Muscoli e rinascite di Fabrizio Spadoni, lottatore e odontotecnico che un giorno spacca denti e il giorno dopo li ripara. Con il suo A-Team mette al sicuro i locali romani, ma una rissa finita male lo porta a Rebibbia. Il riscatto dopo la pena
- La detenzione è un dolore troppo grande per essere affrontato senza l’aiuto di qualcuno che quello stesso dolore lo capisce perché, insieme a te, lo vive.
- Mi impegno per ricostruire la mia vita. Con mia moglie e con mio figlio cerco sempre di mostrarmi forte. Loro devono sapere che possono contare su di me, che la nostra esistenza è tornata normale.
- Mentre ci incamminiamo verso casa, penso che ci vorrà del tempo prima che tutto, normale, torni a esserlo davvero. Adesso ho il portafoglio vuoto e mi chiedo come arriveremo a fine mese. È di nuovo lo sport a venirmi in aiuto.
Ci sono luoghi frequentati da un’umanità eterogenea e variegata, individui che – per stile di vita e ruolo sociale – normalmente condividerebbero, al massimo, il rosso di un semaforo. Posti in cui vige una inquietante, quasi mistica, extraterritorialità. Zona franca si propone di raccontare la geografia di questi luoghi e la storia delle persone che li hanno frequentati.
– Fermati qui!
Mi fermo.
Scendono dalla macchina. Tutti e tre. Stereofonia di sportelli che si aprono. Lieve asincronia di sportelli che si richiudono.
Cominciano a parlare tra di loro. I toni si alzano. La discussione trascende.
Urla. Minacce. Due colpi di pistola. Il più vecchio dei tre si accascia sul marciapiede.
Piazza Esopo adesso è vuota.
Sono spariti tutti ma io lo so che ricompariranno. Che, nei prossimi giorni, me li troverò di fronte. In questura. Ad accusarmi. A dichiarare che sulla scena del delitto, oltre a vittima e aggressori, c’ero anch’io.
Sono un pregiudicato. Nessuno crederà alla mia innocenza.
Mentre quell’uomo steso a terra trema come un pesce agonizzante sugli scogli, il sangue gli leoparda i pantaloni travisando lentamente la sua sagoma.
Credetemi, vi prego: chi ha sparato lo ha fatto a mia insaputa. Con questa storia davvero io non c’entro.
Tre amici mi chiedono di portarli a Casal Palocco.
Appena scesi però, da non ho neanche il tempo di vedere dove, uno di loro tira fuori la pistola.
Spara. Spara a uno degli altri due.
Viene commesso un reato e io mi trovo a pochi metri. Sono complice. Sicuramente non potevo non sapere.
Il mio amico ha sparato e, anche se i proiettili erano diretti a un altro, è come se avessero colpito pure me… me e la vita che ho cercato di ricostruirmi, fuori da Rebibbia.
Mi ci sono voluti anni per rientrare nel giro, per riconquistare la fiducia dei proprietari di locali e dei vip che li frequentano. Anni di umiliazioni, sforzi e sacrifici. E adesso, solo per un favore fatto a degli amici, di nuovo – per tutti – sarò un pregiudicato.
Mi gira la testa, mi aggrappo al volante, mentre il silenzio calato dopo i colpi di pistola continua a rimbombarmi nelle orecchie. Chiudo gli occhi per una frazione di secondo. Li riapro, con la speranza di ritrovarmi a casa, in palestra, a una festa… in un qualsiasi posto che non sia quella piazza.
Il mio cervello ripercorre la mia vita contromano.
Ostia, 1980
Sono al centro di un cortile e ho dodici anni.
Silenzio.
Lo stesso di Casal Palocco in quel pomeriggio di settembre.
Davanti a un semicerchio di ragazzini che mi fissano atterriti mi sfioro, con la mano, la guancia umiliata dallo schiaffo di un diciottenne alto il doppio di me, che – seduto su una Vespa – mi guarda con aria di sfida.
– Non ci provare più! Capito, stronzetto?
Io ero intervenuto per difendere un amico derubato del pallone e il tipo con la Vespa aveva deciso di farmela pagare.
Vorrei trovare la forza di reagire... di ricambiare lo schiaffo. Non ci riesco. L’umiliazione mi paralizza.
Da quando quel ragazzo mi ha colpito, sono passati in tutto quindici secondi. Quindici secondi che mi cambiano la vita.
Prometto a me stesso che non consentirò mai più a nessuno di umiliarmi.
