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Quando frequentavo il liceo, come tutti quelli che vanno bene in italiano, sognavo di diventare uno scrittore famoso e da povero figlio di proletari mi trasformavo in un intellettuale in completo di lino bianco seduto al tavolo di un locale alla moda. Invece.
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Decine di anni consumati sgretolando panini contundenti in compagnia di altri disgraziati come me, trasandati – loro – come chissà perché si ritiene che un autore debba trasandarsi con certi orrendi maglioni girocollo e quelle felpe da ergastolani.
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È arrivato il momento di pagare il conto, dopo tutti questi magnifici anni. Eravamo tutti più giovani, forse più intelligenti, certamente più spiritosi.
Quando frequentavo il liceo, come tutti quelli che vanno bene in italiano, sognavo di diventare uno scrittore famoso e, con la fantasia cinéphile dello studente provinciale, da povero figlio di proletari mi trasformavo in un intellettuale in completo di lino bianco seduto al tavolo di un locale alla moda romano (milanese), o sotto il pergolato durante la bella stagione, impegnato tra una pietanza molto costosa e un bicchiere di vino ancora più costoso in una raffinata e spiritosa conversazione vis-à-vis con i miei ospiti, gli eredi naturali di Achille Campanile, di Marcello Marchesi, di Ennio Flaiano, mentre poco distante dalla nostra tavola il nuovo Fellini parlottava sottobraccio con il Mastroianni del terzo millennio e al momento del caffè ci raggiungeva Laetitia Casta (proprio lei, che ancora oggi non ha niente da invidiare a nessuno).
Invece.
Decine di anni consumati sgretolando panini contundenti in compagnia di altri disgraziati come me, trasandati – loro – come chissà perché si ritiene che un autore debba trasandarsi con certi orrendi maglioni girocollo e quelle felpe da ergastolani e sulle spalle l’immancabile zainetto più adatto a una gita al Terminillo che a un caffè da Rosati, ma tutti intenti a buttare un occhio agli ascolti della sera prima per commentare con piacere feroce il risultato di chi è andato male nella spietata guerra degli ascolti e poterne spiegare il flop agli altri addetti ai lavori con l’arma di distruzione di massa dell’homo televisivus: il senno di poi.
Quel momento in cui diventa chiarissimo a tutti che il comico che meno di dodici ore prima ti faceva sganasciare dalle risate – glielo hai anche detto abbracciandolo e ringraziandolo e promettendogli altre cinque puntate – non funziona, non ha mai funzionato e non funzionerà mai, e chi l’ha scelto è un coglione e da un lato all’altro della stanza cominciano a volare occhiate oblique e mormorii di disapprovazione, in cui chiunque si sente autorizzato a spiegarti che la scenografia scelta per il programma ha la luminosità di una necropoli etrusca, il cast è un carrello dei bolliti, il meccanismo non funziona e l’unica cosa efficace è la gag con i bambini pasticcioni che dalla prossima puntata, se mai si farà, dovrà avere un ruolo centrale nello show.
Meccanismi ricorrenti
Sotto il pergolato a pranzo con C., oggi in gran forma, ci abbandoniamo dopo il caffè a un rapido giro d’orizzonte sulle novità più rilevanti e sui pettegolezzi più succulenti del nostro Sistema e dei suoi Protagonisti.
Si cazzeggia insomma, pratica che considero seriamente parte integrante del lavoro, checché ne pensino i miei detrattori.
La storia di giornata è quella dell’ex direttore da poco fatto fuori in seguito a una furibonda faida politica interna alla maggioranza.
In attesa di ricollocamento gli hanno assegnato un nuovo ufficio, senza finestre e senza collegamento internet, come da manuale del mobbing aziendale.
Nella stanza inutilizzabile sono rimaste però oltre alla scrivania anche due rigogliose ed esotiche piante ornamentali ereditate da qualche precedente dirigenza, dentro le quali alternativamente lui piscia più volte al dì per non rinunciare al privilegio dei giorni in cui, da direttore, aveva diritto al bagno privato in ufficio.
C. oggi ha molta voglia di raccontare anche estraendo diverse pepite dalla sua personale miniera di aneddoti professionali, qualche bella storia del passato, di quelle leggende televisive in bianco e nero vere o verosimili ma in ogni caso così divertenti da ascoltare.
Come la storia di quell’impresario di terza o forse quarta fascia, di aspetto rivedibile e dalle frequentazioni pericolose, il cui italiano scivolava inevitabilmente nel dialetto stretto di provenienza, ma misteriosamente ben introdotto nel palazzo, che amava iniziare le riunioni posando sul tavolo la sua enorme pistola, meticolosamente puntata in direzione del suo interlocutore.
