa, qualche dettaglio un po’ meno fumoso. Siamo perfino disposti ad ammettere che richiedere contenuti e programmi alla «oltrepolitica anarchica» sia disdicevole e intimamente contraddittorio.
Quel che ci risulta più difficile da digerire è che la medesima vaghezza assoluta, la stessa assenza di discriminanti, l’eguale rifiuto di qualsiasi lettura approfondita dei fenomeni venga applicato anche agli eventi storici del passato e del presente, e che la stessa sorte si riservi al pensiero filosofico.
Proteste e rivolte
Cominciamo dagli avvenimenti storici. Nell’ultimo libro, Il tempo della rivolta (Bollati Boringhieri, 2020), si tesse l’elogio della rivolta, di qualsiasi rivolta, in quanto espressione della «pura e intrattabile rinuncia al potere» e si citano, alla rinfusa, per il presente, i black bloc e Anonymous, i disordini a Hong Kong e quelli nelle strade di Buenos Aires, la cancel culture e le proteste a Beirut, e potremmo continuare.
Ora, qualcuno potrebbe ostinarsi a pensare che qualche differenza tra chi scende in piazza per salvaguardare quel che può del detestato (da Di Cesare) ordinamento liberal-democratico, come nella ex colonia britannica, e chi si ribella all’ennesimo default argentino (uno dei tanti imputabili, in tempi diversi, sia a rigidità monetariste sia a lassismi populisti) ci sia. Oppure potrebbe ostinarsi a credere che, un conto siano le proteste e un conto le rivolte, e che confonderle non rende giustizia né alle une né alle altre. Si vorrebbe poter capire, per esempio, in che senso le proteste contro il caro-carburanti e i blocchi alle rotonde dei gilet gialli siano comunque rivolte, e quindi redente agli occhi di Di Cesare in quanto annunciatrici dell’oltre, e non invece espressione di chi vorrebbe continuare a vivere come è abituato a fare, incurante di ogni conseguenza.
Direte che qualcun altro potrebbe fare quelle analisi storiche, economiche, sociologiche che Di Cesare non fa. Ma, attenzione! Non è che si limita a non farle, le vieta e le proibisce, con un argomento che merita di essere analizzato. Non sapete vedere il filo rosso che lega tutte queste rivolte? Vi rifiutate di considerarle articolazioni di un movimento globale? Vi ostinate a pensare che qualche differenza ci sia? È perché volete avallare lo status quo, perché avete già deciso di schierarvi dalla parte della conservazione.
Mirabile argomento, degno della Santa inquisizione: se negate il diavolo è perché siete preda del demonio, perché negare diabolum est diabolo credere. Che neanche Di Cesare sia in grado di indicare ciò che unisce i fenomeni di cui asserisce l’omogeneità, che quando ci prova quello che riesce a dire è che formano «una costellazione» in senso astronomico, diventa allora un titolo di merito.
Uno stalinismo particolare
Vaga quanto si può esserlo nel delineare le premesse e gli scopi, Di Cesare è invece precisissima nell’individuare i nemici. Che sono, tanto per cambiare, alla rinfusa: il discorso normativo della democrazia liberale; la socialdemocrazia; lo spazio politico democratico, e l’antitotalitarismo. Sì, avete letto bene, il nemico non è il totalitarismo, ma l’antitotalitarismo, e la povera Hannah Arendt si prende un bel rimbrotto per aver definito totalitario lo stalinismo, «incurante delle sue particolarità».
In attesa che Di Cesare ci illustri le particolarità (evidentemente ai suoi occhi positive) dello stalinismo, prendiamo però atto che il suo nemico numero uno, quello al quale riserva il trattamento peggiore, non è nell’elenco appena stilato, ma è rappresentato dalla rivolta non-violenta, dalla disobbedienza civile, rea di riconoscere pur sempre l’avversario e di non mettere in questione lo stato, oltre che di mostrare un ostinato «prurito costituente».
In effetti bisogna ammettere che Di Cesare in questo caso è singolarmente felice nello scegliere i suoi esempi, che sono, pensate: la rivolta di Gandhi, I have a dream di Luther King, e la lotta di Nelson Mandela. Ognuno vede che si tratta di movimenti che hanno ottenuto risultati evidentemente risibili per chi pensa l’oltre e rifiuta l’adattamento pragmatico al corso del mondo: l’indipendenza del sub-continente indiano, l’impulso decisivo al superamento dell’apartheid, la fine del regime razzista in Sudafrica. E tutto senza spargimento di sangue. Volete mettere con il pathos delle rivolte fallite celebrate da Di Cesare, rivolte annegate nel sangue sparso tanto dai rivoltosi quanto dalla repressione, come nella jacquerie medioevale, o sepolte dalla loro evidente impraticabilità, come la distruzione delle macchine preconizzata dal luddismo? Volete paragonare il fascino che hanno gli eroi sconfitti, soprattutto se ci si guarda bene dal chiedersi perché lo furono?
I particolari
Ma sono ingiusto. Di Cesare è filosofa, e l’informazione, la precisione, la profondità di penetrazione gliela dobbiamo richiedere nel suo campo. E lei non si sottrae, perché prima della apologia delle rivolte ha pubblicato un libro teorico, che si intitola Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri, 2018). Certo, in questo libro c’è un po’ di enfasi che in un pensatore meno sollecito per le sorti del mondo troveremmo eccessiva, la filosofia come «estasi incompresa», il pensiero dei filosofi che è il solo «alato», il filosofo «chiamato da voci lontane in un altrove indefinito», ma converrete che è il minimo che possa capitare a chi nella filosofia vede «il salto messianico dalla necessità alla libertà», e rifiuta in toto la filosofia corrente, ridotta «ad addetto stampa della democrazia», e alla «subalternità alla scienza, alla politica, alla economia». In compenso, sarà ripagato da scoperte strabilianti. Ci limitiamo a segnalarne tre.
La prima è quella di un Heidegger teorico del nomadismo e dell’emigrazione. E pensare che noi ci ostinavamo a vedere in lui il filosofo del Perché restiamo in provincia? (Berlino gli sembrava troppo cosmopolitica per lui abituato a Friburgo), il prigioniero del folclore strapaesano della capanna di Todtnauberg, e il teorico razzista che toglieva la dedica al suo maestro Husserl, ebreo. Ma no: quel che conta è che Heidegger si concentri nella «critica alla democrazia liberale», e quanto all’adesione al nazismo, ha solo «scelto la rivoluzione sbagliata».
La seconda è quella di un Nietzsche addolorato per la perdita dell’aldilà. Forse si è pentito anche di aver annunciato la morte di Dio e, sicuramente, di aver scritto L’Anticristo ed Ecce Homo.
La terza è quella di un Benjamin che «lotta per il risveglio dallo spazio collettivo». Non capite come ci si possa risvegliare da uno spazio? In effetti avete ragione, perché nel testo (nella traduzione italiana) c’è scritto «risveglio dal sogno collettivo». Ma la filosofa dell’oltre è andata oltre, al testo tedesco. Solo che ha letto “spazio” invece di “sogno” (due parole che in tedesco differiscono solo per una T, Raum/Traum), e ha corretto anche la traduzione esatta. Ma che volete che sia, quando si ha di mira il totalmente altro.
Forse però sono fatti come questo che ci spingono a tenerci stretto il motto galileiano: «Determinare precisamente tutti i particolari, che è il vero modo di intender le cose», anche se viene da uno scienziato e la scienza, come dice Heidegger e Di Cesare ripete, «non pensa».
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