- La violenza è sempre un male? Anche quando non tocca gli esseri umani ma solo “le cose”? Verrebbe da dire di sì, vista la reazione unanime e compatta contro l’attentato (se così vogliamo chiamarlo) delle due attiviste ambientaliste nei confronti dei Girasoli di van Gogh alla National Gallery di Londra.
- Nessuno – perlomeno nel dibattito pubblico – sembra aver preso in considerazione che quel gesto, indubbiamente violento, potesse essere legittimato dalla bontà della causa e dalla posta in gioco.
- Né che il clamore suscitato sia in fondo l’obiettivo del gesto: ovvero la messa in discussione del rapporto che intercorre fra un’opera d’arte e la società che la custodisce in un museo pubblico; una società che, mentre con una mano eleva un quadro a monumento di eternità della Bellezza, con l’altra mano distrugge le condizioni ambientali in cui quella bellezza possa essere vissuta e goduta.
La violenza è sempre un male? Anche quando non tocca gli esseri umani ma solo “le cose”? Verrebbe da dire di sì, vista la reazione unanime e compatta contro l’attentato (se così vogliamo chiamarlo) delle due attiviste ambientaliste nei confronti dei Girasoli di van Gogh alla National Gallery di Londra. Nessuno – perlomeno nel dibattito pubblico – sembra aver preso in considerazione che quel gesto, indubbiamente violento, potesse essere legittimato dalla bontà della causa e dalla posta in gioco.
Né che il clamore suscitato sia in fondo l’obiettivo del gesto: ovvero la messa in discussione del rapporto che intercorre fra un’opera d’arte e la società che la custodisce in un museo pubblico; una società che, mentre con una mano eleva un quadro a monumento di eternità della Bellezza, con l’altra mano distrugge le condizioni ambientali in cui quella bellezza possa essere vissuta e goduta.
La bellezza non è un feticcio, ma un discorso vivo. Un atto politico: è politico il dipingerlo; è politico il metterlo in una galleria pubblica; è politico il deturparlo per esporre platealmente una contraddizione e porre una domanda: per quali generazioni e per quale mondo stiamo custodendo quest’opera d’arte? E, in second’ordine: è lecito un uso tattico, mirato, provocatorio della violenza?
La nonviolenza assoluta
Intorno a queste domande è appena uscito un libro, provocatorio fin dal titolo: Come far saltare un oleodotto di Andreas Malm (Ponte alle Grazie). Si tratta di un testo decisivo nella discussione ecologista, che ha già sollevato polemiche feroci alla sua uscita in inglese, e che arriva ora in Italia arricchito da un’appendice in cui l’autore risponde alle critiche che gli sono piovute addosso dopo la pubblicazione.
La domanda intorno a cui ruota il libro di Malm, filosofo scandinavo e militante ecologista della prima ora, è la seguente: «La nonviolenza assoluta sarà l’unico modo, la sola tattica ammissibile nella battaglia per l’abolizione dei combustibili fossili, e lo sarà per sempre? Siamo certi che, visto il nemico, basterà?».
Una domanda che può essere formulata anche in un altro modo: «Immaginiamo uno scenario diverso: fra qualche anno, i figli della generazione Thunberg e tutti gli altri un bel mattino si svegliano e realizzano che il mercato è sempre quello, nonostante gli scioperi, la scienza, gli appelli, i milioni di striscioni e costumi colorati per la strada. Il ben oliato ingranaggio continua a marciare come sempre. Che fare allora? Diremo che abbiamo fatto il possibile, tentando tutti i mezzi a disposizione, e infine abbiamo fallito? Concluderemo che non rimane che imparare a morire, scivolando giù nella fornace dei tre, quattro, otto gradi di riscaldamento? Oppure, dopo le proteste pacifiche, viene un’altra fase?».
