- Non sono un granché, ma non è colpa loro, quindi possiamo accontentarci, di loro, dei Måneskin, dei loro salti sul palco che hanno sempre qualcosa di oppositivo a un qualche «State buoni se potete», quindi san Filippo Neri, quindi oratorio.
- Nel caso medio il rock è una spruzzatona di chitarre distorte, leva, tapping, al concerto di Rihanna, o Kathy Perry, o Lady Gaga. E nel peggiore dei casi è una forma di intrattenimento generalista (in quanto generico), nostalgico.
- Non bastano una voce interessante (e forse troppo furba), una bassista che ama con trasporto inesauribile gli Arctic Monkeys, un chitarrista che riprende tutto il riprendibile da John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, o da Tom Morello dei Rage Against The Machine, e un degno batterista rock.
Non sono un granché, ma non è colpa loro, quindi possiamo accontentarci, di loro, dei Måneskin, dei loro salti sul palco che hanno sempre qualcosa di oppositivo rispetto non tanto a ogni Zitti e buoni (sono fuori di testa, ma diversi da chi esattamente? Contro quale cenotafio di conformismi proiettivi strillano codesti volenterosi ribelli?), quanto a un qualche «State buoni se potete», quindi san Filippo Neri, quindi oratorio. Sono ragazzi dell’oratorio stufi dell’oratorio, la poetica Måneskin starebbe tutta qui.
La black music – tutta, dagli spirituals al free e al rap, mangia e suda religiosità totemica –, simboli che danno corpo e sangue a spiriti («I saw the blues walk like a man», «ho visto il blues camminare come un uomo» cantava l’iper-maledetto, Robert Johnson, un secolo fa).
Ma è stato il rock prima inglese e poi americano a realizzare la vera operazione diabolica. Quando si parla del patto col maligno dei Led Zeppelin, e di tutti gli altri, possiamo crederci: prendere una musica rituale e religiosa di liberazione spirituale o sociale e trasformarla in musica di liberazione sessuale per il mercato dei ragazzini, diventare déi, fare Himalaya di danari, è il vero patto con le forze oscure, ed è riuscito a tutti quelli che hanno davvero mangiato la mela.
Quando ascoltiamo Stairway to heaven suonata al contrario possiamo benissimo credere alle mostruosità testuali che ne escono (“And all the evil fools / they know he made / us suffer sadly”). Satisfaction dei Rolling Stones è il rifacimento di una canzoncina di bambine del sud degli Stati Uniti (si legge nel magnifico La terra del blues, di Alan Lomax, Il Saggiatore).
Gruppi rifatti
Poi il rock è andato come è andato, attraverso le mille riprese, contaminazioni, sperimentazioni, manierismi, di una musica che ad oggi nel migliore dei casi è diventata culto per appassionati specialisti, magari milioni, ma sempre appassionati specialisti: assistere a un concerto dei Radiohead o dei Queens of the stone Age equivale a condividere uno squisito momento musicale con altri colti appassionati di generi estinti, come se ci si incontrasse tra amatori delle sonate di Chopin o dei madrigali di Gesualdo da Venosa.
Nel caso medio il rock è una spruzzatona di chitarre distorte, leva, tapping, al concerto di Rihanna, o Kathy Perry, o Lady Gaga. E nel peggiore dei casi è una forma di intrattenimento generalista (in quanto generico), nostalgico (nel senso della retromania), come testimoniano la rinascita del culto dei Queen e i giganteschi successi live di artisti che si sono trasformati in tribute band di se stessi: vale per gli Stones come per Vasco Rossi.
E si è arrivati, perfino nel contesto Usa, che rimane il più vitale, a regalare entusiasmi a gruppi geneticamente rifatti. Qualche anno fa l’onda dei Greta Van Fleet aveva preso tutti, nemmeno fossero stati qualcosa di diverso da un clone dei Led Zeppelin; stessi giri, stessi riff, stessi suoni, stessa voce, stessi testi.
L’operazione Måneskin
Se questo è il contesto dove stanno i nostri, nostrissimi, Måneskin da Roma? Una risposta arriva da Rick Beato, il critico musicale più seguito – e studioso – d’America. Jazzista di formazione, polistrumentista, insegnante, produttore, con un paio di milioni di follower su Youtube. Beato – beato lui – è in grado di far partire Donna Lee di Jaco Pastorius, evidenziandone le modulazioni con la chitarra, e guidando l’ascoltatore non specialista nel labirinto armonico costruito dal bassista di Fort Lauderdale.
