- Il regista della fiction Rai in quattro puntate, Lucio Pellegrini, racconta i retroscena della serie che racconta la vita del generale dei carabinieri che ha combattuto il terrorismo e la mafia.
- «Non abbiamo raccontato la morte di Dalla Chiesa, ma la sua vita, o meglio, gli ultimi dieci anni della sua vita; dal trasferimento a Torino per occuparsi dei primi fenomeni insurrezionali fino allo smantellamento delle più importanti cellule brigatiste».
- «La parte palermitana, l’attentato di via Carini in cui il generale morì insieme alla sua giovane sposa Emanuela Setti Carraro, sono la coda di una storia che vede un eroe nazionale abbandonato da tutti, andare incontro a un destino segnato.
Nell’ultima puntata de Il nostro generale, serie in onda in quattro puntate da ieri su Rai 1, c’è una scena in cui Dalla Chiesa-Sergio Castellitto, va a trovare in carcere Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Brigate rosse. Da quando il terrorista è stato arrestato, i due hanno stabilito un rapporto quasi intimo, di rispetto e fiducia, una relazione che sarà la base della sconfitta definitiva delle Brigate rosse. Seduto su una sedia metallica, nella penombra di una cella, Dalla Chiesa confessa a Peci che nella sua vita non ha conosciuto che guerra, dalla Resistenza alla mafia, fino al terrorismo. Si sentiva un uomo di pace, senza averla mai conosciuta davvero.
Oggi, passati quarant’anni dall’attentato in cui il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ha perso la vita (3 settembre 1982 ndr), sembra che questo destino non lo voglia abbandonare. Il suo nome è una ferita aperta per le istituzioni, un dolore difficile da elaborare per i famigliari, una storia ancora molto opaca nel suo epilogo. Ce ne siamo resi conto in tutte le fasi della lavorazione di questa serie, che è durata un paio d’anni e ha coinvolto un centinaio di attori, molti set, svariate città, un’enorme mole di lavoro.
Non abbiamo raccontato la morte di Dalla Chiesa, ma la sua vita, o meglio, gli ultimi dieci anni della sua vita; da quando, nel 1973, viene promosso a generale e trasferito a Torino per occuparsi dei primi fenomeni insurrezionali, alla nascita dei nuclei antiterrorismo, fino allo smantellamento delle più importanti cellule brigatiste dei primi anni Ottanta. La parte palermitana, l’attentato di via Carini in cui il generale morì insieme alla sua giovane sposa Emanuela Setti Carraro, sono la coda di una storia che vede un eroe nazionale abbandonato da tutti, andare incontro a un destino segnato.
Una vita in trincea
Il protagonista è un investigatore intuitivo, brillante, coraggioso nel rivoluzionare gli inconcludenti metodi di indagine dell’epoca, che diventa rapidamente l’emblema dello stato italiano, eroe nazionale per alcuni, nemico numero uno per altri, amato e odiato dall’opinione pubblica e dalla politica. Una vita in trincea, blindata con la sua famiglia dentro una caserma, cercando di ricreare un’impossibile normalità, tra il matrimonio di una figlia celebrato a forza in un garage e lo stato di allerta permanente in tutta la città. Abbiamo chiuso la postproduzione a inizio agosto, sicuri di essere riusciti a realizzare quello che avevamo in mente: non un biopic, non un’agiografia in stile vecchia Rai, ma il racconto di dieci anni di una guerra combattuta da ragazzi, ventenni i brigatisti, ventenni i carabinieri in borghese guidati da Dalla Chiesa.
Non c’è traccia di tutto questo nei libri di testo, non c’è memoria di quell’Italia violenta e insanguinata, di quelle città vuote alle prime ombre della sera, di quell’aria pesante che la mia generazione ha respirato nei primi anni di scuola, di quella paura che avevamo da bambini, quando si partiva da Asti per andare a trovare le zie a Torino. Poter restituire quelle sensazioni e la memoria di un paese irriconoscibile, più sudamericano che europeo, è la principale ragione che mi ha convinto ad affrontare questa impresa.
Ma anche il desiderio di raccontare una storia che ha toccato da vicino tutti quelli che, come me, sono cresciuti nel triangolo industriale negli anni Settanta, una storia in parte rimossa, che fino a oggi nessuno ha mai affrontato per intero. Le tante narrazioni sul terrorismo di questi anni si sono focalizzate su specifici momenti, assumendo sempre il punto di vista di chi ha scelto di entrare in clandestinità, armarsi e provare a fare la rivoluzione. Il nostro generale, invece, parla degli altri, di chi si è trovato di fronte un fenomeno inaudito, ha provato a comprenderlo cogliendone le possibili evoluzioni e lo ha combattuto giocandoci contro una violenta partita a scacchi. Raccontando un gruppo di ragazzi che decidono di privarsi della loro identità e della possibilità di vivere una vita normale, esattamente come i loro rivali, abbiamo costruito una storia quasi poliziesca, almeno nella prima parte. Almeno fino al rapimento Moro. Lì il paese si squassa, si frantuma completamente. Lì cambia tutto.
Ritorno in prima linea
Dalla Chiesa in quel momento non è in prima linea. I suoi nuclei antiterrorismo sono stati sciolti, aveva conquistato troppo potere, ottenuto grandi risultati con molto clamore, si era creato molti nemici all’interno dell’Arma.
