Il charter dei Giants atterrò all’aeroporto internazionale di Newark all’alba di quel martedì e si fermò al gate numero 14. Veniva da Denver, aveva volato verso il New Jersey per poco più di tre ore senza nemmeno un rumore a bordo. Non c’è niente di più silenzioso di una partita persa. Era ancora tutta dentro la testa dei giocatori, l’unica cosa che davvero contasse, oltre la doccia, oltre le fasciature, oltre gli impacchi di ghiaccio sui corpi sfatti, trentuno a venti per i Denver Broncos, ma per la verità l’avevano buttata loro nel secondo tempo.
Jim Fassel, il coach, aveva passeggiato inutilmente su e giù lungo la linea laterale dell’Invesco Field nel suo maglione blu, gridando istruzioni in un auricolare, e ci aveva rimuginato sopra per tutto il volo, uno di quei viaggi nei quali gli allenatori della NFL si abituano a vedere la notte che in cielo diventa giorno. A metà strada aveva chiamato lo staff accanto alla sua poltrona e gli aveva chiesto di organizzarsi per andare direttamente al lavoro allo Stadium, dopo l’atterraggio. Voleva subito rivedere il film della partita e analizzare che cosa fosse andato storto.
Anche Dan Trant aveva guardato la partita. In televisione. Come altri quindici milioni di americani. Seduto sul divano. Il pomeriggio prima, lunedì 10 settembre, era uscito dal suo ufficio al World Trade Center, aveva preso la metropolitana e con i suoi ragazzi di 12 e 10 anni se ne era andato allo Yankee Stadium, dove Roger Clemens avrebbe lanciato la prima palla contro la sua ex squadra, i Red Sox di Boston. Tre biglietti avuti come regalo per il 40esimo compleanno dal suo migliore amico, Lance Faniel. Settore 17, box 467. Li aveva comprati mesi e mesi prima per tutti quanti, così loro adulti avrebbero potuto bere una birra e i ragazzi mangiare un hot dog, e invece adesso guarda che sfortuna, guarda se all’improvviso non si mette a piovere.
La partita di baseball era stata prima rinviata e poi annullata. I quattro si erano rimessi in macchina e se ne erano tornati a casa di Trant, Long Island. La bella casa di un commerciante di obbligazioni presso Cantor Fitzgerald, società finanziaria al 104esimo piano della Torre 1. I ragazzi si erano infilati a letto con il muso, Faniel e Trant erano scesi nel seminterrato e anche se era tardi, anche se Trant l’indomani mattina avrebbe dovuto svegliarsi presto per andare al lavoro, dissero ma sì, guardiamo il Monday Night di football, vediamo che aria tira per i Giants.
L’aria delle sconfitte tirava, un’aria che Dan aveva imparato ad annusare negli anni trascorsi sui campi di pallacanestro. Quelli che giocano, la giornata storta la sentono arrivare come la tempesta un marinaio. Trant era stato un ragazzino magro magro, nato nel Massachusetts, due volte playmaker dell’anno per Clark University alla Division III della NCAA. Finché di lui si erano accorti i Boston Celtics, lo avevano scelto all’ultimo giro del Draft 1984 ma senza mai farlo giocare in NBA. Se ne sarebbe andato a fare il professionista in Irlanda, un’altra stagione poi nella USBL e dopo basta, si era ritirato per darsi alla finanza e al nuovo lavoro. Ma ancora raccontava a tutti con una risata che in fondo era stato scelto dai Boston Celtics solo 225 nomi dopo quello di Michael Jordan. Nello stesso anno, allo stesso Draft.
Quel lunedì 10 settembre Michael Jordan lo aveva invece passato al suo ristorante di Chicago e nel pomeriggio, incrociando un gruppo di giornalisti, gli aveva suggerito che sarebbe tornato a giocare a basket, sul serio, di nuovo, un’altra volta. No, non per i Bulls. Stavolta per i Wizards. La squadra di Washington. Aveva 38 anni e si era allenato in segreto per mesi e mesi, cinquecento tiri ogni giorno, avendo come sparring alcuni giocatori della NBA. Disse ai taccuini schiusi che amava ancora il suo gioco, almeno quanto lo amava nella notte di quel Draft. Com’era esatta l’America, com’era di nuovo in ordine l’America con Michael che ci riprovava. Solo cinque giorni prima Pete Sampras e Andre Agassi erano andati avanti oltre la mezzanotte a giocare un quarto di finale degli US Open, Pete vestito di un bianco frizzante, Andre tutto nero, le luci dello stadio accese e visibili dal Queens fino a Manhattan. Erano due tra i più anziani del torneo – trent’anni e trentuno – ma lo speaker li aveva descritti parlando con enfasi come degli dei senza una età. Tutti e quattro i set si erano conclusi al tie-break e quando Sampras aveva finalmente vinto, si erano abbracciati a metà campo, davanti a una folla di 23.033 persone in piedi ad applaudire, senza smettere, per tre minuti. Agghiacciante, aveva detto Sampras. Proprio così: agghiacciante, mentre l’America si nutriva delle nuove icone Serena e Venus Williams, le due sorelle in campo per la finale di tennis femminile più vista nella storia degli US Open. Le superstar dello sport americano erano sfacciate e indomabili come il paese stesso. Stavano cambiando la storia dell’accesso al tennis, buttando giù una barriera.
