La verità è che “curry”, per molti versi, significa tutto e niente. Contrariamente all’opinione comune, non si riferisce esclusivamente a una miscela di spezie, a uno stufato o a una salsa
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Se pensiamo al curry, che cosa ci viene in mente? Con ogni probabilità, il barattolino di spezie che tutti abbiamo nella dispensa, magari scaduto nel 2016. Oppure quell’aroma ben preciso che troppe volte è stato usato per proporre un piatto dal sapore “etnico” (qualunque cosa voglia dire), esotico.
Ebbene, il curry per come lo intendiamo non esiste.
Un termine scivoloso
La polvere di curry è più o meno la stessa in tutte le cucine casalinghe e in tutti i supermercati occidentali, tant’è vero che esiste anche un colore, il “giallo curry”. Ma visitando la pagina prodotto della marca leader del settore in Italia, si nota che il curry che tutti conosciamo è in realtà un mix di spezie di contenuto e proporzioni variabili — ad esempio curcuma, coriandolo, cumino, fieno greco, zenzero, aglio, finocchio, peperoncino, alloro, chiodi di garofano, cardamomo, come nel caso di Cannamela.
La verità è che “curry”, per molti versi, significa tutto e niente. Contrariamente all’opinione comune, non si riferisce esclusivamente a una miscela di spezie, a uno stufato o a una salsa.
Di solito, i prodotti etichettati come “curry” nei negozi asiatici in Italia e in occidente rientrano in quattro tipologie principali.
Una è la citata polvere di curry, un blend di spezie secche che (erroneamente) è diventata emblema della cucina indiana; l’altra è la pasta di curry, un impasto umido tipico del sud-est asiatico fatto con ingredienti come citronella, zenzero, galanga e peperoncini, perfetta per salse e zuppe; poi ci sono i cubetti di roux di curry, che sono praticamente dei dadi concentrati di spezie e umami molto utilizzati in piatti giapponesi come il kare raisu e il katsu kare; infine le foglie di curry che in Sri Lanka sono chiamate karapincha e sono foglie aromatiche simili all’alloro, molto utilizzate per aggiungere un sapore terroso e agrumato ai piatti.
Allora “curry” è un termine scivoloso, che sembra soffrire una crisi esistenziale: può indicare un piatto in una cultura specifica (come in Giappone) o un’ampia categoria in un’altra (come in Thailandia). Può contenere foglie di curry o meno. Può essere una salsa densa o un miscuglio secco. È, in altre parole, un termine riduzionista, che dovremmo sforzarci di usare con cognizione di causa.
La storia
Secondo la food writer londinese Sejal Sukhadwala nel suo libro The Philosophy of Curry (British Library Publishing, 2022), il termine curry derivò dai portoghesi, che a Goa nel XVI secolo usavano la parola caril per descrivere un piatto locale. Questo a sua volta prendeva il nome dal termine kari nella lingua tamil, traducibile come “salsa speziata”.
Gli inglesi trasformarono ulteriormente il plurale della parola, curree, in curry dopo aver stabilito postazioni commerciali in India nel XVII secolo. Volendo ignorare completamente le sfumature culinarie locali, i colonialisti dell’Impero raggrupparono così diverse tecniche e tradizioni sotto un unico termine. Immaginate l’India, con la sua estensione, i climi diversi, le lingue e le migliaia di dialetti, le influenze antiche (commercianti arabi, coloni ebrei, mughal, persiani) e le molte religioni, il tutto semplificato in un unico concetto: curry.
Gli inglesi non comprendevano nemmeno le spezie: alcuni scrittori britannici sostenevano che le polveri di curry commerciali fossero più affidabili delle miscele fatte in casa e che le spezie migliorassero con l’età. Una convinzione totalmente errata, come insegnava già dagli anni Ottanta un’altra rinomata esperta di cucina indiana, Julie Sahni.
