- Nel 1974 il gigantismo dei concerti di Emerson, Lake & Palmer constava di tre grandi Tir. Nel 2009 quelli che servivano per il tour degli U2 furono 98
- Quella tournée della band irlandese fu segnata dalle proteste dei residenti, ma è anche diventata un caso di studio per la disciplina dell’ecomusicologia
- Oggi gli sforzi per ridurre l’impatto ambientale dei concerti cadono spesso nel rischio del greenwashing
Nel 1974 il gigantismo dei concerti di Emerson, Lake & Palmer, preistorico supergruppo di rock progressive, constava di un sintetizzatore alto due metri pesante 250 chili, una doppia batteria con un gong enorme montata su di un podio circolare, tre grandi Tir che sul tetto avevano scritto il nome di ognuno dei componenti della band.
Il critico americano Lester Bangs, sarcastico e fondamentalista in fatto di rock, aveva commentato: «Dal momento che c’è una crisi energetica, questi ragazzi sono dei criminali di guerra».
Il tour degli U2
Nel 2009 i Tir necessari a trasportare da una città all'altra il megapalco del 360° Tour degli U2 furono 98. Il collega David Byrne obbiettò timidamente che la cosa gli pareva «eccessiva». I residenti attorno allo stadio di Dublino, dove il gruppo irlandese aveva tenuto tre serate di fila, furono più decisi: inviperiti per i lavori notturni di smontaggio del palco a forma di granchio, bloccarono l’uscita dei camion facendo saltare il complicato piano di trasferimento alla data successiva.
La storia aveva fatto il giro completo: smantellati gli spettacoli dei dinosauri rock, il punk e la new wave aveva finito per sostituirvi i propri. I concerti degli U2 negli stadi erano diventati una esperienza «totale» video-mistico-politica. Lo stadium rock un genere vero e proprio. La crisi del mercato discografico aveva fatto il resto.
Ma nel 2009 già si cominciava a parlare di carbon footprint, l’impronta carbonica: di fronte alle prime polemiche di residenti e ambientalisti gli U2 incaricarono l’agenzia specializzata americana Musicmatters di occuparsi della sostenibilità dell’impresa e, presumibilmente, migliorare la rassegna stampa spostando l’attenzione sull’ecologia.
Bottiglie riciclabili, raccolte differenziate di ogni tipo, spostamenti, vendita di crediti CO2 individuali agli spettatori (che, si seppe, producevano 127 kg di ghg per uno). Nulla rimase intentato. Il megapalco a forma di granchio restò al suo posto, ma la flotta di tir fu ridotta del 10 per cento.
Un calcolo approssimativo stabiliva che gli U2 sarebbero rientrati dell’inquinamento prodotto piantando qualcosa come 20mila alberi attraverso la cosiddetta carbon offset, la compensazione di CO2. Non sappiamo se e quanti alberi furono effettivamente piantati. Il tour ha avuto uno dei maggiori incassi di ogni tempo. Ne è valsa la pena? Per gli spettatori molto probabilmente sì. Per gli organizzatori, la potente multinazionale dei concerti Live Nation, decisamente.
Gli U2 avrebbero potuto sottrarsi al ripetersi di un copione trentennale riducendo la scala del loro spettacolo in nome della sostenibilità. Ma non è accaduto. Per questo il 360° Tour rientra tra i casi di studio dell’ecomusicologia, la disciplina accademica che si occupa da qualche decennio (specie nel mondo anglosassone) degli aspetti materiali della produzione culturale, e di ecologia, paesaggi sonori, rumori del mondo, in maniera molto larga.
Tournée “sostenibili”
Non c’è grande tournée internazionale che oggi non annunci in pompa magna la sua sostenibilità. Billie Eilish, Lorde, Lizzo, Harry Styles (annunciato in tour per il prossimo luglio in Italia) hanno la consulenza di Reverb, l’organizzazione non profit fondata dall'ex chitarrista rock Adam Gardner con sua moglie Lauren Sullivan. Il carnevale giamaicano di Notting Hill a Londra, di ritorno dopo lo stop pandemia, annunciava la sperimentazione di un sound system montato su un camion elettrico (sponsor Spotify).
Le iniziative per la sostenibilità del nuovo tour mondiale dei Coldplay Music of the Sphere, iniziato in Sudamerica la scorsa primavera e atteso in Italia per l’estate prossima, occupano una buona porzione del loro sito promozionale (si raggiungono direttamente dalla homepage alla voce sustainability).
Diviso in 12 punti (energia, spettatori, viaggi, cibo ecc.) l’elenco delle buone intenzioni si apre con l’impegno a ridurre del 50 per cento le emissioni rispetto al precedente tour 2017-18.
«Nonostante i nostri migliori sforzi», leggiamo più sotto, «il tour avrà un impatto ugualmente significativo». Per questo i Coldplay si impegnano a «piantare un albero per ogni biglietto staccato» in progetti di riforestazione già individuati, dalla California ai Carpazi. Le pratiche sono realizzate sotto la sorveglianza dell’Imperial College di Londra e messe in atto da Green Nation, la piattaforma di sostenibilità di Live Nation, cioè gli organizzatori del tour.
