Eravamo sicuri che non avremmo più trascorso un secondo davanti a Canale 5 o Rai1, forti della nostra autonomia sviluppata grazie ai cavalli di battaglia della serialità. E invece non è andata così. Settant’anni dopo la prima messa in onda, il mezzo di comunicazione del Novecento per eccellenza resta ancora in piedi. Anche perché non dover scegliere, lasciare che sia la televisione, dall’alto, a dirmi dove andare, cosa guardare, resta tutto sommato un grande vantaggio
Il primo contenuto virale del 2024 è un frammento del programma di Rai1, L’anno che verrà. Ogni anno, a capodanno, in diretta dalla piazza congelata di una città italiana, in questo caso Crotone, Amadeus si presenta conciato come un oligarca russo, con cappotti damascati e giacche tempestate di paillettes. È lui l’imperatore della televisione italiana degli ultimi cinque anni, ed è lui che entra a gamba tesa nei trending topic di Twitter prima ancora che scatti la mezzanotte: corre verso Annalisa, artista di punta della serata tra un Malgioglio infreddolito e un sempreverde Nino Frassica, e con quel suo fare da papà sbadato ma affettuoso la interrompe mentre canta la sua Bellissima.
“Il bello della diretta”, si dice in questi casi, la stessa diretta che qualche anno prima ha generato lo sketch imprevisto di Morgan e Bugo, quella che non ha placato la furia distruttrice anti-floreale di Blanco, o quella che ha portato i Maneskin in cima alle classifiche mondiali. Amadeus corre verso Annalisa e interrompe la liturgia del flusso televisivo, svelando il grande mistero della messa in onda: la scaletta. Tutto dovrebbe essere calcolato al minuto, il conto alla rovescia per il nuovo anno, gli applausi, gli auguri, le grafiche che si sovrappongono all’immagine principale con le cifre del 2024 che campeggiano sullo schermo dei telespettatori. Invece non va così, l’errore diventa subito cult, come quello della presentatrice della BBC News che per pochi istanti si ritrova a dare il dito medio alla nazione, e poi all’universo grazie a una immediata catena di ricondivisioni, in un siparietto degno del miglior Mr. Bean.
Sono passati settant’anni dalla prima messa in onda televisiva italiana. Era il 3 gennaio del 1954 e da allora quel segnale non si è più interrotto. Sono anni che si paventa la morte del mezzo di comunicazione del Novecento per eccellenza, internet killed the television star, eppure sta ancora in piedi. Non basta un video virale sui social per decretarne uno stato di sana e robusta costituzione, certo, ma non è neanche colata a picco con la velocità che si preannunciava una decina di anni fa, quando l’entusiasmo per le piattaforme sembrava volerci far dimenticare la centralità degli ingredienti del tubo catodico: il palinsesto, la diretta, la verticalità.
Sono nata negli anni Novanta, un’epoca in cui il potenziale televisivo non era ancora stato espresso al massimo della sua forza. Servivano gli anni Zero, i reality, la tv-verità, i mega-format, i talk show di Santoro, le telefonate in diretta di Berlusconi, la morte di un Papa, l’esplosione del fenomeno Maria De Filippi per dare l’ultima vera impennata di benessere audiovisivo, prima della disintermediazione e della moltitudine che il ventunesimo Secolo ci ha insegnato a cavalcare; le conseguenze della rivoluzione digitale sono meno soldi, meno pubblico, più contenuti sparsi ovunque, l’intento era democratico, il risultato lo è un po’ meno. Ognuno con il suo broadcast, con il suo televideo, ognuno con il suo star-system. La mia generazione ha trascorso infanzia e adolescenza davanti alla tv, guardando The O.C. su Italia1, i Simpson dopo pranzo, i video musicali su MTV, le sfide di danza ad Amici, per poi venire catapultati in un brodo primordiale-digitale, prima con le chat di MSN, poi su YouTube, Facebook, MySpace, Instagram. Non siamo nativi digitali, non siamo baby-boomer, siamo disuniti, per dirla alla Sorrentino, metà nel futuro e metà nel passato.
Eravamo sicuri che non avremmo più trascorso un secondo davanti a Canale 5 o Rai1, forti della nostra autonomia sviluppata grazie ai cavalli di battaglia della serialità, da Game of Thrones a Breaking Bad, pronti a difendere “la qualità”, che a René Ferretti ha rotto e di cui invece noi eravamo tanto bramosi, i sottotitoli, la grande produzione americana, e invece la tv ci è rientrata dalla finestra sotto forma di Temptation Island, di Belve e di un Giambruno che si aggiusta il pacco.
Non è come negli anni Zero, chiaro, non siamo spalmati sui divani di casa in attesa della prossima puntata di Paso Adelante, disposti a tutto, pure alle peggiori serie tv spagnole, pur di rimandare il momento in cui si cominciano a fare i compiti. Ora Netflix carica tutte le stagioni di Paso Adelante e dei Cesaroni per noi trentenni che siamo già nostalgici di anni appena finiti, generazione insoddisfatta che aspettava la letterina da Hogwarts e invece si è beccata solo una serie di crisi finanziarie giusto in tempo per non aprire un mutuo.
La tv ci ha cresciuti, l’abbiamo ripudiata, e ora ci sguazziamo come nell’armadio della nonna, a cercare odori e sensazioni che non ritroveremo mai più ma che proviamo a ripescare tra format vecchi di vent’anni e personaggi incartapecoriti di cui non possiamo fare a meno: “Le merendine di quando ero bambino non torneranno più!”, urlava Nanni Moretti disperato in Palombella rossa. La usiamo come bersaglio, quando vogliamo lamentarci di quanto sia retrograda e bigotta la nostra società, gliene diciamo di ogni tutte le volte in cui possiamo estrapolarne un frammento per dare adito alle nostre tesi. Poi però ci rifugiamo sotto la sua gonnella non appena comincia Sanremo, ed è tutto un commento, un Fanta Sanremo, un meme, una risata, un contenuto ironico, un gruppo d’ascolto.
Ho trascorso le vacanze di Natale a casa con l’influenza, come quasi tutti attorno a me. È stato più il tempo passato a scegliere cosa vedere su una delle cento piattaforme che ho a disposizione all’alba del 2024 che quello impiegato a guardare qualcosa. Ho iniziato una decina di film, li ho interrotti, sono tornata al catalogo, ho scrollato per un tempo infinito, e poi non ho visto quasi niente. Mentre l’indecisione e lo spaesamento indotto dalla vastità delle possibilità che abbiamo a disposizione mi schiacciava sotto la coperta, un pensiero serpeggiava nella mia mente: che bello il palinsesto.
Che bello non dover scegliere, lasciare che sia la televisione, dall’alto, a dirmi dove andare, cosa guardare. Niente dubbi, né ansia della possibilità inespressa, un canale, un orario, un programma. Verticale, in diretta, con un palinsesto, ai trentenni fa bene ogni tanto sentirsi dire cosa fare, farsi cullare dal Novecento, senza per forza dover impiegare tutte le proprie energie mentali a selezionare il contenuto perfettamente adatto a te. Forse è questa la ragione per cui la televisione è ancora in vita, finché non morirà la pigrizia è salva. Siamo cresciuti con l’incombenza del millennium bug, e poi non è successo niente, ci siamo salvati dal fatidico 21 dicembre del 2012, e non è successo niente, perché mai dovremmo essere noi a uccidere l’ultima rassicurante roccaforte del ventesimo Secolo?
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