- Il gruppo Bloomsbury, che ha riunito artisti e intellettuali come Virginia Woolf e John Maynard Keynes, è stato un’espressione di valori dissacranti per la società vittoriana
- Al fenomeno Bloomsbury è dedicata adesso a Roma (Palazzo Altemps, dal 26 ottobre 2022 al 12 febbraio 2023) la mostra Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life, curata da Nadia Fusini, in collaborazione con Luca Scarlini
- Le discussioni del Bloomsbury Group ci ricordano ancor oggi che nella difesa delle libertà individuali e dei diritti civili le ragioni dell’individualismo non sono mai separabili dalle ragioni della democrazia
Nel 1904, rimasti orfani, i fratelli Stephen lasciarono la vecchia casa signorile di Kensington per scegliere di vivere nel quartiere di Bloomsbury, decisamente più popolare e considerato anche malfamato. Il cambiamento di residenza esprimeva il desiderio di immergersi nella vita concreta della quotidianità londinese.
La nuova casa divenne poco a poco un luogo di incontro fra brillanti intelligenze, come dimostrava la presenza costante del critico Roger Fry, dello scrittore Leonard Woolf, che diverrà poi il marito di Virginia, del critico d’arte Clive Bell, che sposerà Vanessa, dell’economista John Maynard Keynes. L’aspetto elitario e libertario insieme che caratterizzava questo sodalizio, divenuto poi il gruppo di Bloomsbury, esprimeva valori dissonanti rispetto alle consuetudini ormai sclerotizzate della società vittoriana. Le famiglie di provenienza degli amici di Bloomsbury erano di tradizione quacchera, non conformista e agnostica. Coltivavano dunque il dissenso piuttosto l’acquiescenza.
La mostra
Al fenomeno Bloomsbury è dedicata adesso a Roma (Palazzo Altemps, dal 26 ottobre 2022 al 12 febbraio 2023) la mostra Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life, curata da Nadia Fusini, in collaborazione con Luca Scarlini. La mostra e la pubblicazione che l’accompagna (Electa) consentono di collocare la figura di Virginia Woolf in quell’ambiente di fecondi incontri e ibridazioni culturali. La mostra include un corposo nucleo di dipinti, acquerelli, foto di artisti – oltre trenta – che ebbero parte attiva all’attività del Gruppo: tra questi Dora Carrington, George Charles Beresford, Vanessa Bell, Roger Fry, Paul Nash, Cecil Beaton.
Nel titolo scelto, Inventing life, appare evidente l’intento di lasciare emergere la dimensione di apertura al futuro del gruppo di Bloomsbury, che non voleva rappresentare un pensatoio per contemplativi, ma un vero e proprio laboratorio di esperienze di vita in comune, considerate talora riprovevoli per la società del tempo. Harry James, grande amico del padre di Virginia, disapprovava ad esempio che le sue figlie frequentassero uomini che a suo avviso non erano per nulla raccomandabili.
In questo ambiente di laboratorio e di bottega non mancò l’impresa editoriale: se si producevano idee che potevano generare dissenso, era doveroso che venissero diffuse. Virginia e il marito Leonard fondarono nel 1917 la Hogarth Press, rimasta attiva fino al 1946, che riuscì a pubblicare, fra l’altro, le opere di Freud e la prima edizione de La terra desolata di T. S. Eliot.
Bellezza morale
L’idea di bellezza che si coltivava a Bloomsbury rivelava una grande sensibilità morale. Fry sosteneva, con argomenti che ritroveremo poi nel programma del Bauhaus, che a tutti deve esser data la possibilità di fare esperienza della bellezza, anche nel rapporto con gli oggetti di uso quotidiano. L’artigianato e il design potevano realizzare tutto questo, creando oggetti di pregio che fossero alla portata di ognuno. Fry, che fra 1910 e il 1912, aveva organizzato, nonostante le diffuse polemiche, due mostre in cui erano presenti Manet, i postimpressionisti, Matisse e Picasso, decise di fondare nel 1913 un laboratorio d’arte applicata.
Nacque così l’Omega Workshop, il cui programma prevedeva la riproduzione su ampia scala di oggetti progettati da artisti al fine di “democratizzare” la bellezza. Fra quanti collaborarono al progetto vi fu la pittrice Dora Carrington, la cui vicenda personale si inscrive pienamente nell’ambito di Bloomsbury. Sposò infatti lo scrittore Lytton Strachey, omosessuale e figura di spicco del gruppo.
Coltivare i talenti
Una sala della mostra a Roma porta il titolo Society is the happiness of life, che indica pienamente l’anima di Bloomsbury, una comunità che superando le barriere di genere, i tabù sessuali, le differenze di ceto, vide nell’amicizia la condizione fondamentale per dar corpo a un modello sociale in cui la felicità potesse identificarsi con la possibilità di ciascuno di coltivare liberamente il proprio talento. Nelle discussioni che frequentemente vertevano sull’estetica e sull’etica prevaleva un orientamento lontano tanto dall’idealismo quanto dall’utilitarismo. Sul piano morale il filosofo di riferimento era George Edward Moore.
