«Questo sarà un breve racconto di mia esperienza sulla vita per la strada. Tutto comincia nel 1998 di ottobre, io sto in una stanza a Campo dei fiori, contratto di lavoro scaduto, permesso di soggiorno uguale, ho un milione e mezzo di lire in tasca, e penso come riprendere tutto, ma non è facile». Questo è l'incipit, a dire il vero memorabile, ma è solo l'inizio di una lunga galleria di sorprese, di uno degli esordi più strani e straordinari degli ultimi anni, Storia di mia vita di Janek Gorczyka (Sellerio), un libro che fugge dalle gabbie della letteratura, perché è il racconto autobiografico di una vita dura e mai agevole, pieno di sofferenza ma poetico nella scoperta improvvisa delle gioie che talvolta si presentano, ma che ci rifinisce dentro perché è proprio ciò che la letteratura dovrebbe fare, cioè, usando le parole di Milan Kundera, «insegnare alla gente a cogliere il mondo come una domanda».

Il valore di questo esordio si deve anche alla biografia del suo autore: nato nel 1962 in Polonia all'ombra della dominazione sovietica, Gorczyka partecipa alle proteste del sindacato autonomo dei lavoratori Solidarnosc, lavora in una centrale nucleare negli anni di Chernobyl e viene spedito per due settimane dall'esercito russo in Afghanistan («in mezzo alle pallottole, bombardamenti e sentieri minati da entrambi avversari»).

Poi litiga con la sua famiglia e decide di lasciare per sempre il suo paese e quando sembra tutto pronto per il trasferimento in Finlandia si convince a venire in Italia, a Roma, dove vive da più di trent'anni, per la maggior parte del tempo per strada o in sistemazioni provvisorie lavorando, quando può, come fabbro.

Una vita al limite

La storia di Gorczyka è quella di chi si trova a vivere in condizioni feroci, senza una casa e senza ciò che garantisce un'esistenza tranquilla (uno dei leitmotiv del libro è la triste consapevolezza delle difficoltà: «Sembra tutto tranquillo ma la vita per strada non concede sconti», «la vita continua, ma questa vita non la auguro a nessuno»), ma Storia di mia vita, che comincia proprio in uno dei tanti momenti all'apparenza senza luce della vita dell'autore, è un racconto che non si abbandona mai all'autocommiserazione, trasmettendo invece un'idea della vita come lotta per la sopravvivenza e la pace, un percorso accidentato che passa da momenti difficili e da improvvisi squarci di felicità quotidiana (il rapporto commovente con gli animali, come quando uscito dal carcere con trenta euro in tasca «faccio una cosa compro un pollo arrosto perché voglio che cagnolino capisce che non è stato abbandonato», o l'amore per Marta con cui, scrive Gorczyka, «decido di vivere sta avventura che poi è diventata storia vera»).

Sono proprio questi momenti ad assumere un valore epifanico per chiunque legga il libro nella sua imperturbabile comodità perché è in questo senso, seguendo Kundera, che Storia di mia vita porta a uno sguardo diverso sul mondo, a interrogarsi anche sulla propria esistenza e a tracciare paralleli impietosi che sconvolgono idee all'apparenza granitiche.

Il libro segue per quasi la sua interezza un andamento cronologico classico, passando dalla ricerca di un alloggio stabile alle fatiche del lavoro, dall'amore per Marta, ragazza bellissima poi rovinata dalla vita per strada e da una malattia che è un calvario per entrambi ma che stoicamente Gorczyka riesce a sopportare («Per me è un ricordo doloroso e mi sono posto una domanda, perché lei deve soffrire tanto, ma dopo mi sono reso conto che questo era destino suo e anche mio. Non la dimentico mai, sarà sempre con me, non voglio allargare accaduto perché ancora molto doloroso»), alle trappole inevitabili dell'alcool («Del resto io bevo tutti i giorni ma mi salva il lavoro e mia resistenza»), dalla ricerca perpetua di un tetto stabile all'esperienza nel carcere di Rebibbia.

Questo procedere ordinato si interrompe però improvvisamente verso la fine del libro, quando Gorczyka torna con il pensiero alla sua vita in Polonia, alle spire avviluppanti del comunismo sovietico e alla difficile situazione personale, al suo matrimonio con una donna russa e alla nascita di un figlio che, come la madre, non ha più visto. Anche qui, in uno spazio dove collettivo e privato si mescolano, non c'è spazio per una nostalgia fine a sé stessa, ma c'è invece una riflessione sulle situazioni che sfuggono al controllo dei singoli e che decidono in maniera all'apparenza casuale una vita intera.

Linguaggio unico

Storia di mia vita non è però un libro unico solo per l'universo esistenziale che racconta, ma anche per come lo fa, una modalità che, come è proprio dei grandi libri, apre nuove strade.

Il titolo già suggerisce come la lingua sia parte essenziale di questo lavoro che Gorczyka ha scritto in un italiano che si allontana dalle formule standard, vive di ellissi (gli articoli che, come nelle lingue slave, sono pressoché assenti) e di un dettato semplice segnato dalla quasi totale mancanza di aggettivi, lontano quindi da formule stereotipate e declinazioni enfatiche.

La lingua di Storia di mia vita genera uno squarcio dentro le forme contemporanee della letteratura italiana, perché non si tratta di una forma sgrammaticata e quindi in quel senso peculiare, ma di una lingua che propriamente si può definire nuova, inventata e che si attaglia perfettamente alla natura della storia.

Il linguaggio fonde con naturalezza il ricordo della lingua madre polacca, l'italiano che per forza Gorczyka ha iniziato a imparare per strada e i persistenti influssi del lessico romano che hanno costellato i suoi decenni in Italia, ed è una testimonianza evidente di quanto la lingua possa ancora essere una materia plasmabile che aggiunge sostanza al racconto e non solo inerme vocabolario da cui pescare macchinosamente.

Una consapevolezza ancor più sorprendente per un esordio che riesce dove certe scritture non giungeranno mai, a costruire cioè un insieme armonico di forma e sostanza, a creare una lingua che viene da un futuro dove il destino, il dolore e l'amore si tingono di un colore unico e originale, quello di chi li ha vissuti e, con uguale sforzo, li trasferisce sulla pagina.

Il disincanto

«Qui lo dico chiaro, non sono un eroe, ma la vita per strada è piena di sorprese. Alla fine arriva il giorno del giudizio»: è in questa limpida e universale constatazione che si raggruma il senso più profondo di questo libro, nel suono di una lingua che diventa universale interrogazione sul senso di ogni esistenza e sulla possibilità che anche i meandri più oscuri lascino, a chi li vuole sfidare, uno spiraglio di felicità.

Storia di mia vita è il racconto sincero di un uomo buono e testardo che gli accadimenti della vita e l'indole personale non sempre hanno aiutato («Sentimenti? Ne ho pochi. Carattere ribelle? Mancanza di senso di responsabilità? Più probabile voglia di vita un po' sbandata»).

Ma Gorczyka affronta ogni avversità scegliendo la fatica e il lavoro, mettendo in conto cadute rovinose e all'apparenza definitive (la morte di Marta che segna uno spartiacque decisivo: «Mi rendo conto che sono crollato ma faccio finta di niente, vivo giorno per giorno ma senza obiettivi chiari, tante volte preferisco libri, leggo tanto, solitudine, bicchiere di vino, o la birra») con una tenacia che è l'ultima thule della resistenza umana.

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