È stato davvero Stan Lee, sceneggiatore e co-creatore di alcuni dei personaggi fumettistici più noti al mondo (Spider-Man, gli Avengers, Hulk), a inventare le icone contemporanee per cui è noto?
È la domanda a cui cerca di rispondere True Believer: The Rise and Fall of Stan Lee, la biografia scritta dal giornalista Abraham Riesman uscita lo scorso febbraio negli Stati Uniti. Lee varò quello che avrebbe preso il nome di “metodo Marvel”.
Così facendo, Lee era in grado di tenere in piedi molte testate contemporaneamente, dando lavoro a più autori. Tuttavia, il “metodo Marvel” rese fumosa l’attribuzione dei meriti.
È stato davvero Stan Lee, sceneggiatore e co-creatore di alcuni dei personaggi fumettistici più noti al mondo (Spider-Man, gli Avengers, Hulk), a inventare le icone contemporanee per cui è noto? È la domanda a cui cerca di rispondere True Believer: The Rise and Fall of Stan Lee, la biografia scritta dal giornalista Abraham Riesman uscita lo scorso febbraio negli Stati Uniti.
Negli ultimi vent’anni, da quando i personaggi Marvel sono entrati nell’immaginario comune, si è diffusa la vulgata che Stan Lee, che il grande pubblico conosceva per le comparsate nei film dei supereroi Marvel Comics e per essere il papà di Spider-Man, fosse il responsabile della nascita di molti dei personaggi dell’editore, come gli Avengers o gli X-Men. Oltre a Lee, che era lo sceneggiatore di quei fumetti, c’erano anche i disegnatori, i più importanti dei quali erano Jack Kirby (X-Men, Avengers, Thor, Hulk, Fantastici Quattro), scomparso nel 1994, e Steve Ditko (Dottor Strange, Spider-Man), dal carattere recluso, che rifiutò ogni intervista o apparizione pubblica fino alla morte, avvenuta nel 2018. Ma quello che racconta True Believer è che Lee avrebbe avuto poco a che fare anche con le storie raccontate negli albi in cui è accreditato.
Il “metodo Marvel”
Sceneggiatore e caporedattore di Marvel Comics tra gli anni Quaranta e Settanta, Stan Lee gestiva una miriade di testate, supervisionandole o scrivendole in prima persona. Per far fronte alle scadenze, varò quello che avrebbe preso il nome di “metodo Marvel”. L’iter produttivo canonico di un fumetto prevedeva che un autore elaborasse una sceneggiatura completa, indicando cosa succede in ogni vignetta e scrivendo i dialoghi. Il disegnatore era poi incaricato di disegnare le tavole.
Il “metodo Marvel” ribaltava in parte questi passaggi: insieme al disegnatore dell’albo, Lee elaborava per sommi capi una storia, oppure scriveva un soggetto molto breve, che a volte poteva ridursi a una semplice suggestione (per esempio: «l’Uomo Sabbia rapisce Mary Jane, la ragazza amata da Spider-Man»). Il disegnatore doveva poi sviluppare quella conversazione, o quel soggetto, in una storia di ventidue pagine, facendo scelte creative che erano quelle di uno sceneggiatore. Quest’ultimo completava il lavoro scrivendo i dialoghi, ma solo dopo aver visto le tavole del disegnatore – in questa fase poteva modificare la trama attraverso le parole dei personaggi. Così facendo, Lee era in grado di tenere in piedi molte testate contemporaneamente, dando lavoro a più autori. Tuttavia, il “metodo Marvel” rese fumosa l’attribuzione dei meriti.
In un albo di The Amazing Spider-Man, la testata con le avventure dell’Uomo ragno, Stan Lee era accreditato come “sceneggiatore” e Steve Ditko come “disegnatore”, ma quest’ultimo era l’artefice di storia e disegni. Spider-Man, i Fantastici Quattro, gli X-Men, Hulk, nacquero tutti con il metodo Marvel, all’inizio degli anni Sessanta. Non esistono – almeno, non sono mai stati trovati finora – documenti o prove che determinano l’apporto preciso di Lee nella creazione di questi personaggi. Riesman spiega che non sappiamo se Lee abbia semplicemente suggerito a Steve Ditko, disegnatore di Spider-Man, l’idea di un eroe con i poteri di ragno, o se gli avesse presentato un progetto più strutturato. E lo stesso vale per la genesi dei Fantastici Quattro, co-creati con Jack Kirby, e per tanti altri supereroi.