Nei Principia ethica, del 1903, Moore sostiene che non è possibile giungere a una definizione di bene. Quando parliamo del bene, ci troviamo a suo avviso dinnanzi a un oggetto semplice come può esserlo un colore. E allo stesso modo del colore, il bene è intuibile più che definibile. Le nostre valutazioni morali non rientrerebbero così nelle definizioni, le quali riguardano concetti che risultano composti di qualità diverse. Il bene, che non siamo in grado di definire su un piano teoretico, rinvierebbe così a quelle azioni che sentiamo come buone perché abbiamo avuto conoscenza in qualche modo di comportamenti già definiti in modo tale.
La posizione di Moore si distingue dunque da una concezione idealistica, secondo cui il bene si pone in una dimensione metafisica, come anche dall’utilitarismo, che riconduce il bene all’interesse dei singoli individui. Il giudizio su ciò che è buono si identifica allora con un sentire universalmente condiviso, che riguarda la concretezza di un comportamento. Queste riflessioni dimostrano come la difesa dell’individuo, presente tanto nell’etica di Moore quanto fra gli amici di Bloomsbury, non era mai separabile da una condizione di socialità.
Ciò fu reso evidente anche dalle scelte di vita, dalla produzione scientifica e dalle convinzioni etico-politiche dell’economista John Maynard Keynes, che del gruppo di Bloomsbury fu tra i rappresentanti più illustri. Intrattenne, fra l’altro, una relazione con il pittore Duncan Grant, anch’egli del Gruppo, ma sposò in seguito la ballerina russa Lidija Lopuchova. Lidija, che aveva lavorato nella compagnia dei balletti russi di Sergej Diagilev, si era esibita negli Stati Uniti e in Inghilterra, per poi tornare a collaborare con Diagilev. Conobbe Keynes a Londra e si sposarono nel 1925, rimanendo insieme fino alla morte di lui nel 1946. Le tracce dello spirito del Gruppo si possono riconoscere nelle teorie economiche di Keynes, come viene messo in risalto dal contributo di Giorgio La Malfa pubblicato nel catalogo della mostra.
In Le conseguenze economiche della pace, del 1919, Keynes, critica aspramente le condizioni imposte alla Germania, sostenendo con lungimiranza che la vendetta non si sarebbe fatta attendere. Quando nel delineare il quadro della Conferenza di Parigi descrive Clemenceau e Roosevelt come figure inadeguate rispetto alla tragicità degli eventi, si avverte, scrive La Malfa, l’influenza dell’amico di Bloomsbury Lytton Strachey, che nel suo libro Eminenti vittoriani si era accostato in modo dissacrante ai due statisti.
Individualismo e democrazia
A Bloomsbury sembra rivivere il messaggio di Walt Whitman, del suo individualismo e insieme del suo ethos democratico. Whitman, come sostiene Nadia Urbinati in Individualismo democratico, estese la democrazia alla sfera del privato, pensando che tutti erano degni di uguale considerazione. Gli atti eroici e virtuosi, quanto quelli «banali, comuni, sordidi», andavano dunque rispettati. Era giusto, per lui, dare espressione alle voci silenti e proibite, «di sessi e lussurie». Il culto di Withman per la libertà del singolo si inserisce così in pieno entro i confini della democrazia, offrendoci la testimonianza concreta di quella forma di cittadinanza piena che, citando il titolo del libro di Nadia Urbinati, potremmo definire, per l’appunto, «l’individualismo democratico». Questi temi, affrontati con passione e con sofferenza da Whitman, come dagli amici di Bloomsbury, anticipano questioni presenti oggi in forma diversa nel discorso pubblico quando vengono posti in primo piano i diritti civili e le disuguaglianze.
In un celebre saggio del 1925, Am I a liberal?, Keynes, prendendo le distanze dai conservatori e dai laburisti, e riconoscendosi pur con molte riserve nel Partito liberale, sosteneva che l’individualismo e il laissez-faire, che un tempo avevano avuto la loro efficacia, non erano più applicabili. Si chiedeva poi quale potesse essere il programma di un partito che non si riconoscesse nella lotta di classe o nelle istanze reazionarie. Tra i problemi economici e politici avrebbero dovuto trovare ampio spazio, per lui, i temi sessuali, per lungo tempo ai margini dei programmi politici solo perché non erano un tempo oggetto di dibattito pubblico. Non era più così, commentava Keynes, e con parole di estrema attualità scriveva che si trattava di questioni di estrema importanza, «destinate a provocare reali e sincere divergenze d’opinione».
Le discussioni del Bloomsbury Group ci ricordano ancor oggi che nella difesa delle libertà individuali e dei diritti civili le ragioni dell’individualismo non sono mai separabili dalle ragioni della democrazia. Una lezione da tener presente: oggi, in un momento in cui sembra che non ci sia bisogno di rivendicare la libertà di espressione, è auspicabile che gli artisti non divengano i megafoni di quel politicamente corretto che tende a identificarsi con un’ideologia tutt’altro che pluralista.
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