Le città cambiano in modo rapidissimo da un giorno all’altro, ma non sempre riusciamo a vederlo: se ci riuscissimo forse potremmo capire anche qualcosa di ciò che siamo stati e diventeremo. Senza illuderci di poter riparare la bussola frantumata. Storie di forze contrapposte, disuguaglianze conclamate, ingiustizie incarnate, ma anche residue passioni fantastiche, inestirpabili resistenze etiche, superstiti luci di speranza.

A About a City, festival sulle trasformazioni urbane che si tiene a Milano da ieri al 28 novembre, racconterò la mia triplice esperienza di insegnante, scrittore e viaggiatore a partire da Le città del mondo (Feltrinelli, Gramma, 2024), un libro che mette insieme i tasselli nel tentativo di comporre il mosaico, alla maniera di quanto scrisse Walt Whitman in Salut au Monde!: «I see the cities of the earth and make myself at random a parte of them» («Vedo le città della terra e ne divento parte, quali che siano»).

Le nostre città

Quante sono le città della nostra vita e cosa rappresentano? Ecco la domanda da cui sono partito: alla fine ne ho contate trecento, fra quelle conosciute, sognate e inventate. In tutte mi sono mescolato e, in qualche modo, riconosciuto.

Come fece Giuseppe Ungaretti coi suoi fiumi, così io ho immaginato di essere una venditrice di cipolle a Tallin, un gatto a Vorkuta, un uccello rapace a Bogotà, un’alga marina a Bikini, una bandiera sventolante a Giacarta, una formichina a Hong Kong, un rospo a Herat, un serpente velenoso a Gaborone, Robert Louis Stevenson a Edimburgo e Apia, me stesso nell’Isola di Diego Garcia, in mezzo all’oceano Indiano, sorseggiando un té alla menta nel bar vicino al campo profughi di Gerico, oppure seduto sullo sgabello di Apoteka Kalamaria, a Salonicco, davanti alla spettacolare marina egea.

L’eco di Calvino

Questa rassegna, composta in aperta contrapposizione calviniana, è una trasfigurazione stilistica delle esperienze di viaggio reali e mentali compiute negli anni, ma se la rileggo adesso mi rendo conto della sua natura ibrida, fra diario, romanzo, studio, poesia, riflessione, caledoscopio.

La memoria delle cose trascorse è una trama sfilacciata di ricami scuciti che ho tentato di rimettere a posto: la vecchina in attesa di morire sulla torre di Benares, il culturista barbone che fa gli esercizi coi pesi nell’area ricreativa di Venice, a Los Angeles, il giovane pope, che entra ed esce dalla porta regale, nella chiesa di san Giovanni il Guerriero a Mosca, la motocicletta del colonnello Lawrence a Londra, la fuga in Egitto dipinta dal Tiepolo nella pinacoteca di Stoccarda, il giro a piedi dello Stanley Park a Vancouver, sulle orme di Malcolm Lowry.

Italiano per migranti

Un grande osservatorio naturale si è rivelata la scuola Penny Wirton dove insegniamo gratuitamente la lingua italiana agli immigrati. Senza classi, voti o registri. Sessantacinque postazioni didattiche dalla Sicilia al Friuli-Venezia Giulia.

Ognuno dei nostri studenti, minorenni non accompagnati, rifugiati politici, donne con bambini, incarna una città del pianeta: Aleksandr, ragazzino di Charkiv, sfollato insieme alla madre, giocava a pallone con gli adolescenti egiziani di Gharbiyya, fra Alessandria e Il Cairo, scatenato nel cortile di Casal Bertone, periferia capitolina; proprio lui, minuscolo Ševčenko, mi ha spinto nell’Ucraina devastata dalla guerra e ora, a pensarci bene, se consulto gli appunti presi di fronte all’ospedale militare della sua città bombardata, lo stesso nosocomio di cui narrò Mario Rigoni Stern in Ritorno sul Don, i ricordi s’accavallano e non saprei più districarli.