In genere, anche grazie a questa abitudine, le sue proposte passavano senza troppi sforzi e i suoi artisti, modesti faticatori del sottobosco canterino o comico, trovavano sempre uno strapuntino catodico mentre chi di dovere faceva al massimo attenzione a collocarli in programmi notturni, estivi, comunque dalla visibilità approssimativa.
Un equilibrio ammirevole spezzato talvolta solamente da un improvviso ostacolo posto sbadatamente da qualche autore appena assunto e poco consapevole dei sistemi consolidati, o da un dirigente di fresca nomina voglioso di encomi.
Il meccanismo allora, in conseguenza di questi imprevedibili eventi umani, si inceppava per breve tempo, fino al momento in cui il manigoldo incendiava la macchina, distruggeva l’ufficio, minacciava la famiglia del malcapitato e la routine poteva ricominciare a scorrere come prima.
Riunioni di primavera
È arrivato il momento di pagare il conto, dopo tutti questi magnifici anni.
Non torneranno quelle riunioni di primavera, sotto il pergolato della trattoria. Eravamo tutti più giovani, forse più intelligenti, certamente più spiritosi.
Eravamo in pochi.
Parlavamo per ore, spesso contemporaneamente, finché non saltava fuori lo spunto giusto: un titolo, un’idea, un trattamento. Eravamo riusciti nell’impresa di infondere magia al nostro lavoro, tanti piccoli trucchi affinché da una tovaglia a quadretti potesse spuntare un piccolo progetto di bellezza.
È stato un periodo incantato che non tornerà, questo lavoro non è più competenza di artigiani più o meno sapienti, più o meno colti, più o meno illusionisti.
Ci hanno spiegato, mentre sparecchiavano la nostra tavola, che la televisione è un’industria, risponde a regole e conti economici. Mi verrebbe da dire che lo sapevamo anche noi, e infatti quei prodotti reggono ancora alla prova del tempo e saprebbero far quadrare ogni bilancio.
Ci hanno detto che noi vecchi dinosauri non serviamo più, costiamo troppo e non rendiamo in proporzione.
Così hanno chiuso la trattoria, il pergolato in breve tempo è morto e ciascuno di noi ha preso altre strade.
Ci estingueremo, ma avendo mangiato, bevuto e vissuto benissimo.
Vera finzione
Una volta venne in trasmissione un famoso sommelier, forse il più famoso del mondo. Sapeva riconoscere con degustazione alla cieca (consiste in un assaggio di vino servito con etichette e bottiglie bendate) qualunque bottiglia. In diretta riconobbe senza nessuna incertezza un Barbaresco di cui volle indicare anche l’anno di vendemmia e la cellula del terreno di pertinenza.
Dietro le quinte, guardavo con relativo smarrimento il vino che avevo versato nel suo bicchiere per l’assaggio. Era un Pinot nero, altro anno, ovviamente altro produttore.
L’applauso del pubblico in sala fu comunque molto convinto, a conferma della forza dei pregiudizi.
A tu per tu con Moana
In un appartamento intestato all’agenzia che la rappresenta, io e C. incontriamo Moana Pozzi reduce dal trionfo di Fantastica Moana, un titolo leggendario nella sua filmografia le cui locandine campeggiano alle nostre spalle e di fronte a noi. Bastano pochi minuti di conversazione e troviamo subito l’accordo con lei, la nostra proposta le piace, la intriga il contesto e la diverte il tono. Da donna intelligente e brillante qual è, offre subito degli spunti che ci sembrano particolarmente azzeccati e che sono perfetti per neutralizzare le inevitabili polemiche. Anche il suo agente è entusiasta, persino troppo, perché mentre stiamo per congedarci introduce a sorpresa nella stanza un’altra sua assistita, nome d’arte Ramba poiché si ispira al personaggio di Sylvester Stallone in versione femminile e porno, e cerca di convincerci a prendere anche lei in trasmissione.
C., che è una donna pragmatica e non amante delle sfumature diplomatiche, chiude la questione in modo secco e inequivocabile. Io che ho ventiquattro anni e un certo gusto per le cinematografie alternative, non nascondo il rammarico per questa chiusura. Anche Ramba è dispiaciuta e mi pare di cogliere una dolce e pacata tristezza mentre si toglie di dosso la cartucciera prima di venire a salutarci.
Il testo raccoglie alcuni estratti dal libro di Pietro Galeotti: La riunione, appena pubblicato per Feltrinelli.
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