Joe Biden ha detto che l’episodio di Capitol Hill «non riflette la vera America», i media nostrani lo hanno definito «un attacco alla democrazia americana». Entrambe le reazioni sollevano problemi filosofici sull’uso e abuso di concetti metafisici quali “verità” e “democrazia” nella descrizione della realtà politica
I diritti umani negli Stati Uniti fanno molto dubitare della correttezza di autocelebratorie espressioni quali «the land of the free» e «the leader of the free world».
Benché i sedicenti democratici europei chiudano volentieri un occhio al proposito, gli Stati Uniti continuano a mantenere la pena di morte a livello federale e in 29 stati dell’Unione, e tengono in carcere un abitante ogni 150: la più alta percentuale al mondo.
Se gli Stati Uniti hanno sistematicamente violato la democrazia e i diritti nei confronti dei propri cittadini, che fossero indiani, neri o secessionisti, figuriamoci come hanno trattato gli stranieri di altri stati.
Il presidente eletto Joe Biden ha reagito alla manifestazione pro-Trump del 6 gennaio dicendo che «le scene di caos al Campidoglio non riflettono la vera America», implicando che ci sia appunto una vera America, contrapposta a una falsa. Da parte loro, i media nostrani sono stati quasi unanimi nel definire l’episodio come «un attacco alla democrazia americana», implicando questa volta che gli Stati Uniti siano effettivamente democratici.
Entrambe le reazioni sollevano problemi filosofici interessanti, riconducibili all’uso e all’abuso di concetti metafisici quali “verità” e “democrazia” nella descrizione della realtà politica.
Anzitutto, verità e falsità sono concetti logici, che si possono applicare alle affermazioni, ma non alle persone o alle nazioni. Già gli antichi sapevano che le affermazioni sono vere o false a seconda che si accordino o meno con i fatti: in altre parole, la verità è un ponte che collega il linguaggio al mondo.
Nel caso specifico, non si capisce cosa potrebbe rendere vera l’America che Biden ha in mente, e falsa quella che ha invece in mente Trump. Forse la maggiore o minore aderenza ai princìpi della democrazia americana? Ma quali sarebbero appunto questi principi, visto che sia Trump che Biden sono stati eletti presidenti in base a regole ispirate a quegli stessi princìpi, e ciascuno di loro ritiene di esserne l’interprete più autentico, confortato in questo dall’opinione di circa metà dell’elettorato?
Concezioni contrapposte
In realtà, Trump e Biden incarnano semplicemente due concezioni contrapposte dello stato, esistenti fin dai primordi degli Stati Uniti, e risalenti al partito federalista di Alexander Hamilton e a quello anti-federalista di Thomas Jefferson. Come si può immaginare, i federalisti privilegiavano le prerogative comunitarie dell’Unione rispetto a quelle individuali dei singoli stati: in particolare, volevano una banca centrale che, oltre a battere un’unica moneta, accorpasse in un unico debito federale i debiti dei singoli stati. Erano dunque un analogo degli europeisti nostrani, che non a caso hanno fatto spesso riferimento a Hamilton per invocare la necessità di gestire collettivamente, attraverso gli eurobond, i debiti delle singole nazioni dell’Unione europea. Viceversa, gli anti-federalisti erano un analogo degli euroscettici o sovranisti nostrani, e mal sopportavano il potere centrale e le leggi federali.
Sia Hamilton che Jefferson furono ministri di George Washington, primo presidente degli Stati Uniti dal 1789: Hamilton come segretario del Tesoro, e Jefferson come segretario di Stato. Agli inizi furono i federalisti ad avere la meglio e a esprimere nel 1796 il secondo presidente John Adams, ma in una dozzina d’anni finirono per essere percepiti dagli elettori come i sostenitori delle tasse, delle spese militari e del debito pubblico.
Sparirono dalla scena nel 1800, quando Jefferson divenne il terzo presidente, dopo una campagna elettorale contro Adams che non aveva niente da invidiare alle sfide Trump-Clinton o Trump-Biden, per la rozzezza dei toni usati da entrambe le parti: ad esempio, Adams fu dipinto come «un ermafrodita privo sia di forza virile che di sensibilità femminile», e Jefferson come «un incrocio tra una meticcia indiana e un mulatto della Virginia».
Il partito anti-federalista rimase l’unico esistente, ma col tempo le divisioni ideologiche si riformarono al suo interno: alle elezioni del 1828 il partito unico si scisse nei repubblicani del presidente uscente John Quincy Adams, e nei democratici di Andrew Jackson. Vinse quest’ultimo, dopo un’altra campagna al vetriolo, e nel 2016 Trump mise il suo ritratto nello Studio ovale, perché ne apprezza le posizioni populiste e anti-establishment, e ne condivide la fortuna economica e il disprezzo razziale. Jackson trattò infatti gli indiani come Trump avrebbe voluto trattare gli immigrati messicani o islamici: in particolare, promulgò nel 1830 il notorio Atto di Rimozione che inaugurò ufficialmente il genocidio dei nativi americani negli Stati Uniti, e portò alle loro deportazioni di massa.
Indelebile peccato originale
Coloro che oggi esaltano la democrazia americana rimuovono o dimenticano il suo indelebile peccato originale, che fu lo sterminio nell’America del nord di diciotto milioni di «spietati selvaggi indiani», come li definiva la Dichiarazione di Indipendenza del 1776: oggi ne sopravvivono tre milioni, suddivisi in 574 tribù confinate in 326 riserve, e costituiscono soltanto l’uno per cento della popolazione statunitense. Se la cosa suona nazista, è perché letteralmente lo è: basta leggere Olocausto americano (1992) di David Stannard, per apprendere i dettagli di come l’eliminazione degli indiani fu sistematicamente pianificata ed eseguita nell’Ottocento, e Il modello americano di Hitler (2017) di James Whitman, per scoprire come le leggi razziali del Terzo Reich furono espressamente modellate su quelle approvate agli inizi del Novecento da una trentina di stati americani, a partire dalla prima promulgata dall’Indiana nel 1907 contro «criminali, idioti, stupratori e imbecilli», che fu dichiarata costituzionale dalla Corte Suprema nel 1927.