Mi iscrivo in palestra: pugilato.
Mi alleno come un pazzo. Quasi tutti i giorni. Anche fino a mezzanotte. Diretto, gancio, montante. Imparo i colpi. Sia a schivarli che a piazzarli.
La guancia continua a bruciarmi.
Sul ring non hai alleati. Non è come nel calcio.
Studio. Mi alleno. Studio. Mi alleno.
Vinco il primo incontro. Mi diplomo odontotecnico.
Vinco gli incontri successivi. Apro un laboratorio.
Gli amici mi prendono in giro: un giorno rompi i denti, il giorno dopo li ripari.
Forse farei meglio a concentrarmi solamente sul lavoro, ma in palestra mi sento realizzato.
Accademia Boxe Ostiamare, via Cardinale Ginnasi 122, Ostia
Un capannone di lamiera, infuocato d’estate e gelido d’inverno, costruito nel 1968 accanto al Luna Park di Ostia. Rumore di pugni, urla di ragazzi sulle giostre.
Due docce in tutto per più di cento iscritti.
In quella palestra c’è stata anche una sparatoria. Tre zingari irrompono pistole in pugno per uccidere Aureliano. Regolamento di conti. Ma è una scena di Suburra. In realtà in quella palestra nessuno ha mai usato armi da fuoco.
Negli anni Ottanta la Boxe Ostiamare è una zona franca, dove si combatte solo con guantoni e paradenti e a bordo ring convivono persone spesso in guerra tra di loro e comunque normalmente incompatibili: criminali e poliziotti, zingari e fascisti, marchettari e terziari francescani. Perfino qualche pariolino viene ogni tanto ad allenarsi, per respirare l’aria della palestra di borgata.
Ai figli di papà suggerisco di lasciare a casa accessori costosi e magliette firmate. Parole d’ordine: basso profilo.
Un giovane sottosegretario chiede all’autista di lasciarlo dietro l’angolo e si fa a piedi gli ultimi duecento metri. Alcuni avvocati incrociano i guantoni con probabili clienti.
Seconda metà degli anni ottanta. Chiudo definitivamente il laboratorio di odontotecnico per lavorare a tempo pieno come buttafuori nelle discoteche. È quella la mia strada.
Sulla porta dei locali passo in rassegna facce, muscoli, vestiti, riuscendo a individuare in pochi istanti le persone che, una volta dentro, potrebbero creare dei problemi. Nei rari casi in cui mi resta qualche dubbio, con una scusa li faccio aspettare: chi perde troppo presto la pazienza dovrà trovarsi un altro locale per passare la serata.
Ai pariolini che frequentano la palestra consiglio abiti dimessi ma dai clienti delle discoteche pretendo decoro ed eleganza.
I gestori si accorgono presto che, con me alla porta, i problemi spariscono.
Le offerte di lavoro si moltiplicano. Ormai da solo non riesco più a far fronte alle richieste. Divento imprenditore.
Apro la mia agenzia e la chiamo A-Team. Come il famoso telefilm degli anni Ottanta.
Recluto in palestra i ragazzi che mi sembrano più adatti e ognuno di loro mi presenta a sua volta altre persone di fiducia.
La squadra si allarga: arriviamo a essere un centinaio. Le porte delle principali discoteche di Roma e del litorale sono ormai presidiate quasi esclusivamente dagli uomini della mia agenzia. Siamo noi a decidere chi entra. Noi a intervenire quando c’è un problema… e i problemi, in quel periodo, sono all’ordine del giorno. Su Roma piovono pasticche. Mdma, Lsd, ketamina, speed. Sono gli anni dei primi rave party.
Per governare quelle mandrie di decerebrati ipercinetici non bastano normali buttafuori. C’è bisogno dei mastini dell’A-Team. Ogni festa, una battaglia. Forze in campo squilibrate come alle Termopili. Noi cinquanta, loro tremila. Noi mimetica e guanti neri, loro tuta acetata e occhiali da sole.
Se scoppia una rissa dobbiamo fare in modo di intervenire subito – isolando i responsabili – perché, in casi di sovraffollamento, lo scontro rischia di propagarsi in pochi istanti.
Il giorno successivo a molti rave, teste e schiene dei partecipanti – ormai sfiniti da sonno, droga e alcol – regolarmente deformano alcuni punti dei tendoni che hanno ospitato il megaevento.
A volte sembra che quelle teste ci chiedano di essere prese a calci, come palloni sul dischetto. E noi non ci tiriamo indietro.
