- Esiste ancora in Italia un repubblicanesimo che non sia solo blando patriottismo, ma quella passione primaria per la res publica che è alla base di ogni esperienza di autogoverno?
- Come spiegano Charles Taylor, Patrizia Nanz e Madeleine Beaubien Taylor, le democrazie possono superare la crisi attraverso la riattivazione a livello locale di processi di azione comunitaria.
- Anche nel nostro paese, che si prepara a vivere una delle campagne elettorali più sottotono della storia, questo è possibile grazie alla presenza di un retroterra repubblicano all’opera silentemente nella società civile.
Mentre ci accingiamo a partecipare svogliatamente a una delle campagne elettorali più sottotono della storia del nostro paese, viene spontaneo chiedersi se esista ancora una tradizione politica repubblicana degna di questo nome in Italia oggi.
Per tradizione politica repubblicana non intendo quella sorta di blando patriottismo costituzionale che dalla presidenza Ciampi in poi è diventato lo strumento con cui le figure più carismatiche di una classe politica in declino hanno cercato di riaccendere in una popolazione politicamente sempre più cinica la fiducia nel valore delle istituzioni democratiche.
Non sto pensando, insomma, a cose pur importanti come il senso dello stato, all’esempio dei suoi servitori più integerrimi o ai suoi simboli ormai in gran parte desueti, ma proprio alla passione primaria per la res publica, all’intuizione che sta alla base di ogni esperienza felice di autogoverno: che esista, cioè, uno spazio di azione che non è primariamente né mio né tuo, ma irriducibilmente nostro, e che sia proprio la sua esistenza a rendere possibile una condizione politica di non dominio e, di conseguenza, un senso di efficacia che non ha equivalenti nella vita privata delle persone, non in famiglia (sia che siamo figli o genitori), non sul lavoro (sia che siamo imprenditori o dipendenti) e non nel tempo libero (sia che lo passiamo in mezzo alla natura o immersi nelle consuetudini tipiche di una società affluente).
Ideali di autogoverno
Alla base di qualsiasi dedizione personale all’ideale di partecipazione democratica su cui poggia questa variante minimale di repubblicanesimo non può che esserci una condizione vissuta di libertà insieme agli altri e non contro di essi. Non vorrei essere frainteso: non sto dicendo che si tratti di un’esperienza banale, trasparente. Tra i suoi presupposti, infatti, c’è una qualità specifica dell’immaginazione, che non è facile da descrivere in maniera convincente. Di certo è la qualità tipica di una facoltà esplorativa.
Quando partecipiamo a un’elezione locale o nazionale, diamo il nostro contributo alla vita di un partito o di un movimento politico, aderiamo a una protesta, una manifestazione, una petizione, o anche solo discutiamo di politica con gli amici, ci immaginiamo questi singoli gesti privi di conseguenze immediate come parti di un processo più ampio il cui effetto complessivo è qualcosa di simile a un bene architettonico: l’autogoverno, appunto, ossia l’essere governati da un regime che ha come fine non la nostra sudditanza, ma il nostro potenziamento (il vocabolo inglese empowerment funziona molto bene in questo caso) il cui scopo, cioè, è renderci un po’ più adulti, un po’ più capaci, un po’ più forti, un po’ più in grado di fare fronte alla realtà di quanto non accadrebbe se fossimo abbandonati a noi stessi nella natura oppure in una società dominata da forze su cui non abbiamo alcun controllo.
A pensarci bene, si tratta della stessa capacità esplorativa a cui ci affidiamo quando vogliamo allargare la cerchia delle nostre relazioni personali significative. Anche in questi casi, infatti, anticipiamo nell’immaginazione qualche caratteristica attraente della persona a noi ancora ignota ed è questo che ci motiva a conoscerla, a fare uno sforzo per uscire dal nostro guscio e incontrarla nella vita di ogni giorno.
A quel punto, però, il fulcro dell’esperienza deve rapidamente spostarsi dall’immaginazione alla realtà che, se ci gratificherà, lo farà in una maniera mille volte superiore all’immaginazione. È all’opera un circolo, qui, e lo stesso vale per le esperienze di autogoverno. Affinché diventino un’opzione concreta per noi, dobbiamo confidare nel fatto che vi sia un qualche tipo di beneficio attuale, anche se immateriale, nel dedicarsi a un bene che è irriducibilmente pubblico e quindi “proprio” solo in un senso indiretto. Dopo di che, tocca alla realtà fare il resto. La vita democratica, in effetti, è una grande scuola di realismo, ma di un realismo vitale, non mortificante, persino avventuroso. La res publica è non a caso anzitutto una res, una “cosa”: solida, materiale, pregnante.
Crisi d’immaginazione politica
Ebbene, oggi la campagna elettorale in cui siamo stati gettati dalla caduta del governo Draghi (estiva, inattesa, quasi “aliena” dopo la lunga sospensione della normale dialettica democratica dovuta all’emergenza sanitaria) sembra una prova inconfutabile della crisi in cui è precipitata da alcuni anni l’immaginazione politica degli italiani. Un simile caso particolare di disaffezione in un contesto più ampio di disillusione generale amplifica, anche nelle persone che ancora sentono un legame di lealtà verso le istituzioni nate dalla Resistenza, la sensazione della vanità di ogni sforzo volto a tradurre in realtà il sogno dell’autogoverno repubblicano.