In generale, un rapporto controllato/controllore così stretto dovrebbe far storcere il naso, e già alcune delle partnership, specie quelle sui biocarburanti, sono già considerate a rischio greenwashing. Con quali effetti si vedrà. Nella pop music ogni annuncio di occuparsi della propria sostenibilità è stato già pubblicitariamente sufficiente, finora.
«Se l’attività dei marchi sostituisce completamente l’azione pubblica, siamo nei guai», ha commentato Mark Pedelty, autore di uno saggi di riferimento dell’ecomusicologia. «Senza l’attivismo non commerciale difficilmente le industrie sentiranno l’esigenza di cambiare. Il consumerismo verde si trasforma facilmente in greenwashing». Di più, il gigantismo delle grandi tournée fa sì che il greenwashing riguardi non tanto le aziende collegate, ma le band protagoniste.
Sulle spiagge italiane
Alla voce “sostenibilità” il sito del Jova Beach Party – pietra dello scandalo della passata stagione italiana – rimanda a un lungo elenco di azioni non dissimili da quelle dei Coldplay. La (debole) narrazione del Pirata, del falò sulla spiaggia, della festa estiva (il tour si è concluso a Bresso a inizio settembre di fronte a 60mila persone) affianca una debolezza politica evidente: la garanzia “vuota” offerta del Wwf, la presenza di partner a rischio greenwashing come Intesa SanPaolo, A2A, Fileni; il rapporto opaco con i comuni e gli enti locali sull’uso e la pulizia delle spiagge pubbliche; un volume di sponsored content, partnership giornalistiche, marchette vere e proprie spesso oltre il limite di guardia della decenza. Vera o no che sia, la notizia della nascita di 30 tartarughe dopo il concerto sulla spiaggia di Castel Volturno fa come minimo sorridere.
Tornando indietro alla memoria dei concerti italiani ce ne sono stati almeno due “da spiaggia”, entrambi importanti. Quanto green difficile a dirsi. Non si usava. Il festival del proletariato giovanile a Licola (Napoli) dell’estate 1975, che aveva il palco al riparo nella pineta; il festival dei poeti di Castelporziano (Ostia) del 1979 con un palco di 40 metri dal profilo felliniano costruito sulla sabbia verso il mare che alla fine crollò senza che nessuno, per fortuna, si facesse male.
Un pezzo di Estate Romana, forse il più folle, che andò in scena per diverse migliaia di persone su una delle spiagge tradizionalmente più libere del mondo: si videro Allen Ginsberg, Amiri Baraka persino William Burroughs. Tutto salvato nel documentario girato dal regista Andrea Andermann per la Rai, sempre su YouTube, infinita fonte di ispirazione per i personaggi di Carlo Verdone.
Licola, la tre giorni organizzata dai partitini della sinistra extraparlamentare coi dibattiti e i concerti di Toni Esposito, Napoli Centrale, De Gregori, Alan Sorrenti ecc., attirò 70mila ragazzi da tutta Italia sulla costa a nord di Napoli, ma è ricordata pochissimo (ne restano quasi soltanto fotografie) rispetto al suo omologo milanese, il festival di Re Nudo a parco Lambro che nello stesso anno fu teatro di un altro dei drammi politico-generazionali dell’epoca. Su YouTube si trova facilmente un montaggio di un’ora delle immagini bianco e nero girate a parco Lambro dal regista Alberto Grifi e da alcune troupe Rai. Bellissime.
Woodstock 2.0
Consigliato affiancarle alla visione di Trainwreck di Jamie Crawford, il documentario da qualche settimana in onda su Netflix sul fallimento di Woodstock 99, la tre giorni di musica che avrebbe celebrato il trentennale del festival che inventò tutti gli altri, e invece finì con la distruzione completa dell’ex aereoporto militare in cui era stato “rinchiuso” il pubblico sotto il sole, l’immondizia, l’asfalto.
La narrazione dell’originale Woodstock, realizzato nel 1969 nel verde della campagna attorno a New York, era stata quella di una zona staccata dal tempo e dallo spazio, un’utopia ecologica (brevemente) realizzata. Festa in tutti i sensi, famosa perché arrivò così tanta gente che non ci fu possibilità di far pagare il biglietto. Ogni concerto – nel bene o nel male – finisce per confrontarsi con quella memoria.
«Il lavoro che faccio», ha detto Thom York dei Radiohead, «è uno spreco di energia da ogni parte lo si guardi». Nel 2007 i Radiohead furono tra i primi a chiedere di calcolare le emissioni di un tour musicale, comprendendo nel conto i movimenti degli spettatori per raggiungere la venue come dicono gli inglesi.
Nel 2019 i Massive Attack hanno commissionato al Tyndall Center di Manchester un nuovo piano di calcolo e riduzione delle emissioni. Di questo Act 1.5 non faranno parte però i cosiddetti offsets, le compensazioni di CO2, gli alberi piantati, le pulizie. Gli esperti suggeriscono che azioni del genere andrebbero applicate soprattutto alle industrie pesanti. In caso contrario rischiano di essere una scusa per evitare qualsiasi downgrade possibile.
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