Tornano per Mondadori Tutte le poesie di uno dei maggiori poeti della seconda metà del Novecento: come pochi ha saputo ritrarre la sua città, tra storia e dimensione privata
- Luciano Erba (1922-2010) fu tra i più originali cantori di Milano. Erba l’ha voluta scandagliare nelle pieghe più nascoste e frementi, dove l’insieme urbano, la sua rigidezza e spigolosità, convivono con un guizzo, un fiore, un colore improvviso
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Francesista, ha insegnato all’Università Cattolica per tutta la vita. Le sue raccolte hanno vinto i maggiori premi, il Viareggio, il Bagutta, il Montale-Librex, il Mondello, il Pen Club.
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La grande lezione di Erba è far entrare la Storia per rifrazioni, puntando su un oggetto rivelatore: bicchieri, fiori, occhiali, la ferrovia. La sua città è reale e nello stesso tempo non lo è
Si farebbe un grosso torto alla storia della poesia italiana della seconda metà del Novecento (e dei primi anni Duemila) se non si insistesse nel dare il giusto ruolo a Luciano Erba. Accanto a Montale, Caproni, Penna, Zanzotto, Amelia Rosselli, tutti gli altri e altre, tra i grandi della nostra epoca è ora che trovi il suo giusto spazio anche il poeta milanese.
Oggi che si celebra il suo centenario e che Mondadori manda in libreria la monumentale edizione tascabile di Tutte le poesie (a cura di Stefano Prandi, con una introduzione di Maurizio Cucchi), è il momento di scoprirlo o riscoprirlo.
Senza tempo
Luciano Erba è infatti uno dei poeti più appassionanti che si possano leggere oggi. A dodici anni dalla sua scomparsa è più vivo che mai. Perché? In primis, perché è un poeta in qualche modo classico, senza tempo, quantomeno il tempo esteriore, gli anni. Esistono invece le ore, i minuti, i momenti, gli attimi («Questo azzurro di luglio senza te/è attraversato da troppi neri rondoni/che hanno un colore di antenne…»). E di questi attimi, la potenza sintetica della sua poesia cattura l’essenza nelle cose più comuni, il cielo (le antenne), gli oggetti quotidiani senza importanza («senza design», scriveva); sguardi sul mondo, rapidi, rubati, nei quali si concentra tutta l’essenza della vita («Siepe di robinia/che segui la strada ferrata/ti lascio i miei pensieri…»).
Poeta, Luciano Erba, seducente anche per un altro importante motivo: la sua attenzione per la dimensione naturale, i colori, l’inesprimibile desiderio di altrove che la città – suo palcoscenico privilegiato – provoca con dolore, e spesso tradisce. E la città è Milano.
Luciano Erba fu tra i più originali cantori di Milano, città – specialmente nelle sue trasformazioni postbelliche e post-boom – non così accarezzata da uno sguardo elegiaco. Erba invece l’ha voluta scandagliare nelle pieghe più nascoste e persino frementi, dove l’insieme urbano, la sua rigidezza e spigolosità, convivono con un guizzo, un fiore, un colore che all’improvviso traducono un sentimento privato («Per quella ruggine che regnava invisibile/per quel sole che scendeva più vasto/in Piemonte in Francia chissà dove/mi pareva di essere in Europa;/mia madre sapeva benissimo/che non le sarei stato a lungo vicino/eppure sorrideva/su uno sfondo di dalie e viole ciocche»).
Tra Milano e il mondo
A Milano, Luciano Erba nasce in una famiglia piccolo borghese e cresce nei quartieri allora periferici di quella che poi diventa la zona Fiera, area brulicante in continua trasformazione. In quella stessa zona, a metà di una corta via di palazzetti eleganti, il poeta ha abitato fino alla fine, dopo una lunga carriera accademica alla Cattolica come professore di Letteratura francese, traduttore e critico letterario.
Sulla sua importante opera di traduttore, l’editore Interlinea ripubblica ora l’antologia I miei poeti tradotti, a cura di Franco Buffoni, dove troviamo le versioni di grandi voci francesi, da Francis Sponde a François Villon, da Paul Claudel a Blaise Cendrars. Il prossimo 21 settembre, proprio alla Cattolica, il poeta verrà ricordato con un reading delle sue traduzioni.
Discreto, lo sguardo tra il sornione e l’ironico, Erba era in realtà uomo dalla cultura internazionale e cosmopolita. Durante la guerra, disertando la chiamata dei fascisti di Salò, aveva trovato riparo in Svizzera, tra cantoni di lingua tedesca e francese, poi internato in campi di lavoro. A Losanna vince una borsa di studio “di soccorso” per i giovani studenti e entra all’università. A fine conflitto, si trasferisce a Friburgo dove insegna Gianfranco Contini, che sarà tra i primi lettori delle sue poesie. Dopo il rientro in Italia lavora come giornalista, si laurea alla Cattolica e poi riparte in direzione Parigi, traducendo Eugenio Montale in francese.
