Le retate della polizia politica portarono a migliaia di arresti e condanne al confino o al carcere durante il regime. Dopo il 25 luglio 1943 in migliaia furono finalmente liberati e contribuirono al lento ritorno alla democrazia
Qualcuno sostiene che il fascismo abbia fatto anche cose buone e che le sue colpe siano iniziate solo con l’approvazione delle leggi razziali del 1938 o con l’ingresso in guerra al fianco della Germania nazista nel 1940.
Nella versione ancora più riduttiva, si limita la sua condanna esclusivamente a quanto accaduto dopo l’8 settembre 1943, con la nascita della Repubblica sociale italiana e le corresponsabilità negli orrori dell’occupazione tedesca. Ma ciò fu solo l’esito di un processo avviato oltre vent’anni prima. E la vicenda dei dissidenti politici ci restituisce la dimensione reale di cosa sia stato il fascismo.
La libertà
L’idea che l’onta del fascismo sia da ricondurre solo alla sua fase finale, sottende all’idea che esso sia stato semplicemente un regime conservatore, trascurando che invece si affermò con la violenza e, anche negli anni di maggiore consenso, governò grazie alla repressione di ogni forma di dissenso e alla negazione di ogni libertà, dando vita ad un sistema di fatto totalitario.
Il fascismo non si limitò a gestire il consenso attraverso la carota di politiche pseudosociali, che oggi definiremmo populistiche, ma usò pesantemente il bastone della repressione per chi non si piegava.
Nei giorni seguenti al 25 luglio 1943 migliaia di detenuti politici e dissidenti al confino furono finalmente liberati. I dissidenti non uscirono tutti insieme, ma alla spicciolata e con una progressione graduale basata sulla loro presunta pericolosità secondo l’opinione del Governo Badoglio.
Due circolari del ministero dell’Interno del 27 e 29 luglio disposero il rilascio dei detenuti ritenuti non pericolosi. Prima uscirono i cattolici e i pochi liberali, poi furono liberati i socialisti e gli azionisti.
Gli ultimi ad uscire furono comunisti e poi gli anarchici, considerati evidentemente più temibili; molti anarchici rimasero peraltro al campo di internamento di Renicci d’Anghiari fino all’8 settembre, insieme a qualche comunista e agli slavi (il destino dei detenuti stranieri e degli irredentisti slavi dipese dalle sorti della guerra e dai cambi di scenario e di alleanze).
Prima degli anarchici uscirono solo i testimoni di Geova, perseguitati durante il conflitto a causa della loro ferma opposizione alla guerra e condannati per disfattismo.
Salame e lambrusco
L’eccitazione per la ritrovata libertà era altissima. A Castelfranco Emilia, dove esisteva uno dei tre principali carceri per detenuti politici, un gruppo di dissidenti ricordò nelle loro memorie l’entusiasmo di quelle ore.
«Sulla porta del reclusorio trovammo due uomini che ci chiesero di seguirli in un locale vicino dove dei compagni – scriveva Vittorio Foa – parlando a bassa voce, ci offrirono del salame e del lambrusco augurale».
Anche Garibaldo Benifei menzionò negli ultimi anni della sua vita a chi scrive l’episodio: accolto da alcuni abitanti del luogo, venne portato insieme ad altri antifascisti in paese, sbarbato, sfamato e, dopo un cambio di abito, accompagnato alla stazione per prendere il primo treno utile.
Infine, Auro Roselli scrisse nelle sue memorie che «Sulla strada verso Castelfranco Emilia ci venne incontro un gruppo di comunisti […] ci fecero festa e ci accompagnarono in un loro centro, dove avevano preparato l’accoglienza». Alla vigilia della liberazione, Foa donò all’amico Bruno Corbi, con il quale aveva condiviso il carcere, una copia de La Scienza Nuova di Vico, la cui epigrafe recitava “Per varie e diverse che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità”.
Ma purtroppo le traversie dei dissidenti, come degli italiani, non terminarono nell’estate del 1943 e nel giro di poche settimane l’Italia sarebbe entrata nel biennio più tragico della sua storia dopo l’8 settembre.
Patrioti antifascisti
La storia degli oppositori del fascismo degli anni Venti e Trenta è ancora oggi in grado di testimoniare un esempio di coerenza, sacrificio e lotta per la libertà, benché sia ormai lontana nel tempo e appannata nella memoria collettiva, non solo per la scomparsa dei suoi protagonisti.
