Il motore conoscitivo che anima Tre ciotole, Mondadori, il libro di sortilegi che Michela Murgia ha confezionato nell’ultima, formidabile e sincopata stagione creativa della sua vita mortale, è semplice, come tutti i meccanismi davvero infallibili.

Murgia vuole capire se la narrativa sia duttile abbastanza da ospitare, senza deformarli, entrambi i fratricidi demoni gemelli del suo talento, irriducibilmente doppio come quelli di certi poeti che, anche, dipingevano, o giravano film o, per dire, governavano contee e città. Vuole verificare insomma che la lirica della sua prosa più solenne, come la vita dei suoi personaggi più approfonditi, non rendano necessariamente meno coraggioso, meno sillabato e spietato, il senso sociale e politico di quel che sente di dover dire quando prende la penna in mano.

Al contempo, vuole mostrare che la sua vocazione all’impegno, alla chiarezza (persino alla morale) non deve di per sé corrispondere né a una fuga dal calice amaro di certe verità psicologiche, esplorabili forse solo raccontando, né a un volgare compromesso con la leggibilità, con la semplificazione, con il presente.

Voci dispari

Da giocatrice quale è sempre stata, Murgia raccoglie così un guanto lanciatole con onore — in certi casi, con amore — da alcune voci contemporanee dell’italofonia letteraria che l’hanno colpita; che le hanno fatto tornare voglia di misurare i limiti e le vastità del suo strumento principe.
Una di queste voci l’ha indicata lei stessa alla fine del libro: quella di Teresa Ciabatti, maestra di drag al punto da sabotare la propria persona per la riuscita tragica dei propri personaggi. Un’altra, direi, è quella trans-lingue di Jhumpa Lahiri, la cui fedeltà totalizzante non solo al racconto, ma anche all’ipotesi (ormai novecentesca) del “libro di racconti” come organismo inestricabile, è di recente approdata all’italiano dopo i successi mondiali in inglese al volgere del millennio, e un successivo tirocinio auto-traduttorio.

Una è senz’altro quella di Marcello Fois, tra i pochissimi romanzieri nella sua lingua al cui mestiere, nelle note biografiche, non si possano in buona fede aggiungere altri titoli — sebbene ne vanti vari, italianista e drammaturgo quale è, avendo portato Murgia stessa a teatro nei panni di Deledda, e Manzoni (e De Amicis, e altri) sul banco della critica.
Un’altra, mi azzardo, è quella di Walter Siti. Giacché la reciproca incomprensione tra lei e lui non si è risolta in un rispettabile prendere le distanze, ma li ha veramente incuriositi, se non un po’ alterati, entrambi.
In ogni caso, tutte queste voci dispari hanno in comune una disperata fiducia — forse fuori tempo massimo e perciò epica, grandiosa — nell’arte verso cui Murgia, lungo l’autunno del berlusconismo, aveva sviluppato un calloso disincanto: la letteratura senza aggettivi, senza giustificazioni, senza illusioni se non quelle che si devono nutrire inventando.

Istantanea

Naturalmente, il gioco di tenere insieme le due metà del proprio mito (quello dell’autrice da premio e quello dell’attivista militante) Murgia lo vince proprio quando una delle sue anime sembra prendere il sopravvento sull’altra.
Per esempio nel racconto, secondo me, più perfetto della raccolta, Fossa comune
. Sembra una pausa dai temi pressanti delle storie adiacenti, dedicate a pandemia e cancro, genitorialità e lutto, fama e corpo. Sembra una brevissima istantanea autobiografica, un ritorno alla libertà inventiva che Murgia esercitava spesso tanti anni fa, con racconti che finivano nelle smemorande, sul suo sito o in riviste e antologie, anche minori e minime, per cui aveva simpatia.

A ben vedere invece è anche un racconto su dove va a finire il trauma della violenza domestica: un racconto sull’educazione di genere, sulla differenza di classe, sul rapporto tra chi insegna e chi impara.
È soprattutto un racconto sull’inconscio, intessuto su un fatto minimo: un ratto emerge dalla fogna, alcuni ragazzini lo uccidono per gioco, la loro istruttrice di pallamano gli dà povera sepoltura.
È uno di quei racconti che non si possono capire senza leggerli interi: su cui non si può fare un efficace post su Instagram o un commento sul giornale.

Esperienze re-interpretate

Anche del racconto ad esso sottilmente collegato attraverso l’intreccio che fa del libro un romanzo a episodi, Cartone animato, si può serenamente fare lo spoiler senza inficiare minimamente l’esperienza di lettura. Non succede, praticamente, niente: una signora acquista il cartonato a grandezza naturale di una popstar coreana nei giorni in cui suo figlio lascia casa per andare all’università, e nasconde quella sagoma nell’armadio quando il marito è in casa. Da questa premessa, i più eruditi potranno indovinare l’eco di uno dei più straordinari racconti del surrealismo italiano, Bago di Alberto Savinio, e magari cavare un commento sulla sindrome del nido vuoto tipica delle famiglie americane, o sull’influenza che il K-Pop esercita sull’immaginario occidentale.

Ma bisogna leggere con partecipazione per vedere come Murgia, senza mai lasciare un paio di stanze, riesca a esplorare segretamente la metafora del closet che diede origine agli studi queer, così importanti nei suoi più recenti saggi e interventi, e soprattutto l’effetto che quegli studi possono avere anche per re-interpretare le esperienze di chi non fa parte della comunità lgbt. Bisogna leggere per capire come anche quel più lungo capitolo del libro, come quello sul ratto, sia dedicato all’inconscio: ai suoi scherzi, alla sua ineludibilità, ai segnali che cerca di inviarci.

Risposta pubblica

Chi frequenta il quartiere Trastevere, a Roma, sa che per diversi mesi bastava andare a mangiare al Cambio, un delizioso locale aperto tutto il giorno all’angolo tra via Natale del Grande e via di San Francesco a Ripa, per vedere Michela Murgia in carne, ossa e computer.
Era lì, a tutte le ore, a scrivere Tre ciotole
: un libro pieno di gente, che non si poteva pensare nel silenzio raccolto di una vita privata che, d’altronde, da anni quell’autrice non aveva quasi più.
Alla sfida di scavare profondamente nella miniera delle proprie risorse, Murgia ha risposto come sempre in pubblico, esibendo la tenacia della sua laboriosità. Ha sorpreso sia chi si aspettava un altro saggio di successo, magari sul cancro, sia chi non la credeva più capace di tessere problemi biopolitici e memorie traumatiche, simbologie e talismani (dalle ciotole del titolo ai vestiti appesi dell’explicit), in una prova letteraria destinata a durare. Non ha sorpreso, però, chi la legge da sempre — e sa, dunque, chi è che risponde al suo nome d’arcangelo (d’arcangela) con la spada.

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