Apre il 27 settembre a Palazzo Strozzi una mostra antologica di una delle fondatrici del movimento del Color Field. La liquidità della pittrice newyorkese è stata spesso accostata a qualcosa a che avesse a che fare con le mestruazioni, nonostante le sue smentite. Naturalmente questa lettura è stata accantonata negli ultimi anni
Il primo ad abbandonare la pittura da cavalletto per dipingere su una tela adagiata a terra senza avvalersi del pennello per stendere il colore sulla superficie è stato Jackson Pollock. Era il 1947. Sei anni dopo, Helen Frankenthaler ha realizzato Mountains and Sea facendo scorrere del colore molto diluito su una tela grezza di grande formato stesa a terra.
Piuttosto che il pennello, Frankenthaler utilizza delle spugne e le mani nude. La tela non trattata consente al colore di assorbirsi lentamente a macchie, assumendo così particolari connotazioni. È il 1952, e la giovane Helen ha 23 anni. Tre anni prima, poco dopo essersi trasferita a New York, aveva iniziato una relazione con Clement Greenberg, il critico riconosciuto come il maggior teorico dell’Action Painting. Greenberg è stato per l’Espressionismo astratto americano quel che André Breton è stato per il Surrealismo.
Giovanissima, Frankenthaler è dunque la compagna del critico più autorevole degli Stati Uniti e frequenta i protagonisti della scena dell’arte americana. Nel 1954 incontra Morris Louis e Kenneth Noland, che erano andati a New York per incontrare Clement Greenberg. I due fanno propria ed elaborano in chiave personale la tecnica di “imbibizione a macchia”. Nasce così il movimento del Color Field, di cui i tre artisti diventano i protagonisti. Tutto avviene nell’arco di pochi anni.
La tecnica
Frankenthaler versava colore diluito con trementina sulla tela grezza e lo spalmava poi con le mani o, come già detto, servendosi di spugne. Non che escludesse del tutto il pennello, il cui uso però in quelle prime opere diventava ininfluente. In questi dipinti le diverse masse liquide di colore, nel dare vita a combinazioni dinamiche, fanno sì che l’opera assorba il carattere dell’imprevedibile che accompagna l’esistenza umana, del caos che la governa, dal momento che non tutto è controllabile e che le cose finiscono per mostrarsi ai nostri occhi più per quel che immaginiamo siano che per quello che sono realmente.
Da qui il titolo Mountains and Sea dato a un dipinto che con il paesaggio non ha nulla a che vedere. Non ci sono in esso riferimenti al dripping di Pollock, tuttavia il dipingere utilizzando colori molto liquidi su una tela stesa al suolo collega le diverse tecniche utilizzate dai due artisti, tanto che Morris Louis definì Mountains and Sea «un ponte tra Pollock e ciò che era possibile».
A Frankenthaler Palazzo Strozzi dedica adesso una mostra curata da Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné. Includendo anche opere realizzate negli ultimi anni della sua vita – è morta nel 2011 – la mostra affronta l’intero arco della sua carriera e testimonia come l’arte di Frankenthaler sia progressivamente mutata nel tempo, facendo riscontrare un forte distacco tra le opere realizzate tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta e quelle dagli anni Ottanta in poi.
La mostra include anche lavori di artisti che hanno segnato la scena dell’arte astratta di quegli anni: Jackson Pollock, Morris Louis, Robert Motherwell, Kenneth Noland, Mark Rothko, David Smith, Anthony Caro e Anne Truitt. Con Motherwell, Frankenthaler è stata sposata dal 1958 al 1971, anno in cui divorziò per i problemi di alcolismo di lui. (Si risposò nel 1994 con un banchiere d’investimento). Tra le opere ospiti in mostra spicca un superbo dipinto di Morris Louis, artista scomparso nel 1962, che dimostra una maggiore padronanza della tecnica di “imbibizione a macchia”, oltre a un maggior controllo dello spazio e delle masse pittoriche.