Beato intervista i grandi del rock e del jazz e del pop, da Pat Metheny a Sting, in modo approfondito, con lo strumento in mano, spiegando bene, passo passo, la loro musica. In un suo appuntamento fisso Beato ascolta i successi di Spotify e Apple Music, li analizza, spiega le melodie e le strutture armoniche, fa il suo lavoro di critico militante.
In una puntata gli è capitato sotto l’orecchio Beggin’ dei Måneskin. Ricordiamo che si tratta della cover di un brano dei Four Seasons del 1967, già rifatta dai Madcon nel 2008. Beato, con tutta la simpatia per i “ragazzi italiani” e l’Eurofestival ha fatto notare che il brano aveva la qualità di produzione di un demo: «La qualità della registrazione e della produzione, a paragone con le altre, è davvero bassa».
Spiace per Fabrizio Ferraguzzo, che è il produttore dei Måneskin, e di tante altre popstar italiane, ma che, evidentemente, non è all’altezza. Spiace anche per Simon Cowell, geniale inventore di XFactor che ha sempre avuto un occhio di riguardo per la band romana (si sospetta, credo a ragione, che dietro alla trionfale esposizione mondiale dei Måneskin ci sia la sua sapienza, esperienza e conoscenze). Spiace anche che il quartetto romano pur presentato come gruppo spalla da Mick Jagger non sia stato premiato agli American Music Awards. In breve spiace che, nonostante quello che strilla ogni giornale italiano e ogni sito internet da queste parti, l’operazione Måneskin non decolli davvero.
Be Your Slave
Non bastano una voce interessante (e forse troppo furba), una bassista che ama con trasporto inesauribile gli Arctic Monkeys, un chitarrista che riprende tutto il riprendibile da John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, o da Tom Morello dei Rage Against The Machine, e un degno batterista rock.
Non bastano gli sfottò al papillon di Pillon. Non basta scrivere canzoni tipo I wanna be your slave con un titolo che sarebbe stato ad effetto venti-trenta anni fa, e rifarla insieme a Iggy Pop, senza turbare la marea mainstream, tra l’altro. Non basta la furbizia, e per inciso: non serve andare da tutte le “auctoritates” del rock per essere rock. E soprattutto non è rock.
Riff
Se proprio la musica non interessa e si vuole puntare sul glam per il glam servirebbero, se non altro, grandi quantità di droghe, si veda The Dirt, il docufilm sui Mötley Crüe. Al momento attuale c’è il rischio che non basti, e che si venga superati sul versante-dipendenze da qualunque impiegato, proprietario di osteria, vigile urbano, giornalista televisivo e no, o tenutario di terrazze e organizzatore di party; ma da quel punto di vista Damiano ha messo le cose in chiaro, mostrando le analisi del sangue dopo le accuse di aver fatto uso di cocaina all’indomani dell’Eurofestival. Che è un ottimo correlativo oggettivo, oratoriale.
Servirebbe una cosa che gli altri non hanno: vale a dire un suono originale, canzoni originali, un approccio originale. E questi i Måneskin non li possono avere.
Non è un problema di eventuali plagi. Qualcuno ha scritto che Zitti e buoni è la copia del brano F.D.T. Fuori di testa, di Anthony Laszlo, qualcun altro segnala somiglianze con Fuoco al fuoco di Nebra, altri parlano di possibile plagio di You want it, you’ve got it, dei Vendettas. Accuse che non tengono.
Se ci fosse una qualche forma di copyright sui riff in Mi che non si assomigliano per niente forse sì. A chi scrive il riff di Zitti e buoni ricorda Plastic Hamburgers di Fantastic Negrito, con un tocchetto di Seven Nations Army.
E poi sarebbe ora di dirlo che quasi tutti i plagi in musica non hanno corso, e che, trattandosi di musica “formulare”, la storia del rock è storia di plagi irrefrenabili. Si vedano i Led Zeppelin che sui furti di riff, linee melodiche, parole, hanno costruito decine di canzoni (e perso decine di cause, e pagato milioni di diritti ad altri autori), ma restano quello che sono.