Nel suo bestseller Classic Indian Vegetarian and Grain Cooking, l’autrice consigliava di tostare le spezie fino a quando non diventano fragranti e di macinarle solo al momento dell’uso fino a ottenere una polvere. Una miscela che i cuochi indiani conoscono come garam masala, e che varia di casa in casa, di generazione e in generazione, sempre con dosi approssimative.
Ad ogni modo, da quando l’India diventò dominio britannico, la polvere di curry per come è giunta ai giorni nostri si diffuse in tutto l’Impero, sparsa indiscriminatamente su stufati e casseruole per aggiungere sapore.
Man mano che il dominio delle risorse dei britannici cominciava a svanire, in patria si sviluppò un disgusto per il cibo indiano, per la sua presunta inadeguatezza agli stomaci britannici della classe media e a causa degli odori potenti che accompagnano la sua preparazione.
A partire dagli anni Venti del Novecento, grazie all’afflusso di immigrati dell’Asia del sud nel Regno Unito che iniziarono a capitalizzare su questa risorsa culturale figlia del colonialismo, il curry fece il suo ritorno. Ristoranti come il Kohinoor di Londra, che era rivolto agli studenti indiani, riscossero un grande successo a cui seguì la diffusione a macchia d’olio delle Curry Houses nel secondo dopoguerra, quando ex marinai bengalesi rilevarono locali di fish and chips finiti in disgrazia sotto le bombe tedesche.
Servivano lo stesso menù inglese ai lavoratori bianchi della classe operaia, ma aggiungendo il curry e rimanendo aperti fino a tardi per i bevitori reduci dal pub. I proprietari dei ristoranti, secondo Sukhadwala, non avevano tempo per i requisiti della cucina indiana tradizionale — lunghe cotture, spezie macinate, fasi di cottura scaglionate — quindi introdussero innovazioni simili al fast food, diventando luogo di aggregazione delle comunità locali.
Alla fine, i clienti iniziarono a ordinare il curry come condimento per le patatine, e man mano che i curry diventavano più popolari, i piatti britannici scomparirono dai menù.
Il curry in Italia
Il curry inizia a comparire nei menù dei ristoranti delle grandi città italiane negli anni Novanta, durante una fase di sperimentazione culinaria che ricercava l’esotismo a tutti i costi, persino nelle trattorie familiari: “Petto di pollo al curry”, “Pappardelle fresche al curry e pancetta”, “Pennette all’Orientale” erano alcune delle voci ricorrenti. Ora la moda è passata, ma il curry dentro al barattolino è ancora nelle nostre dispense.
«L’esistenza della polvere di curry l’ho scoperta quando sono arrivato in Italia, perché in Sri Lanka il curry non esiste. Quelle che io uso nel ristorante e a casa mia sono miscele di spezie messe insieme che creano questa polvere che però io chiamo “cinque spezie”. In più, per me il curry non è una polvere ma è tutto ciò che è cotto nel sugo, nel liquido, come se fosse un brasato, un ragù».
Parole di Milan Tanishka, cuoco giovanissimo del ristorante di cucina tipica cingalese Tanishka a Milano, situato all’interno del grande negozio di arredamento Cargo in zona Crescenzago. Che aggiunge: «Non amo la parola curry e cerco di usarla il meno possibile nel mio menù, perché il concetto è sbagliato».
Appropriazione culturale
Il curry è simbolo dell’appropriazione culturale degli europei delle tradizioni culinarie di altre culture, fenomeno che si verifica quando membri di un gruppo maggioritario adottano elementi culturali di un gruppo minoritario in modo mancante di rispetto o stereotipato.
Un esempio molto attuale è il poké, che da piatto tradizionale hawaiano è stato appropriato e reinventato da catene fast-casual in tutto il mondo, inclusa l’Italia, arrivando a diffondersi come sinonimo generico di ciotola con ingredienti di ogni tipo: dall’insalata di riso al gelato con frutta e cereali.
Curry: parola da bannare? No. Ma impegniamoci a comprendere le diversità delle cucine lontane dalla nostra e a non raggruppare tutti i cibi di quella variegata parte del mondo sotto questo termine.
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