Carlo Rovelli, il divulgatore italiano di maggior successo, parla del proprio lavoro e dell’immagine che i media danno della scienza e degli scienziati: «Mi sembra che ci sia un pubblico affamato. Altri paesi fanno molto meglio di noi»
- Carlo Rovelli, fisico, saggista e accademico italiano, nonché divulgatore scientifico italiano di maggior successo, ci racconta la sua visione della scienza e dell’immagine che i media ne danno.
- Sul modo in cui la scienza viene divulgata nel nostro paese commenta: «Noi abbiamo avuto alcuni ottimi esempi di divulgazione scientifica in televisione, come Piero Angela, ma pochi».
- «Altri paesi», prosegue, «fanno molto meglio di noi, e non capisco perché: a me sembra che ci sia un pubblico affamato di scienza. Ritengo d’altra parte che programmi come Voyager siano estremamente dannosi per il paese».
Da qualche anno Carlo Rovelli è il divulgatore scientifico italiano di maggior successo. Non lo sentivo da qualche tempo, ma l’imitazione che ne ha fatto recentemente Maurizio Crozza mi ha spinto a risentirlo, e a dialogare con lui non solo sul suo lavoro divulgativo, ma anche sull’immagine che i media danno della scienza e degli scienziati.
Per cominciare, come e dove ha passato il periodo di lockdown, e che insegnamento ne ha tratto?
Ho passato il lockdown in Canada. Poi l’estate in Italia. Adesso sono in Canada di nuovo. Per me non è stato difficile: non ho avuto persone vicine che abbiano sofferto la malattia, non ho avuto diretti danni economici, e amo moltissimo stare in casa. Ma l’inquietudine l’ho sentita come tutti. Nel mondo ci sono già stati un milione di morti causati dal Covid, con la percentuale più alta nei paesi come l’Italia. Ho più di sessant’anni e ho preso in considerazione la possibilità che questa potrebbe anche essere la malattia che mi fa morire.
Passando alla scienza, cosa pensa di come viene presentata o divulgata nei media?
Noi abbiamo avuto alcuni ottimi esempi di divulgazione scientifica in televisione, come Piero Angela, ma pochi. Altri paesi fanno molto meglio di noi, e non capisco perché: a me sembra che ci sia un pubblico affamato di scienza. Ritengo d’altra parte che programmi come Voyager siano estremamente dannosi per il paese, perché diffondono ignoranza. Mi addolora che esistano. La radio va molto meglio. Radio3 Scienza, per esempio, è di altissima qualità, è molto amata dal suo pubblico, e fa un grande servizio al paese.
Altrove è diverso?
Il mondo anglosassone produce ottima divulgazione scientifica. D’altra parte lo ha sempre fatto: basta pensare all’indimenticabile Carl Sagan, che ha regalato a un’intera generazione di americani la bellezza, il fascino e la profondità culturale della scienza. Io però mi limito a scrivere libri. I miei pochi e brevi passaggi in televisione non sono certo stati per divulgare, ma solo per dire: «Ehi, ci sono cose interessanti su questi argomenti. Se vi piacciono, potete leggere i miei libri».
Sicuramente le sue Sette brevi lezioni di fisica le hanno lette in molti. Si aspettava questo grande successo?
No, non se lo aspettava nessuno. Mi ha fatto molto piacere ovviamente. Ho trovato un contatto con un largo pubblico che non mi sarei mai aspettato nella mia vita.
E come se lo spiega?
Credo che le ragioni siano diverse. Il libro presenta in estrema sintesi l’immagine del mondo elaborata nell’ultimo secolo dalla fisica, ma racconta anche come, a mio vedere, questa immagine si colleghi con le questioni aperte sul senso che diamo a noi stessi e alla nostra vita. Lo fa sommessamente, umilmente, in forma personale, ma parla di questioni che toccano molti.
Sicuramente lo fa anche L’ordine del tempo, visto l’argomento. Ma non è un po’ fuorviante usare l’articolo determinativo, parlando del tempo? Perché ce ne sono molti, dal tempo psicologico a quello cosmologico: uno per ogni tipo di orologio che si usa.