Sarebbe ora, sostiene Malm, che il movimento ecologista superi il dogma della nonviolenza assoluta, e metta in atto forme tattiche di violenza contro obiettivi strategici: impianti a carbone, stazioni di servizio, oleodotti, automobili ad alta emissione. Chi sostiene che i cambiamenti avvengano solo per via completamente pacifica dovrà ricredersi: i precedenti storici, sostiene Malm, remano infatti a favore della sua tesi. Valga su tutti l’abolizione della schiavitù in America. Anche se tuttora spiace a molti ricordarlo, la schiavitù negli Usa ebbe termine grazie a una guerra civile spesso brutale: il numero di vittime è molto vicino alla somma totale di vittime in tutti i conflitti in cui gli Usa sono stati coinvolti. E fa impressione rileggere le parole dell’abolizionista John Brown, promotore di incursioni armate nelle piantagioni, quando dopo l’ennesimo congresso di una società abolizionista pacifista, diceva: «Parlate, parlate, parlate! Non libereranno mai gli schiavi! Dobbiamo agire!».
E così anche il movimento delle suffragette, che nel solo 1913 rivendicava ben 337 attentati contro ville, barche, alberghi, chiese, uffici postali, acquedotti e teatri in tutta l’Inghilterra al grido di “Deeds, not words”, “fatti, non parole”. Sono espressioni che ricordano molto da vicino l’invettiva di Greta Thunberg a New York nel 2019: basta con il “bla bla bla”.
Teatralizzare lo scontro
Bisogna, insomma, reimparare a combattere. E in modo radicale, se è vero che – come scrive Malm – «la vittoria storica del capitale e la rovina del pianeta sono una cosa sola». Il paradosso è infatti proprio questo: la posta in gioco è così alta che il fronte del combattimento coincide in sostanza con il mondo intero. Si può fermare una fabbrica di suv, si può far saltare un oleodotto, si può anche imbrattare migliaia di quadri famosi, ma trasformare (o addirittura stroncare) il capitalismo mondiale è un’altra storia.
Bisognerà allora forse teatralizzare lo scontro. Attaccare capitalismo e dispositivi inquinanti, considerare capitalismo e inquinamento come tutt’uno, le facce della stessa follia apocalittica e suicida: «Ecco quel che un movimento di milioni di persone dovrebbe fare: proclamare e realizzare il divieto. Danneggiare e sfasciare i nuovi dispositivi che emettano CO2. Metterli fuori servizio, farli a pezzi, demolirli, bruciarli, farli saltare in aria. Lo sappiano i capitalisti, che continuano a investire nel grande incendio: i loro beni verranno distrutti». Fare questo, insomma, fino a raggiungere la sensibilità dei disinteressati, e toccare la massa critica del dieci per cento della popolazione coinvolta, oltrepassato il quale un cambiamento diventa inevitabile e fisiologico.
Soprattutto, dice Malm, bisogna ribadire a voce alta che il vero avversario del movimento ecologista non è un generico inquinante né l’umarell che non fa la raccolta differenziata, ma l’intero modello di consumo occidentale. Lo scriveva già nel suo libro precedente, Clima corona capitalismo: «Quando incontra la natura, il capitale non si ferma ad ammirarla o porgerle omaggio. Alla natura il capitale non può che attaccarsi, in modo che quella gli ceda merci dotate di valore di scambio; e nel momento in cui ci riesce, la natura non è più selvatica: ma abbattuta, catturata, ingabbiata e portata al mercato. Il capitale la mangia dall’interno, ma il danno è involontario. Il capitale non ha un progetto in mente, che poi si sforzi di realizzare – semplicemente, è l’unico modo che ha di replicarsi. Attaccarsi e succhiare sono nel suo Dna; se smette di farlo, la riproduzione del capitale è finita».
Unire le esigenze di una lotta specifica e contingente a quelle di una posta in gioco epocale e altissima: questa è la sfida del movimento ambientalista, e somiglia pericolosamente all’auspicio di una rivoluzione. S’inizia a capirlo: siamo solo all’inizio, perlomeno nelle potenzialità. Si tratta di un movimento che, se e quando vorrà andare sino in fondo, possiede l’aspirazione naturale a ripensare la struttura stessa della società. E non si limiterà a farlo inzuppando di pomodoro un capolavoro dell’Ottocento solo per dimostrare in mondovisione che la proprietà dell’arte è come quella dell’aria, dell’acqua, del suolo: collettiva.
Il salto di specie del movimento ecologista è incombente: e chissà che questo salto non sia (con il bisbiglio e l’ironia che si tributano oggi a certe espressioni) quello di una lotta comunista.
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