Nella serie trasmessa da Disney+, Pistol, si ripercorrono la storia e l’impatto God save the Queen, l’inno rock per una generazione priva di futuro
- Una canzone «per la nostra generazione che non ha futuro»: così in una battuta della serie Pistol, il cantante dei Sex Pistols John Lydon definisce God save the Queen
- La canzone uscì in tempo per la settimana del Silver Jubilee di Elisabetta II: un’operazione per rompere l’unanimità scema del giubileo, architettata dal manager Malcolm McLaren
- Pistol ben descrive le tensioni fra le personalità di McLaren e di Lydon, ma ha sollevato perplessità fra i critici: forse derivate dal fatto che è un adattamento del memoir di Steve Jones, il membro meno politico e controverso della band
John Lydon, il cantante dei Sex Pistols, scrisse God save the Queen «per la nostra generazione che non ha futuro» come dice la battuta nella quinta puntata della serie Pistol di Danny Boyle ora in onda anche in Italia su Disney+.
Figlio di immigrati irlandesi, cresciuto nei quartieri poveri di Londra nord, teppista ma fino a un certo punto poi squatter coi capelli verdi, Lydon detto Rotten (“marcio”) aveva nonostante tutto una famiglia, un diploma e ascoltava musica da studenti: rock tedesco, dub giamaicano, Pink Floyd. «Dio salvi la regina e il suo regime fascista», cominciava la canzone, «ti fanno diventare un coglione, una bomba H potenziale».
Era il termine “fascista” a soprendere per primo. 1977, gli anni dell’estremismo e del terrorismo in tutta Europa, i segni della crisi, la fine del sogno del dopoguerra. «Per il sogno inglese», grida Lydon al culmine della canzone, «non c’è futuro». No future for you.
La versione di Jonesy
La musica l’aveva scritta Steve Jones, chitarrista che aveva imparato a suonare la chitarra soltanto dopo la nascita del gruppo. Pochi accordi ma non banali, con una modulazione sul ritornello e un breve assolo di chitarra nel bridge.
Jonesy, come si faceva chiamare, era un personaggio dickensiano. Figlio di una parrucchiera e di un boxeur subito scappato, abusato dal patrigno, ragazzo di strada in tutti i sensi, zero scuola, ossessionato dal sesso, ladro seriale con un debole per le moto, le macchine e una curiosa passione per gli strumenti dei suoi musicisti preferiti.
Aveva rubato amplificatori e microfoni a David Bowie, gli strumenti a Rod Steward, una pelliccia a Ron Wood e un televisore a Keith Richards. Musicalmente era figlio della pop music da teenager maschi di allora: Bowie, Roxy Music, il glam, i mod, Rod Steward. Nelle sue canzoni ci sono anche un po’ di Stooges, gli accordi aperti di Keith Richards, i Ramones. Il punk prima del punk.
Pistol la serie si basa in maniera piuttosto fedele sull’autobiografia di Jones, Lonely Boy: La storia di un Sex Pistols, uscita nel 2017 e tradotta ora in Italia da Salani. Delle diverse anime che si scontrarono nel gruppo, la sua (e quella del compare Paul Cook, il batterista) era la meno politica e meno artistica. Come per tanti prima di lui, con la musica ci svoltava finalmente la vita: ragazze, concerti, dischi, tournée. Derivano anche da questo, probabilmente, le perplessità della critica nei confronti del lavoro di Danny Boyle e dello sceneggiatore Chris Pierce (abituale collaboratore di Baz Luhrmann), soprattutto da parte della critica musicale peggio se cresciuta all’ombra del punk.
La serie Pistol
Sembra che alla storia raccontata da Steve Jones, con gli aneddoti al posto giusto e una performance contagiosa da parte del cast di giovani attori e attrici, manchino tuttavia profondità, contesto. Pierce e Boyle espandono a dismisura il ruolo delle ragazze: la fidanzata di Jones Chrissie Hynde, la groupie Nancy Spungen, la meravigliosa Jordan (una delle prime punk, da poco scomparsa). Il punk come ultima avanguardia del Novecento, come movimento diciamo così, è roba che appartiene piuttosto a Lydon, o a Malcolm McLaren, il primo manager situazionista. Mal si addice allo storytelling contemporaneo.
Per John Lydon, il piu critico, Pistol sarebbe una «fantasia borghese». Osservazione interessante. Jonesy era stato “scelto” proprio in quanto ladruncolo dickensiano da Malcom McLaren e da sua moglie Vivienne Westwood, i due artisti-stilisti che gestivano il negozio rockabilly Let it rock a Kings Road dove andava a rubare qualcosa e spesso ci riusciva. McLaren, trentenne di famiglia ebrea benestante, però abbandonato dal padre, era uscito dalla scuola d’arte imbottito di mitologia del maggio francese e anarco-situazionismo.
Militante del collettivo King Mob teorizzava uno stile criminale, l’aggressione ai tabù sociali attraverso azioni simboliche. Chiamava i suoi ragazzi «giovani assassini sexy». Dopo aver letto Wilhelm Reich cambiò il nome del negozio in Sex. Al posto di giacche e scarpe da teddy boys vendeva attrezzi sadomaso, vestiti da bondage, una collezione di magliette stampate con svastiche e crocifissi al contrario, opera di Vivienne Westwood, che diventerà di lì a breve una delle più importanti stiliste inglesi.
