- Nella città natale di Benito Mussolini, il confronto polarizzato ha impedito di fare una riflessione sulla memoria.
- Il risultato sono le contraddizioni che agitano i nostalgici e quelli che vorrebbero metabolizzare il passato.
- Solo ribadendo il carattere antifascista della nostra Repubblica si potranno sconfiggere i fantasmi che aleggiano ancora su Predappio
L’avvento di un governo post antifascista e il suo evidente sforzo di ridefinire la memoria pubblica nazionale ripropongono l’interrogativo sulla mancata elaborazione del passato fascista. Personalmente rifuggo la retorica a oltranza del «non abbiamo fatto i conti col fascismo», perché rischia di chiuderci in circoli viziosi e sterili. Ma certamente restano alcuni nodi irrisolti che vorrei qui riprendere a partire dal caso di Predappio, che in qualche modo concentra in sé molti dei paradossi e dei corto circuiti del problema.
La Predappio che non c’era
Il primo paradosso di Predappio è che quella che noi oggi chiamiamo così non è la vera Predappio. Come noto, il paese originario è infatti quello che sorge sulla collina sovrastante e che oggi si chiama Predappio Alta. La città nuova, quella a valle, fu costruita dal fascismo a partire dal 1925 nel luogo dove era nato Mussolini, la frazione (o meglio l’incrocio) di Dovìa, e divenne semplicemente “Predappio” solo nel 1936. Il progetto fu affidato al giovane Florestano Di Fausto, poi protagonista dell’architettura coloniale.
Una operazione tutta politica, di notevole interesse architettonico e simbolico, che in qualche modo anticipa l’ansia di fondazione del regime.
La Betlemme del fascismo
Un secondo paradosso è che la città natale del duce, quella che viene icasticamente definita la “Betlemme del fascismo” vide Mussolini assai di rado nel corso del Ventennio.
Dopo averla visitata da neonominato capo del governo e aver fatto qualche sopralluogo durante le operazioni di riassetto urbanistico, questi lasciò fare il fido Piero Baccanelli e si vide poco in paese: non partecipò personalmente né all’inaugurazione della “nuova Predappio”, lasciata a Farinacci; né alla accensione del faro delle Caminate nel 1927 (protagonista Federzoni); né infine a quella della Casa del fascio di Fuzzi nel 1937 (gran cerimoniere qui fu Starace).
E va ricordato anche come fu lui stesso critico verso alcune iperboli locali: nel 1926 impose di togliere la lapide che gli era stata dedicata sulla casa natale; qualche anno dopo chiese di demolire la scalinata monumentale tra il Podere verano e l’esedra del mercato.
Mussolini stabilì invece la sua residenza estiva nella poco lontana Meldola, in quella Rocca delle Caminate che ritornò al centro delle cronache durante la Rsi.
28 ottobre
Oggetto negli anni Trenta di pellegrinaggi organizzati, che arrivarono a portare anche 5mila persone al mese, Predappio non riuscì mai a trasformare questo flusso in una impresa turistica strutturata, soprattutto a causa delle mancanze di ricettività che per molti aspetti ancora perdurano.
Un altro paradosso è costituito dal fatto che Predappio è l’unica città italiana che ricorda insieme l’avvento e la liberazione dal fascismo. Fu infatti conquistata dagli alleati il 28 ottobre 1944.
In effetti le truppe polacche aggregate all’VIII armata britannica erano arrivate in zona qualche giorno prima, ma con notevole presenza di spirito decisero di attendere un paio di giorni e di sferrare l’attacco decisivo proprio nell’anniversario della marcia su Roma, per sancire anche in modo simbolico il passaggio di fase.
Il complesso del dittatore
Un ulteriore tema di riflessione è che Predappio nel 1945 passa in pochissimo tempo da terra d’elezione a luogo di stigma: i simboli del potere fascista vengono dissacrati (la casa natale diventa una discarica, la Rocca è depredata) e il nome stesso di Mussolini risulta nascosto da chi lo portava prima ad onore.
Interessanti in questo senso le pagine di alcuni corrispondenti esteri dell’immediato dopoguerra; e Giorgio Bocca parlerà poi icasticamente di “complesso del dittatore”.
Dimenticanze e nostalgie
L’aspirazione a dimenticare trova però ostacoli insormontabili dal ritorno dei corpi: quello vivo di Rachele, che rientra in zona nel 1950; e quello morto di Benito, che grazie al conterraneo Adone Zoli arriva nel cimitero di San Cassiano nel 1957, aprendo una lotta tra nostalgia e oblìo destinata a caratterizzare i decenni successivi.
I picchi si registrano nel 1965, quando si diffonde la voce del tesoro nascosto; nel 1971, quando scoppia persino una bomba; e ancora nel 1983, quando il centenario della nascita riporta su Predappio l’attenzione dei media nazionali.
Clamoroso è poi il fatto che il comune dal 1945 al 2019 sia stato amministrato da sindaci di sinistra, alcuni dei quali davvero originali.
