- Il caso Donat-Cattin-Cossiga innesca sentimenti contraddittori. Da una parte, alimenta il clima di sospetto e mina ulteriormente la credibilità delle istituzioni.
- Dall’altra, svela quanto sia diffuso il contagio eversivo. In più il nemico sembra acquisire un volto, che è quello di un ragazzo come tanti, familiare nonostante il nome famoso.
- Perché prima di tutto Carlo e Marco Donat-Cattin sono un padre e un figlio. Divisi dalla storia, che in quegli anni ha corso più veloce del solito, non si sono mai capiti, come migliaia di padri e figli di quell’età.
È il maggio 1980 quando scoppia lo scandalo che travolge la vita politica e privata dell’allora vicesegretario della Dc Carlo Donat-Cattin, figura di spicco della Repubblica fin dal suo sorgere.
Il figlio Marco – così rivela il brigatista pentito Patrizio Peci – milita ai vertici di Prima linea, la maggiore organizzazione terroristica dopo le Brigate rosse. Sono immediatamente arrestati Silvano Russomanno, numero due del Sisde, e il giornalista del Messaggero Fabio Isman, accusati di aver illegalmente diffuso il verbale di Peci.
Poi, nel giro di pochi giorni, proprio mentre Marco è accusato dell’omicidio del magistrato Emilio Alessandrini, il caso deflagra in uno dei peggiori scandali della storia repubblicana.
Un altro pentito, nonché altro amico di Marco, Roberto Sandalo, racconta che a informare il senatore Donat-Cattin della situazione del figlio è stato il presidente del Consiglio Francesco Cossiga. Ci sono gli estremi per chiamare in causa la Commissione per i procedimenti di accusa e poi il parlamento riunito, che per la prima volta sottopongono a giudizio (e poi assolvono) un capo del governo.
Clima da Guerra fredda
In un paese fiaccato da dieci anni di terrorismo, il caso Donat-Cattin-Cossiga è il combustibile ideale per alimentare il calderone della politica. In virtù del Preambolo firmato dallo stesso Donat-Cattin, la Dc ha da poco archiviato il compromesso storico con il Pci, rilanciando l’alleanza con il Psi.
Sullo sfondo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e del boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca, il clima è quasi da Guerra fredda. «Cercavano i terroristi fra i nipoti di Carlo Marx, ne trovano uno tra i figli di Donat-Cattin», commenta caustico il comunista Giancarlo Pajetta.
Solo ora sappiamo che il 1980 può essere considerato, proprio grazie ai pentiti, l’inizio della fine del terrorismo. Tuttavia in quei mesi, mentre la cosiddetta marcia dei 40.000 chiude il ciclo della conflittualità operaia aperto dall’autunno caldo, si susseguono gravissimi attentati di matrice diversa, dall’omicidio di Walter Tobagi a quello neofascista del giudice Mario Amato, dalla misteriosa strage di Ustica agli 85 morti della bomba alla stazione di Bologna.
In questo clima il caso Donat-Cattin-Cossiga innesca sentimenti contraddittori. Da una parte, alimenta il clima di sospetto e mina ulteriormente la credibilità delle istituzioni, a conferma di un sistema di potere corrotto e intriso di familismo.
Dall’altra, svela quanto sia diffuso il contagio eversivo, che fa degli anni di piombo italiani un caso unico in Europa; in più il nemico sembra acquisire un volto, che è quello di un ragazzo come tanti, familiare nonostante il nome famoso.
Divisi dalla storia
Perché prima di tutto Carlo e Marco Donat-Cattin sono un padre e un figlio. Divisi dalla storia, che in quegli anni ha corso più veloce del solito, non si sono mai capiti, come migliaia di padri e figli di quell’età.
Carlo, classe 1919, incarna il passaggio dal buio del fascismo alle speranze della democrazia; sindacalista ed esponente di spicco della sinistra sociale cattolica, è ministro del Lavoro durante l’autunno caldo.
Marco, nato nel 1953, ha rotto da tempo i rapporti con la famiglia, salvo contatti saltuari con la madre e la sorella. Cresce nel periodo in cui il boom trasforma rapidamente il volto e l’anima del paese, incontra la politica nel ’68 e milita nell’estremismo torinese, quando sulla cosiddetta «età dell’oro» si addensano le prime nubi.
Nonostante il persistere di fantasiose dietrologie, il caso Donat-Cattin richiama l’attenzione su un aspetto meno scontato, quello del terrorismo come una delle forme che assume in Italia il conflitto generazionale, una sorta di tragico trofeo che i figli gettano ai piedi dei padri.