Questa è proprio la tesi centrale del libro: il fatto che quando diciamo “tempo” non ci riferiamo a una nozione sola, ma a una costellazione di nozioni più o meno connesse e indipendenti. La tesi del libro è che la confusione negli attuali dibattiti scientifici e filosofici sul tempo, che sono molto accesi, venga proprio dal confondere nozioni diverse.
Un suo intervento TEDx si intitolava Il tempo non esiste. Non le sembra un po’ forte, come affermazione?
Quel titolo è ovviamente provocatorio, una boutade. È ovvio che il tempo esiste. Quello che non esiste è un tempo universale e fondamentale, che valga per tutti i fenomeni dell’universo, e abbia le caratteristiche che attribuiamo comunemente al tempo. Questo certamente non esiste.
Lo diceva anche Kant, che considerava il tempo soltanto un a priori della percezione, più soggettivo che oggettivo. C’è una relazione?
C’è una bella risposta che Einstein diede durante una seduta della Società francese di Filosofia, nel 1922, a chi gli chiedeva se i suoi risultati confermassero o confutassero le idee di Kant. Lui rispose che ci sono tante letture diverse di Kant, quanti filosofi che ne parlano. Credo però che sia importante il fatto che avesse letto tutte e tre le Critiche a 15 anni: non c’è dubbio che Kant abbia avuto influenza sul suo pensiero.
Non si può parlare nemmeno di un tempo cosmico, ottenuto amalgamando i tempi delle grandi masse dell’universo?
No, neppure il tempo cosmico è una nozione oggettiva. Per esempio, la Via Lattea e Andromeda si stanno avvicinando, e fra un po’ si incontreranno. Ciascuna delle due galassie ha un tempo cosmico, definito come il suo tempo proprio a partire dal Big Bang. Quando si incontreranno i loro due tempi saranno diversi. Qual è quello vero? Nessuno dei due, ovviamente: entrambi sono relativi al sistema che lo misura. Il tempo cosmico è unico solo in una maniera approssimata, che non cattura la complessità della realtà.
Kurt Gödel ha effettivamente trovato modelli di universi senza un tempo cosmico, in cui si può fare un giro completo e ritrovarsi nello stesso istante di partenza, ma Einstein li considerava insensati da un punto di vista fisico.
Io penso che le linee temporali chiuse come quelle di Gödel siano possibili. Potrebbero essercene, per esempio, all’interno di buchi neri rotanti. Non creano nessun paradosso logico, contrariamente a quanto talvolta si dice. L’errore è pensare che qualcuno possa usarle per andare a uccidere suo padre prima della propria nascita. Ma non è il fatto che ci sia una linea temporale chiusa, a impedire di uccidere il proprio padre nel passato: è semplicemente il fatto che, qualunque sia la storia del mondo, quella è la storia del mondo.
Nella meccanica quantistica, di cui tratta il suo recente Helgoland, John Wheeler e Richard Feynman hanno interpretato l’antimateria come materia che viaggia all’indietro nel tempo. La cosa ha rilevanza per la nostra vita quotidiana, come sembra suggerire il film Tenet di Christopher Nolan?
No, nessuna. Il film è molto pasticciato, e del tutto implausibile scientificamente. Ovviamente gli artisti non sono tenuti a essere fedeli alla scienza, e possono ispirarsene liberamente, ma a me non piacciono i film troppo confusi, e nemmeno quelli violenti. Interstellar era molto meglio, e almeno mostrava bene un fenomeno del tutto possibile: incontrare la propria figlia, diventata nel frattempo più vecchia di noi. Oltre al fatto che c’era un po’ più di sentimento.
Ha trovato realistica la rappresentazione dei buchi neri?