Siamo gli sceriffi della notte.
Vuoi fare il prepotente? Stai alla larga dai locali dove l’ordine lo manteniamo noi.
Il dominio dell’A-Team dura incontrastato fino al 2 marzo 1994.
Sono all’ingresso della discoteca Ciak quando una postazione fissa dei Carabinieri che si trova a pochi passi riceve una chiamata.
Sento distintamente le parole: «… rissa al Blue Zone, via Campania 37, zona via Veneto».
Anche la sicurezza del Blue Zone quella sera è affidata all’A-Team. Prendo la macchina e mi precipito in via Veneto.
Sono in due. Ubriachi e strafatti.
All’interno del locale hanno devastato il bagno, aggredito il barista e perfino picchiato una ragazza.
Urlano e sputano ai miei colleghi sulla porta, minacciano di morte i Carabinieri che provano a fermarli. Appena mi vedono, minacciano di morte pure me.
Sul posto arriva anche una pantera. I poliziotti, finalmente, riescono a bloccare i due squilibrati e li spingono dentro la volante.
Per calmarli gli dicono che li accompagneranno a casa.
Uno dei buttafuori: «Seguiamoli, Fabrì!».
Attenti a non entrargli nel retrovisore, li seguiamo.
Roma sempre più spenta. Siamo in periferia. Li fanno scendere in una stradina di Tor Bella Monaca.
Aspettiamo che la volante si allontani e gli saltiamo addosso.
Io mi avvento su quello che mi aveva minacciato, lasciando l’altro ai miei colleghi.
Un pugno in faccia. Lo stordisco. Cade. Un calcio destinato al petto, per sbaglio, gli arriva sulla gola.
Quindici secondi.
Quindici secondi che – di nuovo – mi cambiano la vita.
Roma, 26 marzo 1994
Quando la polizia viene ad arrestarmi mi volto a salutare mia moglie ferma sulla porta, con in braccio il nostro bambino di soli 5 mesi.
«Non ti preoccupare amore: un paio d’ore e torno a casa», la rassicuro.
È stato un incidente. È ovvio che è stato un incidente… e poi, sono incensurato… al massimo mi prendo 3 mesi per lesioni.
L’uomo che ho aggredito, però, è in rianimazione e – senza mai riprendere conoscenza – dopo cinquanta giorni muore.
Io a casa non ci torno né quel giorno, né quel mese, né quell’anno.
Custodia cautelare in carcere.
Accusa: omicidio volontario premeditato. Possibile pena: da 30 anni all’ergastolo. Rinvio a giudizio.
Mio figlio mi chiama per la prima volta “papà” nel parlatorio di Rebibbia.
Sensi di colpa.
Non saranno le mie mani a sostenerlo mentre muove i primi passi. Non sarà la mia voce a raccontargli le favole, la sera.
Il carcere è un concentrato della società, una sua diretta emanazione e, come in tutti i contesti sociali, ci sono i buoni e i cattivi.
In cella ognuno ha il suo compito. Chi pulisce, chi lava i piatti e chi cucina. Se hai dei soldi a disposizione, condividi con i tuoi compagni “sopravvitto”, giornali e sigarette.
Alcune delle persone che ho conosciuto tra le sbarre sono diventate veri amici e probabilmente lo saranno per tutta la vita.
La detenzione è un dolore troppo grande per essere affrontato senza l’aiuto di qualcuno che quello stesso dolore lo capisce perché, insieme a te, lo vive.
Ci si guarda le spalle a vicenda, coalizzandosi contro altri detenuti che, con la prepotenza, vogliono imporre la loro legge.
Buoni e cattivi ci sono anche tra le guardie.
Magari trovi quello che cerca di parlarti come un padre e di spingerti a studiare, a imparare un mestiere… e quello che approfitta del tuo stato di inferiorità per umiliarti ed esercitare un potere che, nella vita reale, di certo non ha.
Durante un’ispezione un gruppo di secondini stronzi strappa le foto della mia famiglia, con cui ho tappezzato di sorrisi la parete della cella.
Resto impassibile ma, con il cuore a pezzi, mi giro un attimo per cancellare con il dorso della mano una lacrima che non sono riuscito a trattenere.
Cercano di mettermi al tappeto, ma io mi rialzo sempre. Come sul ring.
Nel frattempo c’è l’appello. I giudici si rendono conto che è stato un incidente, che non volevo ammazzare nessuno.
Dopo due anni e mezzo sono fuori. Un altro anno di domiciliari e due di servizi sociali.