Il volto Stan Lee
Di una creazione soltanto, Stan Lee può prendersi pieno merito: Stan Lee. Più che un capo creativo, Lee fu il volto pubblico dell’azienda. Durante i suoi anni come editor-in-chief, la sua preoccupazione maggiore era distinguere i prodotti Marvel da quelli della concorrenza. Attraverso le trame e i disegni, certo, ma anche con gli elementi paratestuali. Dove mettere gli strilloni in copertina, che composizione usare, quali colori adoperare, perfino che nomignoli dare agli autori nei crediti dell’albo (Stan “The Man” Lee, Jack “The King” Kirby, John “Jazzy” Romita). Soprattutto, nelle pagine redazionali, Lee raccontava la vita giornaliera della redazione, un luogo dall’atmosfera circense dove prestigiatori e acrobati erano in febbricitante attesa dell’arrivo del pubblico.
Gli altri editori offrivano un albo, Stan un posto in prima fila allo spettacolo della creazione fumettistica. La trovata dette poi vita a un mini-impero fatto di fan club e merchandising griffato. Nella realtà, i disegnatori passavano nella redazione newyorchese solo per consegnare le tavole. In redazione c’erano soltanto gli editor e la contabilità, ma era bello credere altrimenti.
Dai nomignoli ai saluti, passando per la pagina della posta, il lettore trovava testi caldi, scrittura frizzante e tormentoni (“Excelsior!”, “’Nuff said”, “Face front”, “True believers”), tutti espedienti che facevano presa sui giovani. Dove gli altri incutevano un timore che obbligava all’uso del vocativo «Egregio Editore», Lee accoglieva il pubblico in un luogo dove erano liberi di inviare lettere che iniziassero con un «Ciao Stan!».
Negli anni Settanta, Lee prese a girare i college tenendo conferenze gremite di studenti in cui raccontava quanto contemporanee e adulte fossero le storie di Spider-Man e Silver Surfer. Poi, quando arrivò la chiamata di Hollywood, iniziò a comparire negli adattamenti cinematografici dei fumetti Marvel, in camei diventati l’ossessione dei fan, nonché ulteriori veicoli promozionali agli occhi del pubblico largo. Con Jack Kirby (il papà, insieme a Lee, dei Fantastici Quattro, X-Men, Hulk, Thor) defunto e Steve Ditko – il disegnatore di Spider-Man e Dottor Strange – restio alle relazioni pubbliche, Lee ebbe gioco facile a prendersi tutti i meriti delle sue co-creazioni.
La biografia
In seguito alla morte di Lee nel 2018, la casa editrice Penguin Random House ha ingaggiato il giornalista Abraham Riesman per scrivere la biografia definitiva. Il libro dipinge un affresco storico e privato lungo un secolo, dalla gioventù dei genitori, ebrei romeni emigrati in America, toccando la sua carriera in Marvel Comics, le controversie e le faide, per finire con gli ultimi, travagliati, anni di vita.
L’opera di Riesman arriva dopo anni in cui addetti ai lavori e lettori appassionati erano ben consci dei limiti autoriali di Lee e delle complicazioni a trovare i responsabili creativi di ogni idea quando vigeva il “metodo Marvel”. Ma chi si avvicina al libro conoscendo Lee solo per il sorriso sornione che sfoggiava nei film e nelle interviste potrebbe restare scioccato nell’apprendere il reale contributo alle sue co-creazioni, nello scoprire quanto sofferta sia stata la sua vita e, soprattutto, quanto il fumetto fosse un mezzo espressivo che non teneva in grande considerazione.
True Believer racconta che, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica, Lee fosse alla continua ricerca di soddisfazioni mai ottenute. Ebbe un rapporto difficile con la figlia Joan Celia, ragazza e poi donna dal carattere volitivo e avido che non si fece scrupoli a sfruttare la fama del padre nemmeno durante gli ultimi, fragili, anni di vita dell’uomo (lo costrinse ad apparizioni in festival di tutto il mondo pur di raggranellare ogni compenso possibile).
