- Tutta la storia breve della trap e della drill è piena di rapper che non arrivano a chiudere i versi perché troppo veri, perché hanno altro da fare, troppo sfatti per arrivare in fondo, tenuti in piedi soltanto dall'elettricità pura dell'autotune.
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Il realismo del rap è un affare da sempre presunto. Spesso è iperrealismo, altre volte pura fantasia cinematografica. Pasolini non c'è mai, o quasi. Ma c'è Goodfellas di Scorsese, che Pasolini lo ha visto e amato. Ci sono Il Padrino e Scarface, dove la ricchezza sfrenata e la rivincita sociale conducono alla finale crocefissione.
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Quindici anni fa erano i tempi di Fabri Fibra, che per primo fece imparare a memoria parolacce e invettive ai bambini delle elementari ai tempi degli Applausi per Fibra e dei Vaffanculo scemo. Facile tra quei bambini trovarci i trapper di oggi. Lui intanto è tornato con un nuovo album.
“Com'è vera la mia merda / sembra scritta dalla strada stessa” rappa Paky, vero nome Vincenzo Mattera, in No Wallet. Niente portafoglio. Io mi tengo tutto ncuollo, cioè addosso, i soldi e il resto. è il tema della canzone divisa a metà con Marracash. Shit è gergo facile.
Ventidue anni, nato dalle parti di Secondigliano (di cui mantiene l'accento e forse l'imprinting) Paky è oggi una delle icone di Rozzano, banlieue milanese che lui chiama Rozzi. “Giro a Rozzi / Io qua ci muoio frate' a Rozzi” il ritornello del brano che lo ha lanciato più di due anni fa: 27 milioni di visualizzazioni del video girato per le strade coi ragazzi del rione. Paky evoca ogni volta che può la dissolvenza delle sue parole: “Ricordati che chi è di strada non parla, agisce” dice in Mama I'm a criminal dove ruba il contagioso ritornello a un oscuro rapper russo e lo scenario a Carcerato di Mario Merola.
Crimine vero o storytelling
Alla base di tutto il gangsta rap dagli anni Novanta ad oggi sta l'ambiguità semantica tra crimine vero e storytelling, tra spaccio vero e metaforico spaccio di rime. Paky ha anche trovato una rima buona per spiegarlo: “Adesso ho due avvocati: uno è solo per la musica, l’altro è per i reati”.
Ci aggiunge un ulteriore paradosso retorico: chi fa rap con le rime, la metrica e le foto su insta – sembra dire – ha già tradito la strada. Come nell'attacco di Blauer, altra sua hit assoluta: “Chiedo scusa se non uso internet / Un vero ghetto boy non sta su internet / faccio le storie in strada, non su Insta”. E nelle interviste ricorda che da ragazzino criminal “quando vedevo qualcuno fare rime o freestyle lo prendevo in giro”.
Salvatore
Tutta la storia breve della trap e della drill è piena di rapper che non arrivano a chiudere i versi perché troppo veri, perché hanno altro da fare, troppo sfatti per arrivare in fondo, tenuti in piedi soltanto dall'elettricità pura dell'autotune.
Nella personale mitologia di Paky il rap è anche una chiamata. Quattro anni fa muore in un incidente stradale lo zio Salvatore, l'ultima persona a sentirlo al telefono è lui. «Fu proprio la mia chiamata a distrarlo», gli spiegano.
Lui racconta con emozione e senza musica nel pezzo centrale del suo primo album Salvatore, uscito due settimane fa per la Island/Universal, catapultato ai primi posti delle classifiche: “Quel giorno mi tatuai morto dentro sulla bocca dello stomaco”. Per questo la morte e un certo umore dark aleggiano su gran parte di Paky, diminutivo di “pakartas” che in lituano vuol dire “impiccato”. Altre storiacce familiari.
Borgatari e mignotte
Che cosa avrebbe detto Pier Paolo Pasolini della drill? E della trap? Perfettamente a suo agio con le storie di pimp e bitches, papponi e mignotte – Accattone e Mamma Roma – affascinato dalla fantasia sottoproletaria dei giochi di parole, degli stornelli, dei dozens, amante colpevole delle canzonette. Ma attratto soprattutto dalle debolezze, dai buchi emotivi dei “suoi” riccetti e accattoni devastati dall'amore e dai sogni di rispettabilità piccolo borghese, dalla segreta religiosità della rappresentazione, dalla sconfitta, dalla morte.
Ne La notte brava scritto per Mauro Bolognini il denaro di una ricettazione passa di mano a un gruppo di borgatari e mignotte, perdendosi fino a scomparire all'arrivo dell'alba.
Nino D’Angelo ai tempi di Glovo
Nel nuovo video di Shiva, Andrea Arrigoni 22 anni, nato a Legnano cresciuto a Corsico, il rapper maneggia una mazzetta da 20 euro più alta di una spanna, sgomma su una Jaguar nera, mostra un orologio di brillanti enorme e luccicante. “Entriamo alle feste ma senza gli inviti / mischiando il profitto e i soldi puliti”, rappa in Soldi Puliti.
