C’è una scena di Family Guy che riaffiora ogni tanto su Instagram, non perché sia riferibile a questo o quel fatto di cronaca, come accade, ma, credo, semplicemente perché è bellissima.

L’intera famiglia Griffin sta per morire annegata: sono tutti e sei – cinque umani e un cane – in uno spazio chiuso, una specie di camera di sicurezza, e l’acqua sparata dai bocchettoni sopra di loro sale e sale, e presto arriverà al soffitto, e non ci sarà più modo di respirare.

A un passo dalla morte, Peter confessa: «Beh, dato che stiamo tutti per morire, c’è un ultimo segreto che sento di dover condividere con voi: non mi è piaciuto Il Padrino». Mentre l’acqua sale, l’intera famiglia lo prende a male parole: «Come puoi anche solo dire una cosa del genere?», «Peter! Ma è il film perfetto!!!». Il figlio maggiore, Chris, comincia a sbraitare i nomi degli attori: «Robert De Niro! Al Pacino! Robert DUVAAAALL».

Gli chiedono spiegazioni: «Insiste su sé stessa, Louise». «Che cosa?». «Insiste su sé stesso». «Ma cosa accidenti vuol dire?!». Ma niente da fare, a Peter non è proprio piaciuto, non ha capito il linguaggio. «Il linguaggio che parlano è quello della sottigliezza – conclude Lois – non è roba per te».

Ma in realtà non è vero, Il Padrino è epico, e l’epica non parla il linguaggio della sottigliezza. È forse sottile il patriarca Marlon Brando? No. È forse sottile il modo in cui Al Pacino cambia pelle, e da bravo ragazzo che non vuole avere a che fare con gli affari di famiglia diventa il crudele capo di quella stessa famiglia? Proprio no. È un film sulla mafia, e i suoi personaggi si comportano come dovrebbero: come mafiosi.

Personaggi sottili

Anche i personaggi dei Soprano sono dei mafiosi, o vivono a contatto coi mafiosi, ma gran parte di loro è, sì, autenticamente sottile, vale a dire che i loro caratteri sono più complicati di quanto non siano quelli dei Corleone, innanzitutto per la banale ragione che, rispetto a Coppola, il creatore dei Soprano David Chase ha avuto molto più tempo per disegnarli.

I tre film del Padrino sono lunghi, ma le 86 puntate dei Soprano, messe assieme, sono molto più lunghe. Ci vuole tempo, non solo per sviluppare un personaggio, ma anche per fare in modo che lo spettatore ne assimili le caratteristiche, lo conosca, gli si affezioni, anche a canaglie come Tony Soprano, soprattutto a canaglie come lui. Ma il tempo lo si può usare male, malissimo, come accade in molte serie televisive inutilmente prolisse.

Chase lo ha usato meravigliosamente. Intanto, moltiplicando le sottotrame. Provate a togliere di mezzo il protagonista: vedrete che bastano i comprimari a rendere I Soprano la migliore serie tv della storia. Come quegli anonimi scultori medievali che cesellavano anche le parti invisibili delle statue dei santi, Chase ha dato ad almeno una ventina di personaggi una fisionomia tanto interessante da renderli memorabili (non a caso, su YouTube, qualcuno ha pensato di riunire in sequenza i frammenti in cui ognuno di loro ha agito da protagonista: La storia di Feech Lamanna, La storia di Phil Leotardo, La storia di Jimmy Altieri…).

Paulie Walnuts è il più inumano degli sgherri di Tony: ma a un certo punto lo vediamo piangere in un angolo, mentre una madre preoccupata chiede a Tony di non fare del male a suo figlio. Il giorno dopo, dimenticato ogni tenerezza, proprio Paulie andrà dal figlio e gli spezzerà una gamba con un tubo di ferro: «I’ve got much on my mind, These days, I don’t need this shit!». Anche Eugene Pontecorvo è uno dei fedelissimi, ma ha una psiche un po’ più delicata di quella degli altri membri della banda. Lo intercetta l’Fbi, lo obbliga a collaborare; lui vorrebbe lasciare la mafia e andarsene in Florida per godersi i soldi di un’eredità. Tony gli nega il permesso, lui s’impicca nel garage.

I figli di Tony Soprano? Sanno tutto ma fingono di non sapere, convivono pacificamente – solo al prezzo di qualche nevrosi – con la consapevolezza che il lusso delle loro vite deriva dal crimine. E la moglie Carmela? Con i sensi di colpa, la paura dell’inferno, il flirt con il prete, ideali mitemente progressisti ma anche, dall’altra parte, la reattività di un serpente quando qualcuno – qui l’amante del marito – minaccia la pace familiare: «We have got guns here».

