- A volte anche due fratelli, invero molto vicini sul piano intellettuale, possono apparire in netta contrapposizione tra di loro. È il curioso caso di Aldous e Julian Huxley.
- Più che un romanzo, quello di Aldous è uno dei libri politici più importanti del ventesimo secolo per la sua aurea tocquevilliana: sulla società moderna non incombe un mostruoso totalitarismo, ma un mite dispotismo a trazione tecnocratica e capitalistica.
- Ben diversa, invece, appare la percezione del pericolo dispotico a trazione tecnologica per Julian, fratello di Aldous e scienziato di successo.
A volte anche due fratelli, invero molto vicini sul piano intellettuale, possono apparire in netta contrapposizione tra di loro. È il curioso caso di Aldous e Julian Huxley. Il primo è il notissimo autore del capolavoro Il mondo nuovo, dove si denuncia l’avanzata inarrestabile di un nuovo dispotismo fondato sul consumo, sull’intrattenimento, sul controllo tecnologico.
Più che un romanzo, quello di Aldous è uno dei libri politici più importanti del ventesimo secolo per la sua aurea tocquevilliana: sulla società moderna non incombe un mostruoso totalitarismo, ma un mite dispotismo a trazione tecnocratica e capitalistica. Un Leviatano invisibile che addormenta i cittadini con piccoli lussi e lussurie di massa, droghe, spettacoli e automazione. Il mondo nuovo è una denuncia realistica dei rischi che la modernità occidentale, tecnologica e biopolitica, presenta. Ben diversa, invece, appare la percezione del pericolo dispotico a trazione tecnologica per Julian, fratello di Aldous e scienziato di successo.
Indoli opposte
Gli Huxley discendono da una famiglia dell’establishment intellettuale britannico, genìa di intellettuali e uomini di scienza. I due sono nipoti di Thomas Henry Huxley, uno dei più grandi sostenitori e divulgatori delle teorie darwiniste, nonché figli dell’editore Leonard.
Entrambi destinati a carriere di grande successo, Aldous come scrittore e polemista, Julian come biologo che ricoprirà importanti incarichi istituzionali. Nella mente dei due Huxley si forgia la modernità tecnica in duplice atto, la pars destruens dello scrittore e la pars costruens dello scienziato.
Se Aldous appare fatalista e disilluso, Julian si mostra un uomo di scienza ottimista e positivista. Una posizione che emerge da un agile ma significativo saggio del 1931 dal titolo Ciò che oso pensare (Gog edizioni, 2022) appena pubblicato in italiano e citato – per avanzare la sua critica crepuscolare alla iper-modernità – dal funambolo letterario Michel Houellebecq ne Le particelle elementari.
Eugenetica
Ma non si può comprendere Julian Huxley se prima non si è disposti ad ammettere l’enorme importanza trasversale dell’eugenetica – della quale lo stesso è uno dei massimi esponenti inglesi – nel dibattito politico e scientifico tra le due guerre mondiali.
L’eugenetica nasce per rispondere concretamente a quei problemi che le teorie di Thomas Malthus avevano sollevato nel secolo precedente.
Poiché la popolazione mondiale cresce in progressione geometrica, quindi più velocemente delle risorse alimentari disponibili (che crescono invece in progressione aritmetica) questo squilibrio avrebbe portato all’esaurimento dei generi alimentari, delle terre coltivabili e delle risorse energetiche, frenando lo sviluppo economico.
Da qui l’idea malthusiana di mettere a sistema il controllo delle nascite e il miglioramento genetico dell’umanità. In Inghilterra, intellettuali del calibro di H. G. Wells, George Bernard Shaw, Marie Stopes e Bertrand Russell, ma anche politici come Winston Churchill, Arthur James Balfour, ed economisti quali John Maynard Keynes, aderiscono ad alcune versioni, più o meno moderate, del progetto. Teorie malthusiane poi riprese e messe in pratica nell’ultimo cinquantennio dal regime cinese nella sua opera di modernizzazione a tappe forzate, di cui la politica del figlio unico è uno dei segni più riconoscibili.
Nel 1936, alla Conferenza internazionale di eugenetica, Julian Huxley illustra le sue teorie in materia, con un incedere che con gli occhi del presente può apparire orripilante, ma che all’epoca è moneta corrente del dibattito internazionale: «Gli strati più bassi, presumibilmente meno dotati geneticamente, si riproducono relativamente troppo velocemente. Per questo motivo è necessario insegnare loro i metodi di controllo delle nascite; non devono avere un accesso facilitato all’assistenza o alle cure ospedaliere, per evitare che la rimozione dell’ultimo riscontro della selezione naturale renda troppo facile la produzione o la sopravvivenza dei bambini; una lunga disoccupazione dovrebbe essere un motivo di sterilizzazione».