Maggiore fortuna ha avuto la memoria della lotta di Resistenza, in grado di suscitare ancora qualche interesse, mentre delle vicende tra le due guerre ci si è dimenticati forse in fretta, anche tra chi è consapevole del loro valore.
La memoria dell’antifascismo storico è stata in qualche modo sepolta dalla memoria della lotta di liberazione. Il momento epico della Resistenza ha oscurato l’esperienza di lotta non armata precedente, e sulla memoria dell’antifascismo tra le due guerre è calata una coltre di silenzio analoga a quella, a un secolo di distanza, scesa sui moti carbonari del 1820-21 e del 1831, oscurati dalle imprese risorgimentali che dal 1848 alla breccia di Porta Pia hanno attraversato la penisola con la fase militare delle guerre di indipendenza.
L’antifascismo degli anni Venti e Trenta conserva invece le sue peculiarità e caratteristiche rispetto alla guerra di liberazione. Non tutti i detenuti politici e gli antifascisti degli anni precedenti parteciparono alla lotta armata: chi per motivi generazionali e anagrafici (troppo anziano per prendere le armi), chi perché logorato dalla lunga dittatura e dagli anni di galera, chi perché era espatriato, chi perché non si trovava in una zona occupata dai tedeschi, chi perché deceduto precedentemente (a volte proprio in carcere o per le privazioni della galere) o, più semplicemente, perché non condivise la natura stessa della lotta armata (d’altra parte, come noto, non tutti coloro che presero le armi dopo l’8 settembre avevano svolto precedentemente attività antifascista e non solo per ragioni anagrafiche).
Ma fu quella generazione a tenere viva, a suon di anni di galera e privazioni, un sentimento antifascista che poi durante la guerra si trasformò in una nuova forma di patriottismo democratico.
Le nostre prigioni
Retate della polizia politica portarono a migliaia di arresti e condanne al confino o al carcere durante il Ventennio. Con condanne pesantissime dai cinque ai vent’anni per giovanissimi che finivano in galera semplicemente per le proprie idee. Dal 1926 al 1943 furono deferiti al Tribunale speciale oltre 15mila imputati e condannati in circa 5mila per un totale di 27.735 anni di carcere e sette ergastoli.
Furono inoltre più di 12 mila coloro che vennero inviati al confino e la polizia aprì, o aggiornò, 110mila fascicoli di «sovversivi» presso il Casellario politico centrale. Tra gli antifascisti condannati dal Tribunale Speciale figuravano 124 donne. Alle dissidenti non furono risparmiati né i numerosi anni di galera inflitti dal Tribunale Speciale, né l’invio al confino (furono 145 le antifasciste colpite da questa misura).
Le donne erano sottoposte a enormi sacrifici e privazioni, sotto l’aspetto umano anche più pesanti di quelli degli uomini, poiché l’attività cospirativa prima e il carcere poi erano inconciliabili di fatto con la vita femminile e in particolare con la dimensione materna.
Il regime tentò di ridurre al silenzio ogni voce dissidente e se, oggi, in certi regimi finisci in galera o ti torturano fino ad ammazzarti per un post di Facebook o per un articolo sul web, come accaduto a Patrick Zaky e Giulio Regeni, l’ottantesimo dell’estate del 1943 ci deve ricordare che pure in Italia nel ventennio precedente si finiva dietro alle sbarre per anni per molto poco: bastava una barzelletta sul Duce, la diffusione di materiale propagandistico, la celebrazione di anniversari socialisti.
Bastava esprimere le proprie opinioni politiche. Ma fu nelle prigioni, in quell’impasto d’intimo dolore e passione politica, cedimenti e intransigenza, scoramento e speranza, che prese forma un’idea embrionale di democrazia che poi, passata attraverso le ferite della guerra e della Resistenza, si sostanziò nella Costituzione italiana, firmata, per una nemesi della storia, proprio da un dissidente che aveva subito una delle condanne più pesanti dal Tribunale speciale fascista: la firma di Umberto Terracini ci ricorda ancora oggi che prima che con la critica delle armi, la nostra democrazia nacque con le armi della critica di una generazione che, pagando con anni di galera, reclamò il proprio e l’altrui diritto alla libertà.
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