Nervi scoperti
L’attuale querelle sulla memoria di Mussolini a Predappio è nata con il sindaco Giorgio Frassineti, ideologo del Pd che ha costruito la sua fama anche internazionale sul progetto di trasformare la Casa del fascio in un Museo nazionale del fascismo.
La proposta, avanzata alla meta degli anni Dieci, è diventata centrale per la sua riconferma a sindaco nel 2014 («Non voglio più che Predappio sia la Chernobyl della storia»). E ha trovato inizialmente il supporto del governo Renzi, della regione Emilia-Romagna e della fondazione bancaria locale; arenandosi poi di fronte alle polemiche politiche (durissimi l’Anpi e i Wu Ming) e alle difficoltà economiche.
La questione, come noto, ha sollevato un grande dibattito anche in ambito storico, con contrapposizioni che hanno travalicato le divisioni ideologiche e quelle generazionali, facendo emergere nervi scoperti anche dentro la rete degli istituti storici della Resistenza.
Polarizzazioni
Personalmente, ritengo assolutamente indispensabile una degna musealizzazione del fascismo; ma ho condiviso le critiche al progetto predappiese, sia per la collocazione sia per il metodo. Purtroppo, come spesso avviene nel nostro paese, la polarizzazione delle posizioni tende a far smarrire le questioni di merito e quindi a deprimere ogni approccio di mediazione costruttiva.
Ultimo paradosso di Predappio è in effetti che il museo sul fascismo promosso da un amministratore di sinistra sia stato poi affossato dal primo sindaco di destra del dopoguerra, Roberto Canali, eletto nel maggio 2019.
Non che questi abbia trascurato di agire in campo memoriale: ha rifiutato il finanziamento ai viaggi della memoria; ha negoziato con la famiglia la riapertura della cripta Mussolini; da ultimo ha concesso spazi pubblici per una discutibile mostra sul centenario della marcia su Roma.
Ma la ex Casa del fascio, di cui proprio in questi giorni sono stati finalmente iniziati i lavori di restauro, non diverrà un museo, ma più prosaicamente sarà sede di uffici comunali e di un centro culturale polivalente. Peraltro nella lunga fase di stallo (le cui responsabilità sono state attribuite alla sovrintendenza) sono girate le ipotesi più fantasiose, dal centro studi sul futurismo a quello sulle tradizioni locali.
Proporste
Intanto, sempre per rimanere ai paradossi, il centro rurale di Predappio è stato invaso dalla modernità: la Rocca delle Caminate è diventata un Tecnopolo; e l’ex Caproni ospita una avveniristica galleria del vento (“Ciclope”). Ma nelle tre date canoniche (28 aprile, 29 luglio e 28 ottobre) le strade del paese continuano a riempirsi di nostalgici.
Nel chiudere questo mio intervento mi permetto di avanzare due modeste proposte, volte a evitare ulteriori frustrazioni:
- che Predappio non venga riabbandonata a sé stessa. I negozi di gadget mussoliniani non sono accettabili in un contesto democratico; né lo è il nostalgico museo aperto nel 2001 a Villa Carpena. Predappio va inserita in un circuito di luoghi della storia fascista, da risignificare, spiegare e eventualmente patrimonializzare. Le occasioni non mancano: progetti come il Museo dell’abbandono di Spazi indecisi o l’itinerario europeo Atrium, entrambi centrati in Romagna, garantiscono infatti basi scientifiche e operatività concreta per agire in questa direzione;
- che il dibattito sulla musealizzazione del fascismo non venga chiuso in un cassetto e rinviato sine die, ma resti aperto, ridiscutendone la sede (che dovrebbe essere Roma o Milano), il modello (per il quale la museologia italiana offre l’originale approccio del “museo diffuso”), il taglio (che ovviamente non può essere celebrativo, ma neanche solo di condanna morale; ma in questo senso la public history offre strumenti nuovi per affrontare la sfida). In questo senso possono essere utilmente recuperate sia la riflessione avviata dall’Istituto Nazionale Parri sui luoghi della memoria neofascista ancora presenti in italia (si vedano il volume Viella I luoghi del fascismo e il portale omonimo), che le recenti discussioni sulla difficult heritage innescati dal Black Lives Matter.
Intanto vale la pena andare a dare un’occhiata al museo BZ ’18-’45 a Bolzano, che ha utilmente riutilizzato la cripta del Monumento alla vittoria di Piacentini, installandovi un percorso sulla storia del fascismo in quest’area di confine. L’operazione si inserisce peraltro in un più ampio progetto di risignificazione dei monumenti fascisti che ha giustamente attirato l’attenzione internazionale, presentandosi come modello virtuoso di conservazione non passiva, né puramente distruttiva. E anche al nuovo museo della Rsi a Salò, che verrà inaugurato a fine giugno.
Perché i paradossi di Predappio non continuino ad aleggiare come fantasmi sulla nostra memoria pubblica (che significa anche sulla nostra identità collettiva) è necessario che, a partire dal governo stesso, si ribadisca il perimetro irreversibile della convivenza repubblicana, fissato dall’antifascismo, che non è più sufficiente a connotare in modo esclusivo la democrazia del XXI secolo, ma resta a mio parere necessario.
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