Fino a qualche anno fa il sintagma inglese “soccer mom” faceva riferimento al fenomeno delle madri di grandi calciatori che avevano in certi casi immolato la propria vita in nome della carriera dei loro figli, accompagnandoli agli allenamenti oppure cambiando la traiettoria delle loro scelte professionali in nome di un supporto e dei sacrifici necessari affinché evolvessero, fino a diventare star del calcio internazionale. Un’ecatombe di ipotetiche professioniste sacrificatesi in nome del titolo di “madre” alle quali, come contropartita, era stato almeno dato un titolo che suona accattivante. Eppure da qualche tempo a questa parte questo sintagma ha assunto una nuova accezione. Da quando cioè esistono calciatrici professioniste che nel corso della loro carriera ancora all’attivo sono diventate madri. Anche loro sono “soccer mom”, e forse il fatto che non esista un vero e proprio corrispettivo in italiano, ci dice già qualcosa sul fenomeno delle calciatrici madri nella cultura italiana.

Il caso Gunnarsdóttir

Al di là delle sensazioni, abbiamo anche i dati alla mano: nella Nazionale che esordisce oggi contro l’Argentina ai Mondiali in Australia e Nuova Zelanda non ce sono. Un dato che si alza in maniera sensibilissima se si osserva il campionato, una serie A nella quale ad avere un figlio è la centrocampista Sara Gunnarsdóttir, della Juventus Women.

È stata proprio la calciatrice islandese a creare un caso mediatico nei primi mesi del 2023, con articolo uscito su The Players’ Tribune in cui raccontava il trattamento subito dal suo vecchio club di appartenenza, l’Olympique Lyon, quando aveva scoperto di essere rimasta incinta a metà stagione del 2021.

Dopo aver pattuito che la soluzione migliore per entrambe le parti sarebbe stata il ritorno in Islanda per portare a termine la gravidanza, per poi ricongiungersi con la squadra dopo la maternità, in sua assenza il club ha semplicemente smesso di erogarle gli stipendi e ha interrotto ogni tipo di contatto con lei. Grazie al supporto di FIFPro, il sindacato dei calciatori professionisti, Gunnarsdóttir ha fatto ricorso alla Fifa.

È dal 2021 che la Fifa prevede un minimo di quattordici settimane di congedo di maternità garantito, almeno otto delle quali dopo il parto, e un indennizzo pari ad almeno due terzi dei compensi previsti in precedenza. Alla fine la calciatrice islandese ha vinto la causa contro il club francese ed è riuscita a farsi rimborsare gli stipendi che le spettavano, al costo del suo posto in squadra e di una serie di delusioni che hanno amareggiato i mesi della gestazione e i primi della maternità.

Figli e carriera

La battaglia legale di Gunnarsdóttir ha sicuramente aperto un canale per tutte le donne che verranno dopo, non solo per aver rotto il silenzio sulle discriminazioni che avvengono sul posto di lavoro anche quando quel lavoro è la calciatrice, ma anche perché ha creato maggiore consapevolezza sui diritti di una donna che vuole essere calciatrice e madre nel 2023.

Di certo l’entrata in vigore del professionismo delle calciatrici italiane dal luglio del 2022 va a rafforzare il regolamento Fifa del 2021, al quale Gunnarsdóttir si è appellata per vincere la sua battaglia.

Una calciatrice che oggi volesse avere un figlio in Italia ha certamente più tutele di tre anni fa, ma il lasso di tempo trascorso da allora è troppo breve per fare delle considerazioni realistiche. Stiamo parlando di appena una stagione calcistica e sarebbe frettoloso trarre conclusioni, eppure resta forte la sensazione che al di là delle tutele, a causare resistenza sia soprattutto un pensiero ormai interiorizzato nelle donne lavoratrici di tutte le categorie, cioè che avere un figlio metta a serio repentaglio la possibilità di riprendere la propria carriera da dove era stata interrotta.

La numero 1 dell’Argentina, Vanina Correa, è madre di due gemelli, Luna e Romeo, già dal 2014. Ma è costretta a fare un secondo lavoro, la cassiera.

Maternità paradigmatica

Non deve essere una considerazione che impensierisce solo le nostre calciatrici, se si considera che le madri presenti fra le fila delle trentadue squadre che prendono parte a questo Mondiale restano in minoranza.

La nazionale americana è ammantata da un hype costante, e così alcune fra le sue giocatrici. Le immagini dei gol con cui Megan Rapinoe e Alex Morgan hanno contribuito a far vincere la precedente edizione del Mondiale nel 2019, con tutto il turbinio mediatico legato alla battaglia per l’equal pay, le hanno rese i simboli di una nazionale che esprime il calcio femminile al massimo delle possibilità, non solo su un piano tecnico ma anche sociale e politico.

In questo senso, sembra quasi una logica conseguenza che la maternità di Morgan, immediatamente successiva a quel Mondiale di Parigi, si sia rapidamente trasformata in una specie di maternità paradigmatica, una sua declinazione possibile che prima di Morgan non si era mai vista.

Non è difficile trovare online le immagini della calciatrice che durante un raduno con la Nazionale corre su e giù per il campo con una pancia pronunciata, come a voler significare che lo stato di attesa di un bambino, contrariamente a quanto ancora troppo spesso si ritiene, non può impedire a un’atleta di essere sé stessa: una donna, cioè, che usa il corpo in salute come strumento di lavoro.

Da quel momento la figlia Charlie è stata presente a ogni manifestazione importante a cui ha preso parte Morgan, così come è presente anche a questo Mondiale australiano. Alex Morgan non è sola. Anche Katrina Gorry e Tameka Yallop, entrambe centrocampiste della nazionale australiana, sono al Mondiale con i figli al seguito.

Usa e Australia

Non è un caso che facciano parte di due formazioni che da tempo considerano il calcio una professione, normata da contratti che in tema di maternità sono avanguardia assoluta. L’attuale contrattazione collettiva della nazionale australiana, così come quella americana, prevede che le atlete sotto contratto abbiano diritto a dodici mesi di congedo parentale pagato, nonché il diritto di ritornare alla squadra nazionale dopo i dovuti controlli medici.

A questo si aggiungono ulteriori supporti economici per i viaggi e l’alloggio, garantiti fino ai due anni del bambino. Per molto tempo nel mondo calcistico italiano la scelta della maternità ha coinciso con il ritiro forzato delle giocatici. Mancavano le tutele, mancava lo status di professioniste e mancavano anche i modelli. Adesso non resta che scoprire cosa accadrà nella prassi. Non si tratta di voyeurismo, ma piuttosto di capire quanto resistente sia la rete delle tutele che queste giocatrici cercano da anni non solo in quanto donne ma, soprattutto, in quanto professioniste.

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