È diventato un altro, meno fumantino, rallentato nell’esposizione dei concetti calcistici e umani perché votato a una riflessività celentanesca, dopo aver sostenuto grandi battaglie verbali, psicologiche, massmediologiche e quasi fisiche: per questo sopporta e va via
Come succedeva al liceo tra Ettore e Achille, quando si è trattato di scegliere tra Totti e Spalletti abbiamo capito tanto di noi. Poi la cosa a Roma è degenerata e ne ha fatto le spese Gianmarco Tognazzi che era Luciano Spalletti nella serie Speravo de morì prima, e anche da questo si poteva capire molto. Perché Francesco Totti, prima che “er capitano”, “er pupone”, “er bimbo de oro” e “The king of Rome” era – senza dirselo – il sentimento popolare de Roma, cioè un vanto, anzi, per dirla con Plauto e Pasolini che lo romanizzò: “er Vantone”. E rappresentava non la romanità di Alberto Sordi – di cui pure, Totti, possiede alcuni gradi – quindi vanità con bugie, vita immaginata raccontandola, no, no, Francesco Totti è stato proprio un calciatore esagerato, uno che poteva avere ancora di più e per fortuna non l’ha inseguito e non l’ha avuto (il Real Madrid).
Ma poi questo immaginario d’invincibilità, questa atmosfera virile e complice con strizzatine, gomitate, filmati di gol e non gol sul telefonino scendendo dai poster delle camerette, e poi scene da scudetto e mondiale vinti, un mondo eternamente adolescenziale, ha incontrato l’adulto Spalletti, il padre che tutti vollero fosse padrone, ora diventato patriarca, che doveva rispondere alla praticità della vita ed è sembrata cattiveria, ed è diventato odio, persecuzione, privazione, ma era solo narrazione. E serviva.
Tutta questa panchina e queste partite giocate a smozzichi e bocconi un giorno te sarà utile. Nella realtà Totti era un grande campione che rischiava di infangare “er Vantone” che era stato, e Spalletti gli ha salvato la gloria, riducendo le partite a comparsate, i gol a improvvisate dal passato – una specie di DeLorean da Ritorno al futuro – e gli ha anche regalato l’uscita di scena migliore: quella con il poteva essere, il chissà, i puntini sospensivi nella vita da calciatore; l’eterno dibattito al bar, a tavola e in curva: «Prova a immaginatte si ce stava Totti?». Ecco.
Questo pensiero è figlio di Spalletti, che non a caso, e con molta ironia, a una domanda sulla fiction rispose: «Beh, se mi avessero interpellato avrei suggerito anche io qualche scena». Perché Spalletti non ha costretto, ma ha mostrato; non ha cacciato, ma ha preteso; non ha sentimentalizzato, ma ha ragionato; davanti al rosario popolare di Totti e dei tottiani ha risposto da fratellino di Curzio Malaparte, che diceva: «I toscani hanno il cielo negli occhi e l’inferno in bocca», ecco Luciano Spalletti.
Solo che Totti non l’ha guardato negli occhi. L’inferno è da leggere come infinita possibilità d’inattese soluzioni linguistiche, come girandola di parole e silenzi. Perché la vita dell’allenatore Spalletti è tutta in crescendo: quando lascia Totti guardandolo correre è lui quello nervoso, contratto, ma poi va a Pietroburgo, e dopo l’esperienza al gelo torna diverso, ritrovando, però, Totti che giocava da fermo ed era diventato uno dei tanti imperatori impigriti da Roma, e quando gli dice che in provincia il calcio è differente e parla di senato e democrazia, succede il casino.
Ma Spalletti è un altro, meno fumantino, rallentato nell’esposizione dei concetti calcistici e umani perché votato a una riflessività celentanesca, dopo aver sostenuto grandi battaglie verbali, psicologiche, massmediologiche e quasi fisiche: per questo sopporta e va via. Pacificato, vive nel nirvana calcistico riportando lo scudetto a Napoli trentatré anni dopo Marado’, e rischia pure di diventare il nuovo Bearzot della Nazionale, almeno per pazienza, gestione dei calciatori e capacità di contrapporsi alle avversità, poi forse verranno anche i tituli.
