L’estetica da college inglese esercita un discreto fascino su di me, come su tutti i millennial. Mi aspettavo di amare o odiare molto il film di Fennell (che la incarna): invece l’ho trovato noioso
Il mio impero romano è Another Country, un film del 1984 ambientato negli anni Trenta in cui Rupert Everett, Colin Firth e Cary Elwes sono studenti di Eton (la scuola privata inglese più scuola privata inglese che ci sia) costretti a camuffare i propri segreti, a dir poco indicibili in un ambiente del genere: l’omosessualità da una parte, il marxismo dall’altra.
Sono tutti e tre giovanissimi e bellissimi e io penso alle loro giacche da camera, ai loro golf legati in vita, alle loro camicie Oxford un po’ sblusate almeno una volta al giorno. L’estetica del college inglese esercita una certa presa su di me, complice forse la mia ossessione d’infanzia per Harry Potter e la scuola di Hogwarts, unita a un’innata fascinazione per la ricchezza in generale, quella antica e altolocata in particolare.
Non sono sola: TikTok è pieno murato di video tutorial su come replicare la cosiddetta estetica “Old Money”. Non basta più sembrare ricchi, l’obiettivo massimo è sembrare ricchi da generazioni, confondersi tra i Kennedy, proiettare sugli altri l’illusione di avere almeno un castello di famiglia.
Gli ingredienti di Saltburn
Castello di famiglia che infatti è al centro di Saltburn, il film di Emerald Fennell (già regista di Promising Young Woman) di cui stanno parlando tutti da un paio di settimane e che ha sconvolto molti, soprattutto i membri della Gen Z che non hanno mai visto Il talento di Mr. Ripley o non avevano mai sentito parlare di Evelyn Waugh prima che Fennell mettesse questo nome in bocca ai suoi colti e attraenti personaggi, ma che hanno ben interiorizzato – con o senza Harry Potter, con o senza Rupert Everett – l’importanza di essere, o almeno apparire, molto benestanti.
Saltburn aveva tutti gli ingredienti per piacermi molto: l’università di Oxford piena di rampolli in camicia; Jacob Elordi discinto con un piercing al sopracciglio e l’accento britannico; un giovane arrampicatore sociale; miliardari che giocano a tennis in abiti da cerimonia; pornografia immobiliare; e soprattutto ha Richard E. Grant, che non ha mai mancato di mettermi di buon umore in qualsiasi cosa sia apparso, a partire dal capolavoro trash del ‘97 Spice World, dove interpretava il manager delle Spice Girls (il mio secondo impero romano è il VHS di questo film, che da bambina prestai alla mia vicina di casa, la quale poi finse di non averlo mai avuto. Lucrezia, se mi leggi, sappi che ti odio e non ti perdonerò mai).
Saltburn ha, in verità, tutti gli ingredienti per sedurre non solo me, ma i millennial tutti e i loro fragili cuori malinconici: in una carrellata di momenti idilliaci alla tenuta di campagna dei Catton – la famiglia ricca che accoglie l’arrampicatore sociale per l’estate – satura di colori sgargianti come i primi feed di Instagram, i protagonisti guardano The Ring e Suxbad e leggono Harry Potter a bordo piscina, mentre suona Time to Pretend degli MGMT e noi trentenni ci commuoviamo ripensando alla nostra adolescenza, peraltro priva di tenute di campagna e Jacob Elordi.
Un film furbetto
Personalmente speravo che Saltburn fosse il film di Dio di illusioni che ho sempre desiderato vedere e Hollywood non ci ha mai concesso – cosa non darei per avere un Timothée Chalamet studente di greco in giacca di tweed – e le mie fantasie sembravano confermate da un trailer frizzantino e in perfetto stile Dark Academia (altra estetica che regna suprema su TikTok e che ha permesso a Donna Tartt di vendere in tempi recenti altre diverse centinaia di migliaia di copie di un libro del 1992) e dalle tante chiacchiere su alcune scene a detta di tutti disturbantissime.
E purtroppo ci ricorderemo queste scene e forse poco altro di Saltburn (che è comunque meglio che non ricordarsi di niente). Sopravviveranno all’oblio alcune battute brillanti (affidate perlopiù a Rosamund Pike in forma smagliante) il sesso orale, il sesso cimiteriale, il balletto su Murder on the Dance Floor di Sophie Ellis-Bextor (di nuovo: ciao millennial!) e ovviamente la scena della vasca, da cui a quanto pare sono rimasti tutti traumatizzati.
La mia teoria è che la scena della vasca – che è sì disgustosa, ma non intollerabile – abbia agitato gli animi per una questione di contingenze: il film è uscito durante le vacanze di Natale, molti lo avranno visto a casa con i propri genitori, e poche cose provocano un’istantaneo desiderio di morte più di condividere un momento di erotismo spinto o perverso con la propria madre (io lo so bene, con la mia vidi al cinema La vita di Adele). Lo schifo è stato senz’altro amplificato dal disagio palpabile che aleggiava sopra quel divano.
Che poi Barry Keoghan – il bravissimo attore che interpreta l’arrampicatore sociale – abbia la faccia più strana e inquietante del cinema contemporaneo siamo tutti d’accordo, ma se non lo sopportiamo mentre beve un po’ d’acqua di scarico, come pensiamo di sopravvivere a lui che mangia gli spaghetti nel Sacrificio del cervo sacro? Quello sì che me lo sogno la notte.
Sono sensibile al marketing e vittima della Fomo, e quindi mi sono tuffata su Saltburn aspettandomi chissà che. Pensavo di amarlo o detestarlo fortissimo, e invece l’ho trovato un film furbetto e un po’ noioso che avevo l’impressione di aver già visto, e che mi ha costretto a immedesimarmi con il personaggio più spregevole di tutti chiedendomi: cosa sarei disposta a fare io per tutti quei metri quadri? Non escludo che un po’ d’acqua di scarico me la berrei.
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