La scienza che trasforma
Oggi il precipitato più fecondo di queste idee alberga nella Silicon Valley e nei movimenti intellettuali che intorno ad essa si sviluppano. Utilizzo massiccio delle nuove tecniche genetiche al fine del potenziamento delle performance cognitive umane, ibridazione tra uomo e macchina, esperimenti per l’allungamento della vita, correzione costante dei difetti congeniti degli individui fin dal concepimento sono programmi più volte illustrati da personaggi come Elon Musk, Jeff Bezos, Ray Kurzweil, Larry Page e Peter Thiel.
Uno dei capisaldi dell’origine di tutto questo pensiero sta in Ciò che oso pensare, preziosa testimonianza storica e dottrinaria. Julian Huxley in aperta rottura con l’etica medica tradizionale, che aveva come imperativo quello della sacralità della vita umana, afferma che i problemi di salute e di comportamento derivano da questioni genetiche prima che sociali, ed è perciò possibile risolverli tramite una regolamentazione della riproduzione.
Nasce così l’eugenetica positiva, volta a promuovere la riproduzione dei soggetti desiderabili, e quella negativa, volta a prevenire la nascita dei soggetti “difettosi” tramite infanticidi, contraccettivi, aborti o divieti.
Una dinamica che, con forme enormemente più sofisticate e meno brutali di quelle del secolo scorso, potrà facilmente avverarsi grazie alle manipolazioni genetiche e all’ibridazione tra umano e digitale. Ora come allora c’è l’idea di fondo di fare della scienza il grande trasformatore e riformatore della società, un metodo per progredire e dirigere dall’alto lo sviluppo.
Tuttavia, Julian Huxley non va banalizzato come un semplice avanguardista estremizzato della sua epoca poiché siamo pur sempre di fronte ad un pensatore consapevole oltre che ad uno studioso posseduto dal demone della scienza. E la sua profondità positivista emerge proprio nei capitoli centrali del saggio che sviluppano il concetto di “umanesimo scientifico”.
Un nuovo umanesimo
Huxley parte dal problematico rapporto tra scienza e umanesimo. Il principale problema è che i due pensieri finiscano per organizzarsi in due correnti separate o antagonistiche, cosicché la civiltà si biforchi in due diversi modi di pensare, in gran parte contrastanti, invece di coltivarne uno solo, fondato sul pluralismo dei saperi.
Di conseguenza, la costruzione di un umanesimo scientifico in cui la scienza e la natura umana, le leggi naturali e le attività spirituali, non già si oppongano ma si congiungano, è necessaria per unificare le due correnti e risolvere l’antinomia.
Il processo della conoscenza non può essere disperso in una lotta tra discipline, ma in questo nuovo umanesimo scienza, filosofia e fede devono tenersi insieme. Huxley si dimostra così ben più maturo e articolato sia di molti suoi contemporanei sia di gran parte dei neopositivisti dei giorni nostri.
In questo approccio, lo scienziato-filosofo si mostra vicino ai fondatori del positivismo ottocentesco, Auguste Comte ed Henry de Saint-Simon, i quali di fronte ad una riorganizzazione scientifica e manageriale della società erano consapevoli di non poter rinunciare ad una forma di religiosità che prevenisse uno scivolamento di assoluto stampo materialista verso una pura “amministrazione delle cose” che avrebbe altrimenti alimentato alienazione, solitudine e straniamento.
Una nuova religione
Non è un caso che Huxley concluda il suo saggio concentrandosi sul rapporto tra scienza e religione, alla ricerca di una tecno-trascendenza che non disperda la spiritualità di cui ogni uomo abbisogna.
Ecco, dunque, che una nuova religione per Huxley è opportuna in un mondo che corre nel proprio sviluppo scientifico quanto lo erano per i primi positivisti: «Forse il più grande contributo della scienza alla religione è il concetto che la verità si trova nel futuro, non meno che nel passato: ed esso si applica sia alla verità morale ed estetica, sia a quella intellettuale. Una religione fondata sulla scienza e sulla natura umana deve essere una religione di vita, e però non spaventarsi per la proprietà più grande e più preziosa della vita: quella dello sviluppo e del mutamento progressivo».
Che questo piccolo saggio possa tornare utile anche a tecnologi, intellettuali e oligopolisti digitali della nostra epoca? O forse oramai l’uomo si sente troppo vicino a Dio per credergli?
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