Lo stesso fallimento dell’astruso modello di democrazia “rousseauiana”, incarnato dal Movimento cinque stelle e nutrito più di fantasie tecnologiche al limite della distopia che non degli immaginari repubblicani che per secoli hanno agito in maniera carsica nella storia d’Italia, sembra aver certificato la fine di ogni speranza nel rinnovamento dello spirito civico nazionale.
Ricostruire dal basso
Ma davvero non esiste un modo efficace per ridurre il divario tra immaginazione e realtà nella vita delle democrazie contemporanee e contrastarne i processi degenerativi? In un libro che suona ottimista fin dal titolo (Una nuova democrazia: come i cittadini possono ricostruirla dal basso, Il Margine 2022, € 15) Charles Taylor, Patrizia Nanz e Madeleine Beaubien Taylor provano non tanto a convincerci, ma a mostrarci che esistono, al contrario, ottimi motivi per continuare ad avere fiducia nelle gigantesche promesse incapsulate nell’ideale moderno dell’autogoverno del popolo.
Gli esempi che ci vengono dispiegati davanti agli occhi sono tutti casi di graduale rieducazione e rigenerazione degli immaginari democratici attraverso una riattivazione, per lo più locale, del senso dell’efficacia dell’azione comune che, verso la fine del testo, assume un respiro quasi utopico.
Alla base di questo approccio originale c’è un’enfasi, a cui purtroppo non siamo più abituati, sulla pedagogia democratica, cioè su un apprendimento pratico dell’abc delle abitudini repubblicane da cui non può prescindere chiunque voglia ridare slancio alla democrazia ricostruendone le fondamenta.
Se alla base della crescente sfiducia dei cittadini nella democrazia come sistema c’è un’esperienza diffusa di declassamento – il great downgrade come lo ha chiamato in un altro scritto recente Charles Taylor (Degenerations of Democracy, Harvard University Press, 2022) – e questo consiste sia in un effettivo impoverimento economico sia in una perdita di stima in sé stessi, allora non resta altro da fare che provare a trasformare la spirale discendente di una delusione che diventa rapidamente disillusione in un circolo virtuoso («un contrattacco democratico») che punti, nel migliore dei casi, a generare uno «spazio condiviso per l’autodeterminazione».
A questo scopo è essenziale, per esempio, promuovere la rinascita delle comunità deliberative in aree colpite dalla deindustrializzazione. Oppure ridestare nelle persone la voglia di agire insieme coinvolgendo la popolazione nelle scelte strategiche degli enti locali o, quando le questioni riguardano il futuro di una nazione o dell’intera umanità, anche degli stati o delle unioni sovranazionali, valorizzando l’esperienza e la creatività della gente comune: il capitale sociale del demos, insomma.
Retroterra repubblicano
Il punto, a conti fatti, è capire se questo tipo di ragionamento sia applicabile anche al caso italiano. La mia impressione, sia come cittadino sia come studioso di filosofia politica, è che esista praticamente dappertutto nel nostro paese un immaginario sociale repubblicano che è già silentemente all’opera nella società civile, sebbene le sue potenzialità siano significativamente limitate da cause sia strutturali sia contingenti.
Da noi non mancano, cioè, le condizioni abilitanti per la pratica dell’autogoverno democratico, mentre sembrano latitare le condizioni per la sua fioritura. Alcuni degli ostacoli alla piena valorizzazione di tale retroterra repubblicano derivano dallo scacco di almeno tre transizioni storiche recenti: il repentino tramonto delle culture politiche novecentesche tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta; la destabilizzante crisi istituzionale degli anni Novanta; la mancata unificazione politica europea dopo la nascita dell’euro.
Da un punto di vista strutturale, l’effetto rigenerativo delle pratiche e degli immaginari locali è invece ostacolato da una percezione della politica, diffusa un po’ ovunque oggi sul nostro pianeta, che ne favorisce un rigetto aprioristico, soprattutto tra i giovani. Questo difetto di immaginazione spinge a vedere nella politica soltanto partigianeria, scontri di personalità, se non addirittura una guerra civile latente, e non invece anche un’opportunità insostituibile di azione comune e, tramite essa, di presa di contatto con la realtà. Dato che la politica è un aspetto della vita umana che dipende integralmente dal modo in cui le persone la interpretano, è chiaro che una visione così lugubre è destinata in breve tempo a divenire una profezia che si autoavvera.
Molti di coloro che pensano che la pandemia da Covid-19 sia stata una grande occasione sprecata per il genere umano hanno di norma in mente proprio il senso di discontinuità che si è avvertito globalmente nella primavera del 2020. Non avere approfittato di quell’opportunità storica per recuperare il senso profondo della nostra forma di vita democratica, scavando sotto la scorza di consuetudini superficiali, è stato un errore di cui stiamo cominciando già a pagare il prezzo.
Il punto rimane sempre lo stesso: dobbiamo ritrovare, come singoli e come comunità, una fiducia realistica nella possibilità di cambiare insieme per il meglio. Come si intuisce leggendo Una nuova democrazia, questo “meglio per tutti”, che molti oggi faticano persino a immaginare, si nasconde anche tra le pieghe di parole, come repubblica, democrazia e autogoverno, che conservano una forza evocativa speciale pur a dispetto delle dolorose lezioni di umiltà impartiteci dalla storia politica dell’umanità.
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