Tra le varie idee scientifiche usate nel film, quella non aveva nulla di ipotetico o di speculativo: è solida scienza. I buchi neri esistono, e se ci avviciniamo e passiamo un po’ di tempo nelle loro vicinanze, quando ce ne allontaniamo troviamo un mondo esterno che è invecchiato più di noi. Altre idee scientifiche di Interstellar sono speculazioni, come l’esistenza di dimensioni parallele. Altre cose poi sono evidenti baggianate, come i ridicoli segni che il padre manda alla figlia dalle dimensioni parallele.
Se Nolan avesse chiesto consulenza a lei, invece che a Kip Thorne, che consigli gli avrebbe dato?
Gli avrei detto di attenersi alle meraviglie del mondo com’è in realtà, che sono già stupefacenti come sono, senza bisogno di aggiungerne altre.
Ma forse questa è una delle ragioni per cui ha fatto bene a non chiedere a me.
Il citato Wheeler, a cui si deve tra l’altro l’espressione “buco nero”, diceva che la fisica è passata successivamente attraverso lo studio della materia, dell’energia e della geometria, e sta diventando lo studio dell’informazione. Lei è d’accordo?
Per me Wheeler è stato una figura di riferimento fondamentale. Il mio lavoro sull’interpretazione della meccanica quantistica, che riassumo in Helgoland, è stato largamente ispirato dalle sue idee sull’importanza dell’informazione. Credo dunque che l’informazione sia una nozione molto utile, ma non penso che la fisica diventerà lo studio dell’informazione: la sua struttura concettuale oggi è espressa in termini di campi quantistici.
Prima dei suoi tre grandi successi divulgativi lei aveva scritto La realtà non è come ci appare, mostrando che la visione del mondo fornita dalla scienza è molto diversa da quella fornita dall’umanesimo. Forse per questo aveva avuto un pubblico più ristretto?
Non direi che la scienza mostra una visione della realtà molto diversa da quella delle scienze umane, o da quella dell’umanesimo. Che la realtà sia diversa da quella che appare è anche quello che ci insegnano la letteratura, l’arte, la musica. Da Dante a Pirandello, il fatto che la realtà è assai più complessa che non il senso comune quotidiano mi sembra sia un messaggio comune di tutto il sapere.
Certamente, ma questo non significa che poi ci sia qualcosa di reale nella descrizione del mondo proposta da Dante, dal sistema tolemaico ai regni dell’aldilà. Possiamo almeno contrapporre il senso scientifico al senso comune?
Io penso che anche l’opposizione fra sapere e senso comune non sia del tutto corretta: quello che chiamiamo senso comune, il nostro modo quotidiano di vedere il mondo, è fortemente influenzato dal sapere. È proprio una delle idee che discuto nel libro che ha citato. Per esempio, il senso comune cambia nei secoli: noi non pensiamo a un temporale nello stesso modo in cui lo poteva pensare chi lo sentiva direttamente come una espressione di una divinità adirata. E oggi il senso comune sullo spazio e sul tempo è fortemente influenzato dal pensiero di Newton.
E forse ancor più da Aristotele e Tolomeo, che d’altronde descrivevano correttamente le cose come le percepiamo sulla Terra. Ma rimane il fatto che il suo libro, che pareva sostenere la realtà scientifica, le ha fatto vendere meno copie.
È vero che quel libro ha venduto meno, ma è uscito prima delle Sette lezioni, quando il grande pubblico non conosceva per nulla il mio nome. Ed è anche un libro di divulgazione più classico, destinato a un pubblico che vuole più dettagli e più informazioni, e non solo le idee essenziali: quindi, in fondo, un pubblico un po’ più ristretto. D’altronde, recentemente ho anche pubblicato testi molto specialistici, che hanno letto in pochissimi!
Rimane anche il fatto che, spesso, uno scienziato che presenta le cose come stanno viene trattato sui media come uno che dice cose senza senso. Pensi alla sua recente imitazione da parte di Crozza.