Hitler stesso elogiò nel Mein Kampf il rifiuto dei bianchi statunitensi di mescolarsi con le «nazioni colorate inferiori», e modellò la propria «soluzione finale del problema ebraico» su quella americana del problema indiano. In particolare, adottò le tecniche della deportazione e dei campi di concentramento usate per tutto l’Ottocento contro gli indiani negli Stati Uniti, e agli inizi del Novecento dagli inglesi contro i boeri in Sud Africa.
Se il comportamento americano verso gli indiani fu un’ispirazione per l’olocausto nazista degli ebrei, quello verso i neri lo fu per l’apartheid sudafricano della seconda metà del Novecento, basato sul concetto di “supremazia bianca”. Ovviamente la schiavitù dei neri, importati dall’Africa come lavoratori forzati, era un retaggio della colonizzazione europea, ma gli Stati Uniti l’abolirono solo nel 1865. Quanto ai diritti degli afroamericani, furono riconosciuti ufficialmente negli anni Sessanta del Novecento, ma il movimento Black Lives Matter ci ricorda che non vengono messi in pratica nemmeno oggi: in particolare, la brutalità della polizia americana nei confronti dei neri è ben nota, e causa periodiche e giustificate esplosioni di violenta protesta.
Terra della libertà?
Più in generale, i diritti umani lasciano molto a desiderare negli Stati Uniti, e fanno molto dubitare della correttezza di autocelebratorie espressioni quali «the land of the free» e «the leader of the free world». Benché i sedicenti democratici europei chiudano volentieri un occhio al proposito, gli Stati Uniti continuano infatti a mantenere la pena di morte a livello federale e in 29 stati dell’Unione, e tengono in carcere un abitante ogni 150: la più alta percentuale al mondo, una volta e mezzo maggiore della Russia, due volte e mezzo della Turchia, quattro volte della Cina e sette volte dell’Italia, la Francia e la Germania. Ma la stragrande maggioranza dei detenuti americani sono latini e neri, a conferma della natura razzista dello stato di polizia americano.
Sempre a proposito di diritti umani, la guerra civile del 1861–1865 non fu affatto combattuta per quelli dei neri, come si continua a ripetere nella mitologia hollywoodiana, anche se effettivamente l’abolizione della schiavitù fu una delle sue conseguenze. Gli stati schiavisti dell’Unione erano quindici su trentaquattro, ma solo sette dichiararono la secessione nel 1861: la questione era piuttosto economica, perché la schiavitù era considerata essenziale dagli stati agricoli del Sud, ma era inessenziale per quelli industriali del Nord.
La guerra di secessione mise in evidenza un problema che oggi è diventato attuale anche per l’Unione Europea, con la crisi greca del 2015 e la recente Brexit: il fatto, cioè, che è molto più facile entrare in un’unione di stati, che uscirne. Mentre infatti il divorzio volontario dal matrimonio è ormai considerato un diritto civile dei cittadini, la secessione volontaria da un’unione politica non rientra tra i diritti democratici degli stati, e può appunto portare alla guerra. Naturalmente, essere costretti a rimanere forzatamente in un’unione può causare risentimenti duraturi da parte di chi invece voleva andarsene: non a caso, qualche giorno fa alcuni dei manifestanti del Campidoglio sventolavano la bandiera dei perdenti Confederati sudisti.
Se gli Stati Uniti hanno sistematicamente violato la democrazia e i diritti nei confronti dei propri cittadini, che fossero indiani, neri o secessionisti, figuriamoci come hanno trattato gli stranieri di altri stati. Molti li hanno semplicemente annessi nella propria espansione territoriale, dalla California alle Hawaii. Altri li tengono sotto il giogo coloniale con il simpatico nome di «territori permanentemente abitati», da Puerto Rico a varie isole del Pacifico. Altri li hanno occupati a varie riprese in mezzo mondo, dalle Filippine al Nicaragua. Altri li hanno controllati tramite gentiluomini di fiducia come lo Scià di Persia, o i generali Pinochet e Videla in Cile e in Argentina.
Tre milioni dei più ribelli li hanno sterminati con il napalm e le bombe a grappolo in Vietnam negli anni Sessanta e Settanta. Quanto ai tedeschi e ai giapponesi, che avevano le stesse mire espansionistiche globali degli americani, a loro sono stati riservati i trattamenti più democratici di tutti, che equiparavano le folle inermi agli eserciti armati e le città a obiettivi militari: in particolare, le disumane tempeste di fuoco di Amburgo, Dresda e Tokyo, e le terroristiche bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
Ma anche dopo Roosevelt e Truman, guerre più o meno cruente e feroci le hanno fatte quasi tutti i presidenti: Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Reagan, Bush padre, Clinton, Bush figlio, e persino il premio Nobel per la pace Obama! Gli unici a non essersi sporcati le mani di sangue negli ultimi sessant’anni sono stati Carter e, paradossalmente, proprio Trump. Entrambi vengono largamente considerati come presidenti disastrosi, e dunque espressioni dell’America sbagliata, ma se l’America giusta è l’altra, è sicuramente peggio di quella invocata da quei quattro sciamannati sincretini che hanno sbagliato la data del carnevale per le loro mascherate al Campidoglio.
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