Negli anni Sessanta e Settanta nelle tele di Frankenthaler le campiture di colore diventano più larghe e più nette e in più casi si avvicinano ad aree geometriche più definite, con un maggior controllo della forma. Nei decenni successivi le diverse elaborazioni formali portano l’artista a creare visioni atmosferiche che favoriscono l’interazione e sovrapposizione dei colori. Gocce e strisce sulla superficie conferiscono poi maggior movimento all’insieme.
Nella mostra di Firenze un dipinto come The Human Edge (1967), con le sue forme più controllate e in qualche modo ordinate, è un esempio della tendenza dell’artista a sperimentare le potenzialità della geometria. Cambiano invece registro le opere successive, dove echeggiano atmosfere surrealiste che in alcuni casi fanno pensare a Miró (Ocean Drive West # 1; Cathedral, 1982; Madrid, 1984) mentre in Fantasy Garden e in Borrowed Dream, entrambi del 1992, si avverte l’eco dei dipinti astratti di Gerhard Richter.
Questi come altri lavori testimoniano l’irrequietezza di chi, non volendo rimanere ancorata a una formula, è pronta ad aprire a scenari che, complici i titoli, spingono a individuare nell’opera elementi figurativi e narrativi che non ci sono. In realtà i titoli dati dall’artista non hanno una vera relazione con il dipinto, che è privo di soggetto. O meglio, si tratta di dipinti in cui il soggetto è la pittura stessa, il metodo che l’ha generata e il linguaggio che ne consegue.
«Dolce e poco ambiziosa»
La non aderenza del titolo al dipinto non è una novità. Basti ricordare che Pollock delegava alla scelta dei titoli dei suoi dripping due vicini di casa, il traduttore di letteratura francese e tedesca Ralph Manheim e sua moglie Mary, i quali tendevano a evocare riferimenti letterari estranei all’artista.
Frankenthaler è stata senza dubbio un’artista di successo, la sua carriera e la sua vita privata sono state tuttavia segnate anche dalle pesanti critiche di colleghi. Nel recensire una mostra del 1953, il Times stigmatizzò la sua pittura come «dolce e poco ambiziosa». Ancor peggio, nel 1957 il pittore Barnett Newman la accusò di fare un’arte che prendeva scorciatoie, spingendosi a scriverle che era giunto per lei il momento di imparare «che l’astuzia non è ancora arte anche quando la mano che si muove sotto la pennellata sbiadita in modo così zoppicante nel tentativo di fare arte è così abile da apparire tale».
Frankenthaler ha subito critiche palesemente sessiste, che associavano la liquidità dei suoi colori al fluire del sangue mestruale. Interpretazione fortemente rigettata dall’artista, peraltro memore delle critiche sprezzanti a lei rivolte da un’altra grande pittrice dell’epoca, Joan Mitchell. Autrice di una pittura muscolare, Mitchell affrontava la tela in un corpo a corpo che lascia avvertire la forza e la velocità delle pennellate. Tanto Mitchell lascia percepire la materia della pittura quanto Frankenthaler lascia che, nelle opere realizzate con la tecnica di imbibizione a macchia, il colore tenda a diventare tutt’uno con la superficie, quasi fosse la traccia di un evento naturale.
Creando un perfido parallelismo tra il sangue mestruale su un assorbente e il colore liquido che in Frankenthaler impregna lentamente la tela, Mitchell la definì «pittrice di Kotex», marchio americano di assorbenti mestruali. Curioso notare che una critica così sessista le fosse stata rivolta da una pittrice. «Frankenthaler veniva spesso criticata in termini palesemente sessisti, lasciando intendere che la liquidità della sua pittura avesse qualcosa a che fare con le mestruazioni», mi dice Peter Halley, tra i più importanti astrattisti americani viventi. «Naturalmente questa critica è stata accantonata negli ultimi anni», conclude l’artista.
Nella sua vita Frankenthaler ha conosciuto e frequentato protagonisti e personaggi che rivestono un ruolo di primo piano nella storia dell’arte americana, e non solo. Ma questo è un capitolo a parte. Non sarebbe di che sorprendersi se alla sua vita fosse dedicata una serie su Netflix.
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