Il segreto

«Ogni esistenza personale si mantiene nel mistero» (Čechov). C’è un segreto nella vita degli uomini, un segreto che spesso loro stessi ignorano, che può manifestarsi grazie alle sollecitazioni della vita, ma può anche non manifestarsi mai. Una delle cose che si fanno nei romanzi è appunto questa: si scioglie il mistero delle esistenze personali, si dice – dopo una peregrinazione di molte pagine – chi è l’essere umano che sta al centro del racconto.

Nei Soprano c’è, ovviamente, la sospensione che deriva dal non sapere che cosa succederà nel corso della puntata, o nella serie successiva: se il raccontato personaggio è un informatore dell’Fbi, se diventerà un affiliato, se riuscirà a cavarsela nella guerra tra clan, se finirà ammazzato.

Ma c’è anche una sospensione più – è la parola – sottile, quella che dipende dal fatto che ignoriamo in che modo cambierà il suo modo di vedere le cose, a quale crescita o quale incontro o involuzione sta per andare. Esempi: Christopher che tenta la strada del cinema, Meadow che va all’università e s’immagina attivista per i diritti civili, Artie Bucco che cerca di diventare duro come i duri che frequentano il suo ristorante. E le mogli, le compagne, le cummari: questi abissi di pena e falsa coscienza. «Per me», ha detto David Chase, «la cosa più importante era l’ambiguità. Nessuna certezza. E la tv mainstream a quell’epoca era un mondo di certezze. I Soprano era ambiguo al punto che, ancor oggi, non saprei dire se era un dramma o una commedia».

Commedia umana

Una commedia, soprattutto. Dicevo che senza Tony Soprano i Soprano sarebbero comunque la più bella serie tv della storia. Invece non lo sarebbero se Chase avesse deciso di non intrecciare il filo del dramma – la violenza, gli omicidi, la cattiveria, l’infelicità – al filo della commedia umana. Non come nel Padrino, che di commedia quasi non ne ha (forse solo la battuta «Leave the gun, take the cannoli», dopo l’omicidio di Paulie), non come in Analyse This, che di commedia ne ha troppa. La misura giusta: tanta. Non tutti, ma quasi tutti i personaggi dei Soprano sono anche ridicoli: basta metterli in un’acqua un po’ diversa da quella in cui sono abituati a nuotare (che è poi l’invenzione-guida di tutta la serie: un capomafia che parla con un’analista).

Il team-Chase ha saputo tradurre questo ridicolo in parole che a un quarto di secolo di distanza restano inchiodate alla memoria, e rimbalzano nei meme in rete:

Tony Soprano: «Che fine ha fatto Gary Cooper? Il tipo forte e silenzioso?»

Sempre Tony: «Il cunnilingus e la psichiatria ci hanno portato a questo».

La dottoressa Melfi: «Vuoi diventare un capobanda migliore? Leggi L’arte della guerra di Sun Tzu». Tony: «Sai cosa? Vaffanculo».

Paulie: «Cosa senti? Cosa dici?».

Carmine Lupertazzi Sr.: «Un don non indossa pantaloncini corti».

Silvio Dante: «Il tuo valore è pari alla tua ultima busta».

E così via per minuti, per ore. David Chase ha creato un mondo, lo ha popolato di mostri e gli ha dato un linguaggio. Ma alla fine – scivolate via dalla memoria le situazioni, i fatti: chi ha ammazzato chi, il labirinto delle alleanze – quello che resta impresso è soprattutto il linguaggio: una delle cose che non smettono di affascinare, nei Soprano, e che la distinguono da quasi tutte le serie televisive prodotte in quest’ultimo quarto di secolo, è che nei Soprano le parole sono più importanti degli eventi, che con tanto tempo a disposizione, tante ore da riempire, Chase ha deciso di riempire, ha saputo riempire una cospicua quantità di queste ore con niente, zero eventi, soltanto battute o chiacchiere funzionali non allo sviluppo della trama, ma al colore. Phil Leotardo e Vito Spatafore sono a cena, stanno parlando di affari, entra la moglie con i caffè, poi esce e la conversazione riprende:

Vito: «Ho dimenticato di cosa stavamo parlando».

Phil: «Anch’io. Che cazzo era?».

Nei Soprano non mancano i casi di quello che Flaubert chiamava “sublime dall’alto” (su tutti: la scena finale della puntata dal titolo “Long Time Parking”, dopo che Silvio Dante ha ammazzato Adriana, e Tony e Carmela vanno a vedere una casa nel bosco che potrebbero comprare); ma a me sono quasi altrettanto cari questi squarci di sublime dal basso: non il culmine della tragedia ma la normale amministrazione della vita. Ma alto o basso, dramma o commedia, sublime o ordinario, vale per I Soprano quello che Contini ha detto una volta della Ricerca di Proust: un risultato che difficilmente, in futuro, si potrà eguagliare.

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