Dopo la debacle politica e istituzionale del rapimento del presidente della Dc, il governo richiama il generale in prima linea, facendogli formare nuovi nuclei. I risultati sono immediati. Pochi mesi dopo, i suoi uomini scoprono il covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, dove trovano il memoriale di Aldo Moro. Sono pagine dolorose, piene di accuse alla Democrazia cristiana. Ne seguiranno anni terribili, una enorme frattura negli equilibri politici e istituzionali e una lunga scia di sangue. Dalla Chiesa vince la sua guerra con le Brigate rosse, ma perde quella con la politica, che lo abbandona nel momento in cui diventa troppo importante, troppo ingombrante, forse depositario di segreti troppo pericolosi.
Esterno notte
Per un’imprevedibile concatenazione di eventi, fatta di Covid, lockdown, elezioni anticipate e slittamenti per la par condicio, la nostra serie va in onda sui Rai 1 poco tempo dopo Esterno notte, il racconto di Marco Bellocchio dei cinquantacinque giorni del rapimento Moro. Non sono felice. C’è un’analogia di temi, è un confronto inevitabile e piuttosto scomodo per noi. Penso che avrei preferito andare in onda prima, oppure molto dopo.
Poi però vedo il lavoro di Bellocchio, mi piace molto e mi viene da pensare che le due serie possano essere complementari.
Il nostro generale in sette ore complessive racconta dieci anni di guerra, partendo da una sceneggiatura costruita da Monica Zapelli e Peppe Fiore con rigoroso approccio storico, basato su fatti provati, atti dei processi e delle commissioni di inchiesta parlamentari. È una messa in scena ricca di ricostruzioni maniacali, spesso ambientata nei luoghi reali dove sono accaduti i fatti tanti anni prima e sperimenta un linguaggio che lavora sulla memoria emozionale dello spettatore, mescolando stili contemporanei e formati televisivi anni Settanta e Ottanta.
Quella di Bellocchio è la psicanalisi di un paese che, a seguito del rapimento Moro, si trova improvvisamente debolissimo in ogni sua manifestazione. Il nostro generale, quel momento, quasi non lo racconta. C’è però una scena molto semplice, che si svolge in quei giorni. Dalla Chiesa, come un italiano qualsiasi, assiste davanti alla tv alle scene terribili del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Nel suo volto perso, svuotato, c’è lo stesso enorme smarrimento, dei personaggi di Esterno notte. Negli occhi di quegli uomini si legge il fallimento dell’esperienza della Resistenza, che ha generato un paese che non cambia mai, in parte eterodiretto, con centri di potere immutabili, tenuto sotto scacco da un gruppo di giovani rivoluzionari che agiscono in modo insensato e autodistruttivo. Il nostro Dalla Chiesa, in quella breve scena, è attraversato dagli stessi sentimenti. Mi viene da pensare che forse nella serie di Bellocchio manca proprio l’apparato dello stato, il potere nascosto delle forze dell’ordine, e che la storia di quei cinquantacinque giorni sia stata soprattutto un grande fallimento investigativo.
Ho rivisto la nostra serie dopo qualche mese al Torino film festival, a fine novembre, dove è stata presentata in anteprima. Era una bella serata, il cinema era esaurito, c’erano anche Rita e Dora Dalla Chiesa, che quando si sono accese le luci mi hanno abbracciato commosse. Uscendo dalla sala, mi sono venute incontro tante persone, ognuno aveva una storia da raccontare, una memoria famigliare relativa a quel periodo così doloroso per la città e per il paese intero.
Non chiamatela fiction
Un carabiniere in pensione mi ha raccontato che c’era anche lui quando è stato arrestato Peci, una signora mi ha detto che il padre era nei servizi segreti e che lei sapeva cose che nessuno può immaginare, un amico che la sa più lunga di me mi ha preannunciato una pioggia di polemiche e manipolazioni. «Se ne parlerà e verrà usata per attaccare qualcuno, la Rai, la controparte politica, anche Bellocchio. E altri attaccheranno voi. Senza che nessuno l’abbia vista, ovviamente. Viviamo in un tempo stupido e ogni cosa diventa oggetto di tifo da stadio. Vedrai». Gli ho risposto che mi basta che non venga chiamata fiction. È una parola che contiene un’idea di qualità scadente e contenuti idioti. Mi basta questo.
Più tardi, seduti a un tavolino in un bar di piazza Vittorio dove andavamo tanti anni fa, mi ha detto che la cosa che l’ha colpito di più è stata l’atmosfera di guerra che vivevamo quasi senza accorgercene. Ogni giorno si aspettava la notizia di un omicidio come se fosse una cosa normale. E ci siamo messi a parlare del nostro tempo, e ci siamo detti che in fondo anche oggi tutto potrebbe andare in frantumi in un attimo, che forse sta già succedendo ma non ce ne stiamo rendendo conto. Potremmo risvegliarci una mattina e ritrovarci in una guerra. Le guerre scoppiano in un attimo e poi ci mettono un’eternità a concludersi. E a volte, come la guerra di Dalla Chiesa, non si concludono mai del tutto.
E allora penso che questi due anni di lavoro abbiano un senso che va al di là di quello che immaginavo, che questa serie parla anche di oggi, di quello che siamo diventati, della strada che abbiamo fatto per arrivarci. E che la memoria e gli insegnamenti del passato sono l’unica cosa che, forse, ci può ancora salvare.
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