Lee provava inoltre una profonda vergogna del proprio mestiere, a causa dello stigma che nel Novecento affliggeva chiunque lavorasse nell’industria fumettistica, ritenuta un’espressione meno che artistica, un passatempo infantile. Per tutta la sua vita, desiderò e cercò impieghi più prestigiosi, nel mondo letterario, televisivo o cinematografico, scrisse perfino due sceneggiature insieme al regista francese Alain Resnais, mai concretizzatesi. Disse di aver scelto il nome d’arte di Stan Lee (all’anagrafe era Stanley Lieber) perché riservava quello vero per firmare il “Great American Novel”, il grande romanzo americano. Non si rese mai conto, se non alla fine della sua vita, che il grande romanzo americano l’aveva già scritto popolando la nostra cultura di uomini ragno, mutanti e supereroi.
Nonostante nel libro non ci siano grandi rivelazioni, sulla stampa generalista e sui social molti si sono scagliati contro Riesman, reo di voler smantellare l'operato di Lee. Persino Roy Thomas, braccio destro di Lee alla Marvel tra gli anni Sessanta e Settanta che non si è mai risparmiato in critiche, ha scritto un lungo articolo per l'Hollywood Reporter in cui cerca affannosamente di restaurare la credibilità del suo mentore. Quella di Lee è una storia che parla di una situazione comune a molte opere d'ingegno in cui il merito di un'idea si spartisce tra più persone. Quanti sanno che Walt Disney non ha diretto nessuno dei lungometraggi a cui è comunemente associato? Quanti animatori, maestri della loro arte, sono sconosciuti al grande pubblico, eppure responsabili dei momenti più felici della nostra vita da spettatori?
La parabola dei miti
Le parabole di Disney e Lee raccontano la stessa storia. I fumetti Marvel diventarono più popolari di quelli della rivale DC Comics (che pubblicava le avventure di Batman e Superman) perché Lee voleva che non fossero fumetti. Le serie di Spider-Man o dei Fantastici Quattro trattavano temi e questioni pragmatiche – i soldi per l’affitto che scarseggiano, la malattia di una persona cara, problemi di cuore, faide familiari, amicizie in pericolo – all’interno di una struttura supereroistica. Allo stesso modo, su un piano tecnico, Disney spinse affinché i film che produceva lo studio non sembrassero disegni, ma visioni provenienti da un altro mondo. Voleva negare l’essenza stessa del linguaggio. Per questo si infuriò quando gli animatori rivoluzionarono lo stile classico con film come La carica dei 101, dove le linee del disegno sono grezze e ben visibili sullo schermo. Walt Disney cambiò l’animazione cercando di non fare animazione, come Lee rinvigorì il fumetto supereroistico rifiutandone le consuetudini. Anche Disney, nella fase tarda della sua vita, si disinteressò gradualmente ai progetti d’animazione, preferendo dedicarsi alla televisione, al cinema e ai parchi a tema.
Entrambi indicarono una direzione nuova e per il pubblico e i media fu facile associare quel cambiamento al loro nome, che però nascondeva il contributo di molte altre persone. Il caso di Lee diverge da quello di Disney perché lo sceneggiatore ha oscurato, più o meno di proposito, il ruolo dei co-creatori, concedendo meno meriti di quanto spettassero loro. Insomma, senza Stan Lee quei fumetti sarebbero (forse) comunque esistiti, ma non ci sarebbe stata la Marvel che conosciamo oggi.
È facile indicare un solo nome, concentrare la stima per una persona e distillare la venerazione in una sola figura. Ridurre la complessità e poi svelarla porta comprensibilmente all’ira di chi ha scommesso tutte le sue fiches emotive sul numero sbagliato e ora si sente attaccato nelle proprie passioni, mentre i suoi ricordi si imbrattano di una colpa. È una reazione istintiva che, nonostante il popolarsi di nicchie e idoli più piccoli rispetto al passato, per portata di pubblico e distanza rispetto a esso, ribadisce la dipendenza nei confronti di miti semplici e monolitici su cui non vogliamo vedere affiorare crepe.
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