Gli anni Cinquanta lo vedono di nuovo a Milano, insegnante presso i padri Barnabiti, mentre frequenta il circolo intellettuale del mitico Blu Bar non lontano dalla casa del Manzoni: c’erano Gillo Dorfless, Piero Chiara (con il quale curerà un’antologia di poeti), Nelo Risi, Maria Corti, Carlo Bo. Luciano Anceschi lo inserisce in un’antologia che intitola Linea Lombarda. Ma Erba non si ferma a Milano, viaggia in Europa e negli Stati Uniti, dove insegna tra il 1963 e il ’66. Le sue raccolte, come Il male minore, Il nastro di Moebius, L’ipotesi circense, hanno vinto i maggiori premi, il Viareggio, il Bagutta, il Montale-Librex, il Mondello, il Pen Club.
La linea milanese
Quella innalzata da Anceschi era un’etichetta abbastanza sfumata e dai contorni imprecisi: tra i lombardi c’era, per esempio, Vittorio Sereni, il grande poeta e futuro direttore editoriale di Mondadori. Insomma poeti diversissimi tra loro. Se c’è una linea di Erba, piuttosto, più che lombarda è milanese.
In questo concretissimo scenario urbano il poeta affina i suoi strumenti. Maurizio Cucchi parla, con felice intuizione, di «petite musique», una musica cioè sommessa, fatta di poche e scelte note ricorrenti, che però – come in un Erik Satie – sanno sprigionare da un lato un certo mistero, dall’altro si affidano a una ancor più sommessa ironia. Per Erba, l’ironia era strumento ottico di decifrazione del reale dietro al vero, era la maniera di mettersi nei suoi versi un po’ di lato.
La sua città è reale e nello stesso tempo non lo è, è fatta di sogno e rievocazione, dove i piani si intersecano. I suoi tranvieri sono «metafisici», e a specchiarsi nei vetri del suo terrazzo dove circolavano, silenziosi, gli amati gatti neri, Erba vedeva sé stesso (la propria vita) come quella di un Ippopotamo (titolo di una delle sue raccolte più belle) che si apre una galleria «tra foglie nate a forma di cuore», tra «gli ostacoli divelti, le improvvise/irruzioni d’azzurro nelle tenebre», e «forse questo e qualsiasi tracciato/come a Parigi la Neuilly-Vincennes/o l’umile “infiorata” di Genzano/o un canale su Marte, altro non sono/che eventi privi d’ombra e di riflesso/soltanto un segno che segna se stesso».
Bellissimi gli autoritratti più espliciti, senza il ricorso della metafora: «Uomo vecchio in città/disperso su tronchi secondari di ferrovia/o con un piatto di lesso/davanti a tetti umidi di pioggia./Tutto qui il tuo qui e ora?/Interroghi l’alfabeto delle cose/ma al tuo non capire niente di ogni sera/sai la risposta di un mazzo di rose?».
È proprio in queste interrogazioni, nel gusto petite bourgeois delle cose comuni che accompagnano la nostra giornata, che il tempo si libera del suo incessante scorrere e diventa territorio più vasto, dove il poeta (l’uomo) si muove alla ricerca di un senso «cercando bacche e raddrizzando torti», o altrove, «saltellando tra me di palo in frasca».
Gli oggetti e la Storia
C’è però anche una poesia di Erba che è più ancorata alla testimonianza del tempo, molto spesso anche qui riferita al mutare della città, alle sue presenze e metamorfosi. La grande lezione di Erba è far entrare la Storia per rifrazioni, puntando su un oggetto rivelatore: «Le giovani coppie del dopoguerra/pranzavano in spazi triangolari/in appartamenti vicini alla fiera/i vetri avevano cerchi alle tendine/i mobili erano lineari, con pochi libri/l’invitato che aveva portato del chianti/bevevamo in bicchieri di vetro verde/era il primo siciliano della mia vita/noi eravamo il loro modello di sviluppo».
Qui un bicchiere «di vetro verde» per raccontare una sociologia e un frammento storico, altrove, come in A scuola di sguardo, sono gli occhiali: «Certi occhiali, ecco il punto,/non sono fatti per vedere/ma per essere visti/sono quelli caduti in una rissa, o/in un cassetto il pince-nez di mio nonno/(i miei li misi al ginnasio/non leggevo le minuscole greche)/addirittura vi sono occhiali che parlano/quelli a mucchi nei campi di sterminio/quelli della nuotatrice, su uno scoglio».
Ecco perché Luciano Erba è uno dei grandi; a tanta sottile e sfumata leggerezza di tocco corrisponde la perfezione del ritmo musicale e la nitidezza dell’immagine. Eppure, tutto resta avvolto in un inebriante velo: Erba non lo solleva, soltanto lo scuote.
Molti anni fa andai a casa sua per una intervista: vidi il terrazzo, i gatti, il suo sguardo attento e un po’ malinconico difronte alle solite domande. A un certo punto disse: «Io amo molto i tetti e abito all’ultimo piano. Quando parto da Linate guardo i tetti e le terrazze e il verde che si vede è incredibile. Però andare sui tetti vuol dire scapparsene». Era già una poesia.
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