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Al contrario di quel che in genere si crede, il negazionismo non è un “rigurgito”, come si è ormai soliti dire sbrigativamente. Non è insomma un residuo oscuro del passato. Alla base di questa visione neoilluministica c’è il fermo convincimento che tutto dipenda da ignoranza o disinformazione. I negazionisti negano perché non sanno.
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Ma chi nega non ignora. E, anche alla luce dei recenti sviluppi, si può dire che sia una terribile ingenuità ridurre un problema eminentemente politico a un inevitabile orpello dello scenario culturale. Perché i negazionisti non vogliono ricercare nulla.
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Non si tratta solo di odio, un’emozione che va e viene, né di una strategia retorica – ma neppure semplicemente di una deriva del web. Il negazionismo è un fenomeno politico dell’attualità che, come tale, deve essere finalmente studiato e fronteggiato.
Al contrario di quel che in genere si crede, il negazionismo non è un “rigurgito”, come si è ormai soliti dire sbrigativamente. Non è insomma un residuo oscuro del passato. Alla base di questa visione neoilluministica c’è il fermo convincimento che tutto dipenda da ignoranza o disinformazione. I negazionisti negano perché non sanno.
Senza esagerarne la portata, il fenomeno dovrebbe perciò essere contrastato con un di più di conoscenza. Il che – s’intende – è sempre auspicabile. Si parla perciò di “negazione della storia”, come se la faccenda riguardasse solo l’interpretazione degli avvenimenti che hanno scandito la prima metà del Novecento.
Meglio sarebbe allora lasciare la parola agli storici affinché possano superare lo spiacevole incidente ripristinando la verità. Non è un caso che coloro che negano la Shoah abbiano potuto spacciarsi a lungo per “revisionisti” dando a intendere che il loro obiettivo fosse semplicemente quello di rivedere criticamente la storia, passarla al vaglio, riaprire il dibattito.
Ma chi nega non ignora. E, anche alla luce dei recenti sviluppi, si può dire che sia una terribile ingenuità ridurre un problema eminentemente politico a un inevitabile orpello dello scenario culturale. Perché i negazionisti non vogliono ricercare nulla. Non si sforzano di leggere altrimenti gli eventi di cui contestano l’esistenza. Piuttosto sono dobermann del pensiero. Si attaccano famelicamente ai particolari per divorarli, si avventano sulle prove per farle a brandelli. Così insinuano il loro dubbio iperbolico, armato di certezze, che ridimensiona, minimizza, riduce, fino a raggiungere lo scopo: negare.
Cosa fare coi negazionisti
Questo è evidente nelle ulteriori forme di negazionismo che sono andate sviluppandosi negli ultimi anni. A conferma, peraltro, di un fenomeno inedito che aumenta e si consolida. Come esempio valga per tutti la sconcertante negazione della pandemia che va ben al di là di frange estreme e che pone molti inquietanti interrogativi.
Nel rifiuto della “versione ufficiale” e nella millantata ricerca di una “informazione alternativa” affiora uno schema già collaudato in tutti quei discorsi che nei decenni hanno negato la politica dello sterminio di cui sono stati vittime gli ebrei. Ecco perché la negazione della Shoah è un vero e proprio caleidoscopio, lo specchio in cui osservare e studiare i nuovi negazionismi del XXI secolo.
Confutare i falsificatori in un dibattito aperto, riconoscendoli però come legittimi interlocutori? Oppure sottrarsi a ogni confronto, lasciando tuttavia campo libero ai ciarlatani? Il dilemma, come si sa, è più che mai aperto.
Ma è indubbio che questo fenomeno, troppo a lungo trascurato, non avrebbe il peso attuale, né gli effetti devastanti, se non fosse già sempre installato all’interno dello spazio pubblico, nel senso in cui lo intende Hannah Arendt. Senza questo spazio politico e mediatico, pressoché sconosciuto alle epoche precedenti, il fenomeno del negazionismo non esisterebbe neppure.
Eliminare le tracce
Sin dall’inizio è chiaro il significato politico del negazionismo. Quando nell’immediato dopoguerra viene alla luce il crimine contro l’umanità che si è consumato nei lager della morte, l’opinione pubblica è del tutto impreparata. I mezzi concettuali ed emotivi non bastano per affrontare uno sterminio che va al di là dell’immaginazione. Per di più mancano informazioni precise.
Nell’edizione del 15 dicembre 1945 Le Monde parla di nove milioni, mentre al processo di Norimberga l’ex ufficiale nazista Kurt Gerstein dichiara che gli ebrei sterminati sarebbero 25 milioni. Se le cifre ondeggiano, le prove materiali del genocidio sono poche – quel che resta di camere a gas e forni crematori fatti saltare per tempo. I primi negazionisti sono stati i nazisti stessi che hanno provveduto a eliminare ogni traccia del crimine.