Una rete di strade lontane

Comunque ho eletto Charkiv come mia città guida delle metropoli davvero attraversate. E Venezia, capofila di quelle sognate, inaccessibile nella sua ridotta fantastica anche dopo essere stata esplorata da cima a fondo. Ibrahim, sulla Tiburtina, silenzioso, triste e concentrato, mi ha svelato Khartum come probabilmente appare oggi: coi palazzotti bucati sempre sul punto di sbriciolarsi sulle rive del Nilo Bianco e quello Azzurro mischiati insieme, sonnacchiosi e languidi dopo essere stati turbolenti e burrascosi. E chi altri, se non i miei studenti bengalesi, sarebbero stati in grado di portarmi a Dacca?

Quando gli chiesi se conoscessero il palazzo del governo progettato dal grande architetto estone, Louis Khan, che aveva donato il suo talento a una delle nazioni più povere del mondo, mi dissero «Sì, professore, siamo cresciuti proprio lì intorno. Ci abbiamo girato in bicicletta».

Da Mirador a Fulgor

Avrei voluto approfondire tanti aspetti lirico-emozionali, illustrando a quei ragazzi il nesso profondo fra la città in cui si trovavano e quella da cui provenivano, dal momento che l’ispirazione neo-classica novecentesca di Khan deve molto ai suoi soggiorni romani, ma non era possibile, visto la mancanza dei necessari appoggi culturali, tuttavia ebbi la sensazione che il loro sorriso fosse sufficiente a risolvere ogni cosa mentre, di fronte a me, continuavano idealmente a pedalare nei pressi dell’Assemblea nazionale e dell’ospedale centrale di Ayub.

Proprio Roma, caput mundi, introduce la sezione delle metropoli inventate, dal momento che esistono tante Urbes imperituraes quanti sono i nostri modi di viverla e concepirla.

Con un po’ di fortuna, ancora oggi potremmo scoprire Casablanca a Centocelle, Nuova Delhi a Corviale, Los Angeles al Lido di Ostia. Le città che ho inventato assomigliano a quelle dove vorrei vivere: Mirador, nel sogno della vita nuova; Anima mia, fatta tutta di cortili: Fulgor, col Cratere della Tenerezza; Mirante, piena di angeli bambini.

Nella scrittura decifriamo il senso di ciò che abbiamo visto o soltanto prefigurato. Nel mio caso è stata tutta una corsa, a parte dodici stazioni di sosta intermedia: dagli angeli sulle rovine di Bruxelles al sole elettrico di Battipaglia, dalla stanza dei bottoni di Washington alla madre dell’Italia infeconda di Veio, dai tizzoni bruciati di Volgograd alle sapienze perdute di Atene, dal comunismo nautico di Vladivostock alle formichine sul muro di Gaza City, dal battaglione sacro di Fort Roch alle eroine fra le tegole di Porta Vetusta, dalle lune piene e i soli d’acciaio di Telemark all’ospedale dei veterani di Villa Felice.

Mi sono sbizzarrito fra la polvere mesopotamica di Babilonia, i cani spelacchiati e le galline senza cresta di Acchiappa-citrulli, la città di Pinocchio, sulle tracce di Anguilla, indimenticabile personaggio pavesiano, a Yuma, nei promontori di Rosberg a Fulgor.

Il prologo l’ho fissato a New York, matrice urbana della modernità sfregiata e ricostruita; l’epilogo a Gerusalemme, la città che ha fatto piangere Gesù e continua a interrogare tutti noi, in grado di riassumere, nella sua storia splendida e drammatica, i grovigli irrisolti del mondo.

Là dove gli uomini studiano la scienza dei limiti ma quando vanno a sostenere gli esami vengono sempre bocciati. Nonostante tutta la loro grande sapienza, non sanno rispondere alle domande più semplici e importanti: chi sono io? Chi sei tu? Come possiamo vivere insieme?

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