Disney prepara il sequel del celebre film con Meryl Streep. Sperando di bissare un successo che nel 2006 fu clamoroso e globale. La moda affascina ancora, ma rispetto a quegli anni il contesto economico e culturale è molto cambiato. E misurarsi con un film che tutti ricordano non è affatto facile
Vestirà sempre Prada? Forse, perseverare è diabolico. Avrà ancora la faccia di Meryl Streep? Sicuro. Farà anche stavolta incassi miliardari? Probabile.
Alla Disney in ogni caso ci contano: sono passati quasi 20 anni del successo infernale del Diavolo veste Prada e ancora c’è gente che cita a memoria le frasi più tranchant della sublime Miranda. Quel «floreale? In primavera? Avanguardia pura» che polverizzava la proposta della redattrice, già atterrita di suo alla presenza della direttora-clone di Anna Wintour.
O quella lezione di Streep-Priestly sul colore ceruleo, che, ve la foste inspiegabilmente persa, dovete cercare su internet: come spesso accade nella moda sembra si parli di frivolezze, e invece si ragiona di talento, d’industria, di comunicazione. E di qualcosa di più profondo: di scelte sul nostro mostrarci al mondo che crediamo autonome, e invece sono state fatte, molto tempo prima, per noi – perché possiamo pensarci deliziosamente liberi.
Un mondo nuovo
Ma è possibile bissare un successo come quello, incassi per 327 milioni di dollari a fronte di un budget di 41? Meryl Streep è sempre una garanzia, e di lei si sa già che è nel cast, mentre si aspetta di sapere se torneranno Stanley Tucci e Anne Hathaway. I sequel dei blockbuster però sono sempre rischiosi, come mostra il risultato modesto di And just like that, seguito di Sex and the City: tanto l’originale era ironico e dissacrante, con quelle quattro donne che si mangiavano a morsi la vita, i maschi e la Big Apple, tanto il secondo era noioso per il voler a tutti piacere e nessuno scontentare.
Di sicuro il mondo della moda continua ad affascinare, vedi il successo della serie televisiva Emily in Paris arrivata già alla quarta stagione, però il nuovo Diavolo uscirà in un mondo molto cambiato rispetto al 2006. Sono diversi il contesto economico e quello culturale: i giornali hanno perso copie e potere, devastati dal digitale; sono nati gli influencer; i brand hanno cominciato a produrre contenuti in maniera autonoma svincolandosi dal racconto dei giornali; la moda fa ormai capo a pochi grandissimi gruppi che concentrano tutto.
È ancora possibile immaginare un direttore onnipotente “alla Miranda”? Probabilmente no, infatti le prime indiscrezioni sulla trama vogliono Priestly alle prese col declino della carta e il confronto col suo nuovo avversario: l’ex assistente Emily Charlton (Blunt nel primo Diavolo) diventata potente executive di un gruppo del lusso che molto somiglia a LVMH o Kering. È lei a decidere dove finiranno i budget della pubblicità - quei soldi di cui i giornali hanno disperato bisogno.
La crisi
«Il racconto della moda, oggi, è polifonico. Le nuove generazioni leggono a malapena i giornali indipendenti, la loro bibbia è NSS Magazine, che vive online». Letizia Schätzinger è una giornalista di moda esperta come pochi: per anni è stata fashion director in grandi magazine italiani, oggi la divulga su TikTok (@letizianews) e IG (@letischatzinger) e insegna in scuole come Ied e Naba. «Però sono affascinati dalle riviste».
«Certo. La moda resta un linguaggio potentissimo capace di imporsi a tutti, persino a quelli che credono di essersene sottratti perché non seguono le sfilate», interviene Simona Segre-Reinach, docente nell’università di Bologna, antropologa culturale esperta di globalizzazione della moda.