Occorre allora fare come se nulla fosse avvenuto. Scherno, derisione, sarcasmo si alternano in una strategia volta a sminuire, ridimensionare e, alla fin fine, negare quel che è accaduto. L’intento evidente nella prima fase è riabilitare il passato sollevando il nazismo da ogni colpa, scagionando il fascismo da ogni complicità nel genocidio degli ebrei d’Europa. Il che è possibile solo cancellando il crimine più indegno e obbrobrioso: l’industrializzazione della morte nei campi di sterminio.
Da vittime a colpevoli
Le camere a gas saranno per anni e decenni al cuore della negazione. Una volta dichiarati inesistenti quei luoghi, frutto di invenzione, di “montaggio tecnico”, si può scrivere altrimenti la storia del fascismo e del nazismo occultandone gli “episodi più indigesti”, cioè il crimine contro l’umanità. E si può soprattutto scongiurare che l’Europa, dopo Auschwitz, porti impresso in modo indelebile il marchio dello Zyklon B, l’agente tossico usato nei lager. È questo il modo in cui, con una sola mossa, è possibile scaricarsi da ogni colpa spianando la strada a quelle nuove, antiche forme di odio che si stagliano nel futuro.
Se ad Auschwitz del forno crematorio non esistono che macerie, c’è da dubitare che sia mai esistito. Se non si conosce il numero esatto delle vittime, si deve presumere che sia stato gonfiato a bella posta. Se i testimoni raccontano della gassazione, non possono essere creduti, perché la loro sopravvivenza contraddice quel dispositivo di morte che avrebbe dovuto annientarli. Sarebbero loro i “falsari”. È questo, peraltro, uno dei capitoli più ripugnanti: i testimoni diventano bersaglio della violenta propaganda negazionista. Non per semplice odio, bensì per il ruolo chiave che rivestono.
Emblematico è il caso di Shlomo Venezia, ex membro del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau che era stato costretto a lavorare nelle officine hitleriane della morte. La sua testimonianza, che giunge con fatica all’inizio degli anni Novanta, ha il di più di chi ha visto il dispositivo dello sterminio all’interno. Svelare quel segreto, che per i nazisti avrebbe dovuto finire con la morte di quei prigionieri, ne fa un temuto testimone d’eccezione. Saranno i sopravvissuti a fronteggiare l’ondata dei negazionisti e a diventare guide della nostra coscienza democratica.
Il ricordo sotto accusa
Ma il fenomeno non si ferma. Anzi, si amplia e si inasprisce passando attraverso fasi diverse. Il negazionismo si presenta come un’impresa di igiene ideologica che mira a sgombrare l’orizzonte del presente dal passato fasullo: le “dicerie su Auschwitz”. L’indice è sempre più puntato contro gli ebrei che, spacciandosi per vittime, mentre sarebbero i veri vincitori, hanno architettato la “menzogna” dello sterminio, non solo per colpevolizzare l’Europa e tenere sotto ricatto la Germania, ma anche per trarre profitto da quella “truffa” che ha permesso la creazione “abusiva” dello stato di Israele.
Quando entra nell’ultima fase, però, il negazionismo lascia cadere alcuni temi e ne aggrava altri. La questione delle camere a gas non è più di attualità e passa in secondo piano insieme alla negazione dei fatti storici. Il nuovo negazionismo del XXI secolo si coagula intorno alla domanda: “A chi giova l’olocausto?” Chi ne trae profitto?
Il cosiddetto “culto olocaustico” è il perno della nuova negazione. La polemica sui riti della commemorazione diventa il pretesto per mettere sotto accusa l’intera cultura del ricordo. Maestri nell’enfatizzare la propria condizione vittimaria, abili nel far leva sulla cosiddetta “unicità” di Auschwitz, che coprirebbe altri genocidi ben più gravi, esperti nella “industria dello sterminio”, gli ebrei avrebbero saputo sfruttare la menzogna ben al di là di Israele, per tirare le fila della loro politica planetaria di dominio. Ritorna così il tema del “complotto ebraico mondiale”, il vero cardine dell’antisemitismo.
Ecco che oggi la questione appare molto più chiara proprio perché emerge la matrice complottistica. Il che getta luce anche sugli ulteriori negazionismi che dilagano nella cronaca. Non si tratta solo di odio, un’emozione che va e viene, né di una strategia retorica – ma neppure semplicemente di una deriva del web. Il negazionismo è un fenomeno politico dell’attualità che, come tale, deve essere finalmente studiato e fronteggiato.
Donatella Di Cesare insegna Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. È autrice del libro Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, pubblicato da Bollati Boringhieri
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