Oscenità e furore
Nei tre anni della loro esistenza i Sex Pistols furono l’opera più importante di McLaren/Westwood. Almeno, questo è quello di cui si convinse lui, spesso teorizzando soltanto a cose fatte. Si inventò una figura da manager-domatore, trattò con le case discografiche, gesti il gruppo finché gli fu possibile. Di certo la messainscena completa della canzone di John Lydon fu il suo capolavoro. «Dio salvi la regina/ lei non è un essere umano/ e non c'è futuro nel sogno inglese», continuavano i versi, «Dio salvi la regina perché i turisti sono denaro», eccetera.
Lydon e McLaren erano rispettivamente di famiglia irlandese e scozzese, di nessuna tradizione monarchica. A Lydon non fregava davvero nulla della regina (oggi vive negli Usa, è una specie di freak trumpiano e, ovviamente, adora Elisabetta). McLaren era felice come una pasqua di giocare al gatto col topo con i media inglesi, e trovava che rompere l’unanimità scema del giubileo sarebbe stata un’impresa grandiosa. Titolò la canzone God save the Queen, e non No future come avrebbe voluto il cantante. «Sarà il nuovo inno di un paese fondato sulla rabbia», provò a convincerlo. Così almeno immagina la sceneggiatura. «In giugno è il giubileo della regina, noi faremo notizia al posto suo», continuava ispirato e situazionista. «Ma quando il giubileo sarà finito la canzone sarà dimenticata», rispondeva Lydon, scettico.
La rivalità tra i due era scontata. Le performance di Lydon sul palco erano il motivo principale del magnetismo del gruppo, il rituale del concerto trasformato in un disperato sabba di violenza e sputi, tanto che ai Sex Pistols era proibito esibirsi ovunque in Inghilterra. I tabloid ci sguazzavano: Filth and Fury titolavano, oscenità e furore.
E qui entrava in gioco Malcolm McLaren. Fece uscire il 45 giri di God save the Queen in tempo per la settimana del Silver Jubilee, giugno 1977. Firmò un contratto con la Virgin del miliardario hippy Richard Branson. Il grafico Jamie Reid, compagno di college, disegnò la prima copertina: detournò la celebre foto della Regina scattata da Cecil Beaton.
Prima incollò una spilla da balia sulla bocca, poi coprì gli occhi e la bocca con una banda nera. Prese a modello un poster del maggio francese che riportava una frase di De Gaulle sopra un volto coperto di fasce fermate da una grande spilla: «Una gioventù troppo spesso spaventata dall’avvenire».
Pistol ricostruisce anche quello che accadde subito dopo: la festa di lancio a bordo di un battello sul Tamigi, sotto Westminster. I Sex Pistols che suonano God save the Queen per un pubblico di punk e discografici, il pilota preoccupato chiama la polizia, le botte allo sbarco, McLaren passa una notte in cella. La scena del battello è centrale nella storia del punk. Le immagini vere, notissime, girate dal regista Julian Temple si tramandano da 40 anni in due film di montaggio: The Great rock’n’roll swindle e Filth and Fury. L’eco di quella vicenda riuscì a rompere il silenzio che era sceso sul 45 giri rifiutato dalle radio, nascosto dai negozi, e lo mandò al secondo posto della classifica di vendita.
Isteria di sistema
Nonostante l’abbondante uso di materiale di repertorio anche in Pistol, risulta difficile spiegare agli spettatori di oggi perché i Sex Pistols furono così devastanti, per chi li odiava e per chi li amava. Malcom McLaren voleva creare il caos. Spenti i furori, si può discutere se il caos possa coincidere con l’ascesa in classifica di un disco considerato osceno perché grida che la Regina «non è un essere umano».
Eppure per tutti gli anni Ottanta il successo di McLaren ha avuto un significato simbolico fortissimo. Era una vittoria. La conferma che il sistema dei media è dominato dall’isteria, dal moralismo cialtrone. Un premio di consolazione, forse magra, per chi non era riuscito a fare la rivoluzione e poteva dedicarsi invece al marketing creativo sotto la bandiera del situazionismo. Oggi, in una situazione completamente cambiata McLaren sarebbe una specie di influencer, ma siccome lo choc e il detournement sono esattamente le tecniche con le quali i funzionano i social, e siccome le classifiche di Spotify le fanno gli algoritmi, gli esiti sarebbero ancora meno sconvolgenti.
Sul battello che attraversava il Tamigi quel giorno di giugno 1977 era appeso un grande striscione bianco: «La regina Elisabetta saluta i Sex Pistols, e annuncia che è uscito il suo disco». Il disco della regina.
L’epoca non mancava di ironia ma neppure di generosità. Dopo l’uscita del disco McLaren raccontò di aver parlato al telefono con Guy Debord, il suo maestro assoluto di sovversione che viveva recluso in un paesino della Loira. «Grazie per aver mandato il mio disco in classifica», gli aveva detto Debord. Bellissimo aneddoto, sicuramente falso.
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