Un problema culturale
Il problema è più serio, vale a dire culturale, e su questo i poveri Måneskin possono fare poco. Il problema non riguarda il provincialismo del mercato musicale italiano, che è semmai solo la conseguenza. Il problema è che non puoi conquistare musicalmente il mondo se non hai una musica tua. E l’Italia non ha una musica popolare forte (come gli spirituals, il blues, lo stesso reggae, il flamenco, la musica indiana, i mille fiori dell’afro, perfino l’elettronica il metal cimiteriale del Nord Europa) perché la musica popolare italiana è stata ammazzata in culla. Sappiamo anche la data, era il 1954.
Testimone del fatto ancora l’etnomusicologo Alan Lomax. Una delle personalità più influenti della cultura americana del XX secolo. Texano, aveva iniziato la sua ricerca sulla musica popolare negli anni 40, col padre, nel Sud degli Usa. Trascinava per strade fangose, locali dai pavimenti di legno appiccicaticci, verande, un registratore a disco (allora c’erano solo quelli) del peso di un quintale. Registrava i canti dei neri americani. A volte finiva in galera perché si trovava, sotto l’occhio di qualche sceriffo razzista, a passare serate con i neri che lavoravano come scaricatori dei battelli sul fiume o nelle piantagioni.
Le sue raccolte di registrazioni per la Library of Congress hanno fatto la storia. Senza Lomax non avremmo Jelly Roll Morton e non sapremmo come era fatto davvero il jazz di New Orleans, non avremmo Big Bill Broonzy, non avremmo Muddy Waters. E nemmeno, sostiene Brian Eno, i Beatles, o i Velvet Underground.
Provincialismo alla pajata
Nel dopoguerra Lomax passò lunghi periodi in Europa. Di fatto scoprì il Flamenco, che dagli stessi spagnoli era ritenuto musichetta locale, dei peggiori bar di Sevilla (sprezzante la definizione di Andres Segovia). Nel 1954 Lomax sbarcò in Italia. Ci rimase un anno, e registrò di tutto.
Le melodie polivocali dell’Emilia Romagna, gli stornelli abruzzesi, i canti dei pescatori di Scilla, i cantastorie di Palermo, i canti a più voci della Liguria, la musica pugliese. Andò tutto in onda per la Bbc. Ma in Italia Lomax non fu mai in grado di trovare una breccia discografica per le registrazioni, che furono pubblicate complete solo molti anni dopo e negli Usa.
Si infuriò con i discografici, con i vertici Rai (che nel frattempo avevano puntato su Sanremo), accusandoli di essere i «distruttori della più grande eredità della musica popolare dell’Europa occidentale». Gli intellettuali del giro romano amici di Lomax gli dicevano: «Questa non è musica, è il suono barbaro dell’Africa. Facci sentire il blues». Provincialismo alla pajata.
Pier Paolo Pasolini usò qualcuno dei brani registrati da Lomax nel film Decameron, ma senza citarlo. C’è un bellissimo libro, sempre del Saggiatore, L’anno più felice della mia vita (urge ristampa), con il diario di Lomax durante il grand tour Italiano e con qualche registrazione. Il resto è precipitato nell’oblio, con qualche eccezione, come il raffinatissimo festival Vox Populi a Caulonia (Rc) che sta dedicando una serie di appuntamenti a Lomax.
Ci sono momenti affascinanti, che determinano la storia a seguire, e che si possono recuperare solo “archeologicamente”, cercando le possibilità inespresse in occasione di un certo momento storico. Il pop italiano, proprio all’inizio degli anni 50, ha preso la via di Sanremo, quindi della canzone stile Tin Pan Alley, degli arrangiamenti rubati dalla discografia Usa. La musica italiana ha rinnegato sé stessa, ed è diventata, da quel momento, provinciale. Con pochissime, strane, eccezioni. Conseguenza dopo conseguenza: è chiaro che, oggi, un gruppo pop o rock o glam rock, non ha altro da offrire che un’identità farlocca. Non saranno granché, i Måneskin, ma non è colpa loro. Sono molto simpatici quando spiegano agli americani la corretta pronuncia dei cibi italiani. E ce li meritiamo.
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