Il linguaggio nuovo
Intanto perde pezzi in campo ma li recupera nella vita. E tra quelli persi per scommesse e il Totti ritrovato non c’è paragone: calcisticamente e umanamente. Perché lo «Spalletti dirimpettaio della follia» – definizione di Walter Sabatini – di qualche tempo fa, di una follia donchisciottesca, dopo essere stato un amministratore di follie, la sua e quella dei calciatori che allena, ha cambiato linguaggio. I suoi strali hanno preso sempre a punteggiare una speranza, le sue chiusure a lasciare uno spiraglio, è diventato più padre che padrone. Per questo ora ritrova il figliol pupone Totti.
Entrambi sono differenti. Spalletti da autostoppista kerouachiano è alla guida della Nazionale con merito e non per legami amorali, niente più Terza classe; e Totti è uscito dal Palazzo come Siddhartha, ha scoperto il dolore, capendo che gli scontri con Spalletti ne erano solo il preludio. Due uomini nuovi che hanno raggiunto la saggezza attraversando inferni differenti. Due veterani. Due feriti, e non a caso s’incontrano in un ospedale, il Bambin Gesù, per dire ai bimbi che soffrono che si può fare, si può crescere e vincere dopo aver sofferto. Ognuno col suo dolore, la sua partita, la sua cartella clinica, malattia inflitta dal destino o autoinflitta per ossessione calcistica.
Totti ora vede la sua caparbia opposizione al tempo, il suo divincolarsi dalla marcatura del destino e mette a fuoco l’effimero, imparando – finalmente – a dare un senso alle cose che dal campo escono fuori e viceversa. Cresciuto sulla terra e poi sull’erba facendo correre il pallone e i compagni, rimasto bambino, pensava che tutto avesse un seguito, in fondo la sua vita è stata tutta una partita dietro l’altra, uscire da quella catena di montaggio dello stupore non è facile per nessuno, soprattutto perché intorno, tutti o quasi, gli ripetevano che c’era ancora un tempo supplementare da giocare, in realtà la partita era finita da un po’, e solo Spalletti gli ha detto la verità, sedendosi sulla panchina del torto, mostrando di avere le spalle larghe per sopportare gli insulti, gli attacchi – veri, fiction, postumi – le volgarità e i giudizi.
È stato esemplare. Tanto che i problemi con Icardi all’Inter e Aurelio De Laurentiis al Napoli gli sono sembrati dei remake poco riusciti. Intanto, Totti è uscito dal campo, dal suo matrimonio da favola, dalla dirigenza della Roma, e ha capito che tutto finisce, per quanto lui, come Fellini, si rifiuti di scrivere la parola “fine”. Lo salva lo spirito cazzaro, Totti, musone – in apparenza – ha una bella ironia, fin da quando raccolse le barzellette che lo vedevano protagonista, dietro suggerimento di Maurizio Costanzo, ne fece un mazzo anzi un libro e tutto finì, lasciando spazio solo all’epica costruita sul campo.
E persino il suo divorzio da fotoromanzo non ha scalfito il romanzo scritto dai suoi piedi. Solo quello che veramente ami conta. Ma l’ha scoperto dopo, grazie a Luciano Spalletti che è stato per la sua storia quello che l’editor Gordon Lish fu per Raymond Carver: gli ha troncato il finale (calcistico) del racconto, lasciandogli il non detto, calciato, segnato. Un provvidenziale editing. È così che continua a durare. È per questo che lo riabbraccia, «dalla parte del cuore, via» dice Spalletti uscendo da un film di Paolo Virzì. Perché hanno capito. E Totti è cresciuto. E ha smesso di far correre il pallone, non la gloria.
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