Perché uno come il generale Vannacci sente il bisogno di diffondere i suoi pensieri nella forma di un libro? Forse perché c’è un sacco di gente che sente l'urgenza di scrivere senza amare leggere, così come ama prendere la parola senza aver cura di ascoltare
Per la prima volta in vita mia scrivo qualche riga su qualcosa di cui so poco. Non ho letto l’ormai celebre libro del generale Vannacci. Mi sento autorizzato a farlo, perché non capisco per quale motivo io non possa scrivere di lui senza saper nulla mentre lui si sente autorizzato a scrivere senza saper nulla di ciò di cui scrive.
In realtà scherzo: non parlerò affatto di lui, proprio non ne vale la pena. La sua storia è banale e non ha a che fare con la libertà di opinione, ma con la mancata fedeltà di un generale alla Costituzione della repubblica. La libertà d’opinione è una cosa troppo seria di questi tempi: curioso che quelli che insistono nel ricordarla adesso tacciano, per fare solo un esempio, quando i politici usano sistematicamente lo strumento della querela per minacciare i giornali.
Libri ed esibizionismo
Vorrei condividere delle conseguenze culturali che mi sembrano interessanti, a partire da una semplice domanda: perché uno come il generale – che non mi pare un raffinato intellettuale – sente il bisogno di diffondere i suoi pensieri nella forma di un libro?
Ecco la prima considerazione: non si dà scrittura senza lettura. Invece questo libro dimostra un tratto diffusissimo, purtroppo: c’è tanta gente che sente l’urgenza di scrivere senza amare leggere, così come ama prendere la parola senza aver cura di ascoltare.
Da questo punto di vista i social hanno accentuato un tratto tipico della società dello spettacolo: tutto va bene, a condizione che io non sia lo spettatore ma il protagonista. Leggere è fare silenzio, scrivere è prendersi la parola. Inserendo però una complicazione narcisistica che non è cosa da poco: ciascuno è convinto che sia inutile leggere i libri degli altri (o semplicemente ascoltarli), ma è altresì convinto che tutti non possano fare a meno di leggere ciò che egli ha da scrivere. Tutti i libri sono inutili, a parte il mio.
Questa tentazione è un contagio interclassista: riguarda il generale che mette su carta tesi da bar come il politico che prende la parola alle iniziative per dire quanto siano interessanti. Poi si siede, smanetta sul cellulare un paio di minuti, si alza e se ne va. L’iniziativa è interessante, ma per gli altri. La sua vita deve esserlo certamente molto di più.
Riguarda quelle persone che spuntano come funghi e che – avendo comprato online corsi di poche ore – si promuovono come mentori, coach, trainer, guru e promettono di risolvere la vita stessa senza aver letto non dico Freud, ma almeno un libro qualsiasi. Ma riguarda anche tanti professori universitari, che partecipano a un convegno solo per il breve tratto di tempo in cui devono esibirsi. Purtroppo hanno sempre un altro impegno improrogabile. Quando si tratta di ascoltare gli altri, se ne può fare a meno.
Ma forse dovrei correggere quanto ho appena scritto: il contagio non riguarda l’esigenza di scrivere, quanto quella di esibirsi. E un libro non è, allo stato attuale, una delle forme più indovinate di esibizionismo. E qui giungo alla seconda considerazione. Il libro del nostro generale ha venduto più o meno venticinquemila copie. Non dirò che i tiktoker italiani più famosi – la cui ignoranza si esprime spesso con idee non troppo dissimili dal nostro generale – viaggiano sui 20 milioni di followers. Preferisco fare un altro riferimento: il film Barbie è stato visto nel nostro paese da circa 2,5 milioni di spettatori, prevalentemente giovani.
Tanti Ken
Intendiamoci, dal mio punto di vista è un pessimo film che sfrutta e capitalizza la critica femminista al patriarcato. Però è interessante incrociare le due cose. Le idee del generale Vannacci sono esattamente quelle dei Ken che cercano, non a caso, di rovesciare il mondo per rifarlo al contrario.
Il generale Ken, lo potremmo chiamare. Un concentrato di conservatorismo che persino il capitalismo contemporaneo ha già da un pezzo superato, come Barbie conferma. Cosa dimostrano queste cifre? Probabilmente che coloro che producono la nostra opinione pubblica non sanno più interpretare la società. Il libro del nostro generale non è un fenomeno di costume, ma di nicchia. Non dimostra nulla della nostra società. E ciò non vuol dire certo che la nostra società non sia in crisi e che la maggior parte delle persone non pensino ciò che è scritto in quel libro, anzi.
Ma quel libro non è la causa e non sposta nulla. Tuttalpiù è uno dei tanti sintomi cui assistiamo. Il fatto che milioni di giovani siano andati a vedere Barbie: questo è un fenomeno di costume. Credo che il dato generazionale sia l’unica lente autentica che ci permette di mettere nella giusta prospettiva quanto le farneticazioni di Vannacci siano condivise in questo paese. Può anche darsi che siano persino maggioranza nella società presente, ma certamente non lo saranno nella società futura.
Non è detto affatto sia una buona notizia: perché la vera contraddizione della destra sta tutta in questo tentativo di tenere insieme il generale Ken e Barbie, conservatorismo antimoderno e capitalismo iperindividualista per cui ogni vissuto umano può essere mercificato. È insistendo su questa contraddizione che la sinistra può mettere in difficoltà la destra, non concentrandosi solo su uno dei due poli.
Maschi primitivi
Ma c’è un’ultima cosa che vorrei dire. Quel generale appare come Ken perché tutto il suo pensiero è dominato dal patriarcato e dal culto della violenza. E di questi maschietti sempre più primitivi, che essenzializzano sé stessi identificandosi nel macho muscoloso e potente, le nostre cronache sono ormai sature. Tra femminicidi, stupri, orinatoi a forma di bocca, baci rubati in diretta televisiva. Un altro di questo maschietto primitivo, nelle stesse ore, trova che non vi sia nulla di spregevole nel vendicarsi di un proprio nemico abbattendone l’aereo.
Proprio in questi giorni – tra Putin e il generale – mi è capitata sotto gli occhi una citazione di Broskij: «Per uno che ha molto letto Dickens, sparare su un proprio simile in nome di una qualche idea è un’impresa un tantino più problematica che per uno che Dickens non l’ha letto mai. E parlo proprio di lettura di Dickens, Sterne, Stendhal, Dostoevskij, Flaubert, Balzac, Melville, Proust, Musil e via dicendo, cioè di letteratura, non di alfabetismo o di istruzione».
Forse è questo il senso. Il problema del nostro generale non è che abbia scritto un libro, ma che non senta la necessità di leggere. E forse questo è uno dei tanti problemi dei maschietti contemporanei. Tutti dovrebbero reimparare a leggere, prima di avvertire urgenza di scrivere. Allo stato attuale, i maschi un poco di più.
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