La domenica prima dell’annuncio di Jordan, il presidente George W. Bush aveva organizzato alla Casa Bianca l’evento che avrebbe segnato di fatto l’inizio della stagione NFL. Si era accostato a un leggio nel Rose Garden, dentro l’armatura di un abito scuro e con una moneta in mano. Sebbene avesse programmato di volare in Florida stesso quella notte per discutere della riforma dell’istruzione, Bush aveva rielaborato il suo programma in modo da sorteggiare quali squadre avrebbero dato il calcio d’inizio per le prossime 10 partite. Il presidente lanciò la moneta sopra la sua testa e la guardò roteare in aria. Una folla di membri del suo staff si sporse in avanti, oltre le sue spalle, per vederla atterrare sul prato in tutta sicurezza. Questo è un grande giorno per i fan della NFL, aveva detto il presidente, senza sapere che si trattava della sua ultima apparizione pubblica, l’ultima prima di guidare l’America e gli americani verso due guerre.
Così come non poteva sapere che di lì a due giorni il commissioner della Major League Baseball, Bud Selig, avrebbe dovuto sospendere tutte le partite. Prima per un giorno, poi per tre e infine fino al 16 settembre. Non poteva sapere che i New York Mets si sarebbero trasferiti a giocare a Pittsburgh per motivi di sicurezza e che le World Series sarebbero diventate le prime della storia a sforare fino al mese di novembre: la terza volta che il baseball si fermava, come per la prima guerra mondiale e per il D-Day. La Minor League sarebbe stata cancellata. La NFL avrebbe posticipato il suo prossimo turno alla fine della stagione regolare e il Super Bowl si sarebbe tenuto per la prima volta in febbraio. Il campionato di calcio avrebbe annullato le ultime due giornate della stagione e la Nazionale di calcio femminile addirittura tre partite. La Formula Nascar avrebbe rivisto il calendario e gli impegni del torneo di football americano della NCAA Division I annullati. Una decisione tutt’altro che scontata, in un mondo messo sotto accusa nel 1988 per aver permesso agli universitari di Syracuse di giocare regolarmente, solo poche ore dopo la morte di 35 studenti nell’attentato al volo Pan Am 103.
In Europa no, il calcio non si sarebbe fermato. Le partite di Champions League fissate per quel martedì sera sarebbero andate avanti come se nulla fosse, motivi logistici disse l‘Uefa. Come all’Heysel. Bastava un minuto di silenzio e delle fasce nere al braccio. Anche la federazione internazionale automobilismo sostenne che tutto sarebbe andato avanti come sempre. Il presidente della Ferrari Luca di Montezemolo disse che la sua scuderia si sarebbe avvicinata alla gara di Monza come un normale evento. L’Automobile Club d’Italia esortò tifosi e spettatori a comportarsi in linea con la gravità della situazione e nella partecipazione collettiva al dolore dei cittadini americani. Tre macchine avevano modificato le livree in segno di rispetto. La Ferrari aveva dipinto di nero i musi, la Jaguar aveva montato cerchioni scuri sulle ruote, lo sponsor giordano Deutsche Post sostituì il suo brand con la bandiera degli Stati Uniti sul vano del motore. Michael Schumacher era riluttante, disse che riteneva fosse di cattivo augurio partire dopo tutto quello che era capitato a New York il martedì mattina.
Ma tutto questo era successo dopo.
Qui siamo ancora al week-end in cui Jimmy Dunne, amico intimo del quarterback Tom Brady, aveva avvisato i colleghi della Sandler O’Neill che per tentare di qualificarsi allo U.S. Mid-Amateur Championship sarebbe andato a giocare quel lunedì 10 settembre le qualificazioni al Round Hill Club di Greenwich, nel Connecticut. Ci vediamo la mattina dopo, martedì, aveva detto con la sua reputazione di uomo d’affari rozzo ma fermo, quando si sentì rispondere dal vicino di scrivania nella stanza al 104esimo piano della torre sud, Chris Quackenbush, che in realtà c’era un altro turno di qualificazione anche al Bedford Golf and Tennis Club la mattina seguente. Avrebbe potuto provare anche lì. Gli disse di non preoccuparsi del lavoro, ci avrebbero pensato loro, cavolo, tu concentrati sul golf.
Dunne aveva attaccato a giocarlo perché un’estate da ragazzino aveva dipinto la casa di un ricco vicino e quello lo aveva ricompensato facendogli fare un giro allo Shinnecock Hills Golf Club, ai margini degli Hamptons. Aveva imparato a ripetere da allora che il golf è meritocrazia intrappolata in un sistema di caste.
Questo accadeva o era accaduto quando il charter dei Giants atterrò all’aeroporto internazionale di Newark all’alba di quel martedì e si fermò al gate numero 14. Di fianco, all’interno dell’aeroporto, 37 passeggeri aspettavano di salire sul loro volo United Airlines 93 diretto a San Francisco. Erano al bar, alcuni prendevano un caffè, altri leggevano della sconfitta della squadra sui giornali, quattro tra loro portavano in tasca coltelli e taglierini. Anche Dan Trant nella sua casa di Long Island stava facendo colazione, si era alzato mezzo assonnato dopo aver tirato tardi con Faniel davanti alla tv e ora andava al lavoro, in ufficio, sullo stesso 104esimo piano di quel Chris che aveva detto al collega ma no, tu non venire. I Giants tirarono dritti davanti al bar per la loro strada. Erano ancora le 7 e 39 e l’impiegato del gate disse ai 37 passeggeri di salire a bordo. Un’ora e mezza dopo, quando Jimmy Dunne aveva appena finito di giocare la sua quarta buca, scoprì che c’era stato l’Undici Settembre.
fonti: Eli Saslow per ESPN, Jon Wertheim per Sports Illustrated, Ben Strauss per Washington Post
[inizialmente pubblicato su Slalom l’11 settembre 2021]
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