Ha una felpa rossa, le Nike bianche ai piedi, come i ragazzi della sua crew. Nel finale compaiono anche Paky e i suoi in camouflage scuro Adidas, come si meglio conviene al loro umore. “I miei hanno svoltato cantando – spara ancora Shiva nella rima più galeotta del pezzo – mentre i tuoi se la sono cantata”.
Ribaldo e più solare di Paky, è attualmente in classifica con Pensando a lei, romanzetto di amore (ma senza impegni), sushi e rivincita sociale sulle terrazze sui grattacieli milanesi: “Sono passato da avere niente/ a darti quello che vuoi”. Nino D'Angelo ai tempi di Glovo, tipo.
Cancelo
I papà in galera. Le mamme a casa, a volte malate. Le case. “Ricordi quando stavamo in quattro in un bilocale? – Paky si rivolge alla mamma – Avevo vergogna a invitare gli amici a mangiare”.
“Ragazzini dentro alle case Aler / si vergognano non vogliono parlarne” dice Rhove nella sua recente Cancelo, dedicato all'ex attaccante della Juve troppo lungo spiegare il perché. Samuel Roveda, 20 anni di Rho, provinciale e non di periferia ci tiene a dirlo ma soprattutto legato all'immaginario superesotico dell'hip-hop francese, per questioni di parenti, dal quale prende parole, magliette delle squadre di calcio e soprattutto musiche: una specie di soukous/reggaeton poco frequentato dai nostri quaggiù.
È la koinè che fa tanto seconda generazione che attraversa l'intera trap italiana: terrona, nord africana, est europea. Specie quella nata nei casermoni dell'hinterland milanese.
Rap e Gomorra
Il realismo del rap è un affare da sempre presunto. Spesso è iperrealismo, altre volte pura fantasia cinematografica. Pasolini non c'è mai, o quasi. Ma c'è Goodfellas di Scorsese, che Pasolini lo ha visto e amato. Ci sono Il Padrino e Scarface, dove la ricchezza sfrenata e la rivincita sociale conducono alla finale crocefissione.
Da Scarface fino a Gomorra: le case dei boss di camorra, lo scoprì Roberto Saviano a suo tempo, erano arredate proprio come la villa di Tony Montana nel film di De Palma. Bastava soltanto quello per farci sopra un film. Ne hanno fatto uno dei punti nodali dell'immaginario italiano degli ultimi vent'anni.
Il legame tra Paky e Gomorra è sottile ma interessante. Paky ha eletto suoi punti di riferimento nella storia del rap italiano i Co' Sang di Secondigliano, piccolo mito di inizio anni Zero. Uno dei loro primi video lo girarono sotto casa di sua nonna a due passi dalle Vele.
Molto dopo alcune loro canzoni vennero usate nella colonna sonora delle prime serie di Gomorra. Paky ha chiamato Luchè, uno dei componenti del duo, ad un featuring con Mahmood ne Il giorno del giudizio: “Quando muoio / Voglio che suonate Luca al funerale mio, / - rappa - E poi voglio / Quando si svolge la messa ci sia il mio nemico / Il perdono”. Ecco. Nel migliore dei casi la scrittura di Paky si nutre della lotta tra il suono del linguaggio, il rumore della vita e il silenzio della morte. Nel peggiore ripete i dialoghi di una sceneggiatura media di Gomorra.
Figli di Fibra
Nelle classifiche musicali italiane, dopo l'ondata delle canzoni di Sanremo, tornano a bussare il rap e la trap – ingredienti fondamentali della nostra canzone popolare negli ultimi 15 anni. La domanda marziana sarebbe a questo punto: che cosa ci trovano i ragazzini italiani di buona famiglia nello storytelling criminale, vero o presunto? È lo stesso frisson che porta i loro genitori a consumare ogni tipo di giallo e noir tramite serie tv, prima serata e persino podcast? È, secondo una vecchia formula di Walter Siti la borghesia che si è imborgatata?
Quindici anni fa erano i tempi di Fabri Fibra, che per primo fece imparare a memoria parolacce e invettive ai bambini delle elementari ai tempi degli Applausi per Fibra e dei Vaffanculo scemo. Facile tra quei bambini trovarci i trapper di oggi: «Son cresciuti ascoltando la mia roba (…) Chissà perchè nelle interviste non lo dicono».
Fabri torna dopo cinque anni e una pandemia con un album, Caos, subito primo in classifica. Il suo personaggio costruito seguendo le orme del rapper bianco schizoide Eminem. “Cresciuto nei Novanta con la tele della mala, con i Cure, i Nirvana e il culo di Miriana”, riassume con rara efficacia la biografia intellettuale di una generazione, in Brutto figlio di puttana.
Il nuovo video di Propaganda – con Colapesce e Di Martino - è una distopia fantozziana/Cinque stelle ambientata in una Milano con la nebbiolina bulgara. “Ho 40 anni e ancora fumo l'erba (...) / quanti problemi frate dentro la mia testa”, rappa in Fumo erba anche se gli anni sarebbero 45 e al Corriere in un'intervista ha dichiarato di aver smesso per superare l'ossessione. Ma questo poi è diventato il titolo del pezzo. “Sti giornalisti per la scena rap sono una piaga / si eccitano per la rima colta e ricercata”, attaccava sempre in Brutto figlio di puttana. Con grande ottimismo.
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