La famiglia minata
Per Moro si era parlato di “parricidio”. Lo scandalo Donat-Cattin suona come una chiamata di correo non solo per la classe politica ma anche per l’istituto della famiglia, fulcro del paese.
I giornali insistono sull’«odio di tipo psicanalitico» che Marco nutrirebbe nei confronti di quel padre tanto ingombrante quanto assente, emblema di una politica sempre più lontana dal cuore pulsante delle cose.
Ma il problema si mostra subito più diffuso, riguarda famiglie di giornalisti, politici, professionisti, non esclusi i comunisti. E appare una resa dei conti tutta al maschile, tra padri e figli, che sancisce il crollo finale della società patriarcale, in un mondo in cui il potere è però ancora tutto degli uomini.
Un dramma che scorre parallelo a quello delle famiglie delle vittime. In comune spesso c’è solo la tragedia di un figlio con un destino diverso da quello sognato, volti diversi della stessa Italia, di una modernizzazione a marce forzate che sovraccarica i figli di speranze, li fa crescere amati, ricoperti di attenzioni, viziati, e che finisce col sovrapporre il riscatto sociale del boom, la contestazione e l’estremismo.
Nella scelta armata i figli drammatizzano la rottura insanabile che si è consumata a tutti i livelli a partire dal ’68, ma tradiscono anche il legame con la Repubblica che i loro padri hanno costruito combattendo nelle file della Resistenza.
Come Carlo Donat-Cattin, come il padre di Roberto Sandalo, come molti altri. Attraverso la voce di giornalisti, scrittori, psicologi, sociologi, politici e uomini di chiesa, i padri cominciano a chiedersi quali siano stati i loro errori. Lo fanno senza grandi risultati, ma è uno di quei casi in cui conta assai più la domanda che la risposta.
I “nuovi partigiani”
Vivo è in molti il rimorso di avere mitizzato l’esperienza resistenziale indulgendo su un’etica combattentista. L’irruzione della morte in tempo di pace, i corpi riversi, le pozze di sangue sull’asfalto, il contrasto stridente tra la modernizzazione e l’orrore antico della morte appaiono loro qualcosa di innaturale, che sposta la partita sul terreno ultimo dei destini dell’umanità.
La differenza tra vecchi e giovani sta tutta nel passato tragico della Seconda guerra mondiale, dei totalitarismi e della Resistenza, che ha giustificato il ricorso alle armi dei padri.
Mentre i più giovani, investendosi indebitamente del ruolo di “nuovi partigiani”, hanno svuotato di significato anche le parole più banali, uomo, padre, figlio.
L’arresto di Marco, nel dicembre 1980, la sua decisione di collaborare non significano una immediata ricucitura tra padre e figlio.
Ruvido, polemico, «il guerrigliero» della Dc – a Carlo i giornali non risparmiano epiteti che ammiccano alla militanza del figlio – si fa da parte, nel 1983 perde anche il seggio in Senato, anche se pochi anni dopo torna a ricoprire ruoli di rilievo. Evita di parlare del figlio, che pure è il bersaglio di polemiche sui presunti favoritismi di cui godrebbe come detenuto.
Il ruolo delle madri
Accanto alla chiesa e al mondo cattolico, a favorire il processo di riconciliazione sono le famiglie, soprattutto le madri, capaci di amore e speranza incondizionati. Anche per Marco è così. Con il padre invece le cose sono più complicate.
Per anni accompagna la moglie ai colloqui, ma non varca mai la porta del carcere. Agli inizi dell’87 Marco, che ha goduto degli sconti previsti per i pentiti, è impegnato nel progetto Exodus di don Mazzi per il recupero dei tossicodipendenti.
In una domenica di febbraio, invece di rientrare in carcere come dovrebbe, si reca nella sede milanese dell’associazione per cui lavora. Lì c’è suo padre, ministro della Sanità nel secondo governo Craxi, che ha accettato un incontro-scontro sul tema dell’Aids.
«Ma ce l’hai il permesso per venire qui?», gela il figlio con una durezza che è la misura di un dolore che non passa, di una ferita che non si rimargina.
Marco muore nel giugno 1988, appena finita di scontare la sua pena.
È travolto da un’auto mentre presta soccorso a una donna coinvolta in un incidente sulla Serenissima Milano-Venezia. «La morte ha riportato Marco a casa», sussurra qualcuno il giorno del funerale. Nella sua tragica fine – che in parte lo riscatta – sembrano bruciare i folli sogni rivoluzionari della sua generazione e, con essi, il dramma di un paese.
Monica Galfré è professoressa associata di Storia contemporanea presso l’università di Firenze e autrice di “Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione”
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