Riparto da zero.
Mi impegno per ricostruire la mia vita. Con mia moglie e con mio figlio cerco sempre di mostrarmi forte. Loro devono sapere che possono contare su di me, che la nostra esistenza è tornata normale.
Passeggiando con mia moglie per via delle Baleniere, a Ostia, vedo un paio di scarpe che mi piacciono.
Entro e me le compro.
È tutto normale, mi ripeto, ho solo comprato un paio di scarpe.
Mentre ci incamminiamo verso casa, penso che ci vorrà del tempo prima che tutto, normale, torni a esserlo davvero. Adesso ho il portafoglio vuoto e mi chiedo come arriveremo a fine mese.
Ho bisogno di soldi.
HO. BISOGNO. DI. SOLDI.
Anche se ora sono un uomo libero, fatico a trovare qualcuno che mi offra un lavoro.
È di nuovo lo sport a venirmi in aiuto. Alessandro Colonnese, Maestro di arti marziali, mi coinvolge nel suo progetto di lanciare in Italia una forma di combattimento estremo che si svolge in una gabbia. Negli Stati Uniti e in Brasile ormai imperversa, col nome rispettivamente di Ultimate Fight e Vale Tudo (oggi Mma).
In Italia si chiamerà Free Fight.
Niente è vietato all’interno della gabbia. A parte morsi, colpi a occhi, gola e genitali.
Sento che per me questa può essere un’occasione di riscatto.
Non mi accontento, però, di occuparmi solo dell’organizzazione: ricomincio a combattere.
Durante l’anno e mezzo di domiciliari non ho fatto altro che allenarmi. Le braccia sono forti ma le gambe vanno potenziate.
Mi esercito ogni giorno come un disperato: Lotta Greco-romana, Grappling, Muay Thai e Jeet Kune Do.
Per presentare il Free Fight al pubblico italiano organizziamo un grande evento al Palazzetto dello Sport di viale Tiziano.
Febbraio 1997
Articoli su tutti i quotidiani. Palazzetto strapieno. Incasso record.
A poche ore dal combattimento il mio avversario – un olandese di due metri – distrugge contro un albero una macchina, due costole e un ginocchio.
La vittoria mi viene assegnata a tavolino.
Devolvo il mio cachet ai detenuti di Rebibbia e mi concentro sull’incontro successivo.
Vincere senza combattere non mi dà soddisfazione.
Qualche mese dopo, un destro al mento e un calcio al fegato mettono al tappeto il mio avversario. Campione, finalmente, ci divento per meriti acquisiti nella gabbia.
Torno a lavorare anche nelle discoteche.
Il primo a richiamarmi è Marco Sansalone, organizzatore di eventi e gestore di locali, che mi affida la sicurezza della discoteca Off Shore. Il nuovo incarico mi permette di coinvolgere di nuovo alcuni ragazzi che, un tempo, erano stati i miei collaboratori.
Lavoro come un pazzo.
Disciplina. Rigore. Giorno e notte. Niente turni di riposo.
Cominciano a ingaggiarmi anche come bodyguard di personaggi famosi.
Cantanti, attori, sportivi, politici. La lista di vip che vengo incaricato di proteggere diventa, in pochi mesi, meravigliosamente lunga.
Stagione 2000/2001: il presidente della Roma affida a me la sicurezza della squadra in tutte le trasferte.
Stavolta le porte che presidio – giacca, cravatta e auricolare – sono quelle degli hotel di lusso che ospitano Francesco Totti e i suoi compagni.
Ostia, 2013. Dopo i fatti di Casal Palocco, la giustizia riconosce la mia estraneità alla sparatoria.
Decido di riorganizzare l’A-Team: organico ridotto, formato solo dagli amici più fidati.
Per incontrare Alazar, l’ultimo dei componenti della nuova squadra, devo arrivare fino a Pavia.
Mi guarda fisso. Quindici secondi. Sento che di lui potrò fidarmi.
La mia vita, per la terza volta, cambia direzione.
Laureato nel 2018 in Scienze Criminologiche con indirizzo Processi Sociali, Fabrizio Spadoni ha aperto (a pochi chilometri da Ostia, nella Riserva Naturale del Litorale Romano) l’A-Team Security School, centro di addestramento cinofilo. Alazar, il suo cane preferito – che lui considera un figlio – è un dobermann che ha appena compiuto 7 anni.
Leggi le altre puntate di Zona franca di Patrizio Bati su www.editorialedomani.it
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