A me non pare! Anzi, io percepisco un grande rispetto per la scienza. Mi sbaglio? Che Crozza mi prenda in giro, lo trovo divertente. Poi, ovviamente, qualche giornalista che dissente dalle posizioni politiche che ho espresso può cercare di usare la macchietta di Crozza per criticarmi, ed è successo. Ma è una critica sciocca: critica la macchietta di Crozza, non me.
Ma cosa direbbe la gente, se venisse a sapere che il teorema di John Bell dimostra addirittura che la realtà non esiste, e che gli esperimenti di Alain Aspect lo confermano?
Il mio ultimo libro, Helgoland, è tutto centrato proprio su questo problema. La fisica quantistica, di cui il teorema di Bell mette in luce uno degli aspetti più sconcertanti, ci ha mostrato che la realtà è davvero strana. La prefazione del libro si apre proprio con le parole di un collega, che riflettendo su un esperimento mormora: «È come se la realtà...non esistesse».
A proposito di umanesimo, non c’è qui il rischio di sfociare in una sorta di idealismo, come infatti fecero molti fisici quantistici delle origini?
Tutto il mio libro argomenta appunto che andare nella direzione dell’idealismo è un errore. Le cose non esistono perché si riflettono nella nostra mente, o nello spirito: le cose esistono solo in quanto si riflettono le une nelle altre. Questa, in estrema sintesi, è l’interpretazione relazionale della teoria quantistica che illustro nel libro.
Può essere che il diverso successo editoriale dei suoi libri dipenda, almeno, in parte dal fatto che il pubblico umanistico e new age dell’Adelphi sia più sensibile a certi discorsi, e quello scientifico e mainstream di Cortina ad altri?
Nella mia storia l’Adelphi non ha rappresentato una casa editrice new age, e mi ha fatto incontrare da ragazzo la letteratura e la filosofia mitteleuropea, fisici e filosofi analitici americani, neuroscienziati e antropologhi, e sempre una grande ricchezza di idee. Era una casa editrice che usciva dalla morsa dell’editoria italiana, un po’ stretta fra la cultura cattolica e quella marxista. Per esempio, il citato Bell l’ho letto nell’edizione Adelphi, e così Feynman, Schrödinger, Dennett, Pauli, Putnam, Damasio. Per non parlare di Gilgameš, Giordano Bruno, Goethe, Hölderlin, Kant, Montaigne, Abbott, Faulkner, Nabokov, Sacks, Roth, Wittgenstein, Jaynes e così via.
Ma sono proprio idee bislacche come quelle di Schrödinger sul Vedanta, o di Pauli sulla sincronicità, ad aver alimentato Il Tao della fisica di Capra, che è la bibbia new age di Adelphi! Poi, ovviamente, nel catalogo c’è di tutto: compresi Severino e Cacciari.
Però per me l’espressione new age comprende tante cose di bassa intelligenza, mentre al contrario Adelphi è appunto percepito come un editore che raccoglie autori diversissimi, ma non libri banali o libri stupidi. In questo senso, essere pubblicato da Adelphi mi ha certo aiutato moltissimo.
Glenn Gould divideva i pianisti in due tipi: quelli che suonano rendendoci partecipi della loro relazione con lo strumento, facendolo diventare il fulcro della nostra attenzione (come Liszt), e quelli che distolgono l’attenzione dallo strumento, creando nel pubblico l’illusione di venir messo direttamente in comunicazione con la musica (come Richter). Possiamo concludere dicendo che, forse, anche i divulgatori e le case editrici sono così?
Bellissima analogia. Parlando per me, penso che i miei libri di divulgazione si distinguano per due motivi. Il primo è che trascurano tutto il complicato lavorio della scienza e cerchino di arrivare all’essenziale: chi li legge non saprà certo rifare il percorso difficile che hanno dovuto fare gli scienziati. Il secondo motivo è che racconto l’effetto che il sapere scientifico moderno ha avuto sulla mia visione del mondo, su come mi penso nel mondo. Insomma, cerco di saltare tutto e tenere solo gli estremi: gli aspetti più sorprendenti di cosa abbiamo capito, e il modo in cui questi possano essere rilevanti per la nostra vita.
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