«Ormai è ubiqua, pervasiva. Pensiamo alle Olimpiadi di Parigi, a quei nuotatori che entravano in piscina con quegli accappatoi: una stilata di moda in tutto e per tutto. Si ha un bel dire che la moda ha perso, io credo che abbia invece guadagnato potere. E l’operazione di LVMH, sempre alle Olimpiadi? Abbiamo visto i loro bauli sfilare sulla Senna come gli atleti, incredibile. Non solo: vediamo sempre più brand farsi mecenati dell’arte. La moda è sempre più potente».
Però qualche inquietudine ce l’ha, non foss’altro perché è finita l’epoca d’oro in cui “i cinesi” compravano qualsiasi cosa avesse impresso sopra un logo. Sono diventati sofisticati (a via di parlargli di “quiet luxury” si sono convinti che gli eccessi fanno cafone), la loro economia non va più a gonfissime vele, sono incoraggiati a comprare cinese. Risultato, nessuno oggi nell’industria della moda può considerarsi al sicuro sulla poltrona.
«Anche un direttore “alla Wintour” può cadere», conferma Segre-Reinach: «In questo mondo cadono tutti in un minuto e nessuno se ne ricorda più». I motivi sono tanti, per Schätzinger: certo la crisi del mercato cinese, ma anche il fatto che una moda orientata più dai manager che dai creativi dà meno emozioni.
Non è un caso che il balletto dei direttori creativi sia diventato frenetico. Anzi, cadono come birilli. Un tema possibile per il nuovo Diavolo – ammesso che la perfidia che caratterizzava il primo sia ancora culturalmente accettabile.
«Il mondo della moda è pieno di gente terribile, è solo cambiato chi è terribile», sorride Segre-Reinach: «Una volta lo erano gli stilisti: quanti racconti di forbici tirate addosso ai malcapitati con cui avevano a che fare. Adesso i brand sono proprietà di grandi gruppi e sono sottoposti a enormi pressioni, devono soprattutto lavorare sodo».
Il lavoro è cambiato
Nel 2006 anche Miranda era terribile. Lanciava borse e cappotti sulla scrivania delle assistenti, ne suscitava il terrore, le trattava in modo sprezzante, telefonava a tutte le ore. All’insegna del famoso «Everybody wants to be us», tutti vorrebbero essere noi, l’élite divina del mondo della moda. Il pubblico della generazione Z oggi apprezzerebbe o si indignerebbe?
«Un lavoro per cui vale la pena di sacrificare tutto, come è stato per la mia generazione, non è concepibile oggi. Mi sembra che la priorità dei giovani sia il benessere mentale», riflette Schätzinger. Per l’antropologa invece, molti sono ancora disposti a tutto per “essere noi”, ma quel “noi” è cambiato: non più giornalisti ma influencer o personaggi alla Taylor Swift.
Il politicamente corretto
Il diavolo è ontologicamente perfido, ma quante delle perfidie del primo film sono ancora culturalmente tollerabili? Sarebbe ancora accettabile farsi beffe dello stile di Andy-Anne Hathaway e dei suoi (inesistenti) chili in più? E il ritratto-macchietta del braccio destro di Miranda, lo strepitoso Stanley Tucci? O, in tempi di sbandierata body positivity, la dieta feroce cui si sottopone l’assistente Emily prima delle sfilate di Parigi?
Per la giornalista, siamo in tempi di nuovo puritanesimo: bisogna fare estrema attenzione. «Non sono consentiti passi falsi, ne sono consapevole ogni volta che faccio un video. Va detto che c’è molta finzione: è vero che piacciono corpi una volta inconcepibili come quelli di Megan Thee Stallion o Cardi B, però in certi negozi una taglia 48 comunque non la trovi».
«Inclusione, decolonizzazione della moda, body positivity: Il diavolo veste Prada 2 dovrà porsi questi temi», chiosa Segre-Reinach. «In realtà le modelle restano magre e belle – quelle poche che non lo sono servono a far finta di essere inclusivi – ma il nuovo lessico deve tener conto di questa sensibilità».
Gli sceneggiatori sono i primi a saperlo e ci faranno i conti. Come direbbe Miranda: That’s all.
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