Ho passato tre settimane in Madagascar, dedicandomi al rito di predazione culturale chiamato turismo. Tra lemuri e baobab sacri ho cercato di intracapire qualcosa di quell’enorme isola separata dall’Africa troppo presto, divisa in diciotto etnie che parlano lingue austronesiane o bantu, dove gli abitanti hanno caratteri somatici misti polinesiani o pigmei o arabi; dove la tradizione matriarcale originaria ha piegato verso il patriarcato solo qualche centinaio di anni fa, dove comandavano le regine e non i re; dove l’arcaicità del lavoro si combina con l’uso diffuso dei cellulari e la povertà straziante è connessa allo sfruttamento delle risorse minerarie da parte di svizzeri e americani e francesi.

Un’Africa non Africa, che dell’Africa ha la vitalità sorprendente, la demografia esplosiva e i sorrisi, oltre che una democrazia fragile derivata da un colpo di Stato. Tornando l’altro giorno, ho avuto la sorpresa che le hostess dell’Air France non mi hanno permesso di vedere l’alba (che immaginavo stupendamente rossa) dai finestrini. Nei nuovi aerei non c’è più la tendina che si poteva manovrare manualmente, ma tutto è comandato centralmente da un “sistema”; il sistema aveva deciso che fino alle 8,30 i finestrini dovevano restare oscurati per incoraggiare i passeggeri a dormire, e solo dopo il passaggio della colazione si sarebbero schiariti permettendo a chi volesse di godersi il paesaggio dall’alto. Sono stato l’unico a protestare per l’abuso.

Arrivato in Italia la prima notizia è stata quella del nuovo brano di Eminem, Temporary, in cui il rapper ormai ultracinquantenne rassicura la figlia sul fatto che lui la proteggerà sempre, anche dall’aldilà («quando un cuore si spezza, non si spezza per sempre/ i pezzi ricresceranno insieme… le lacrime sono temporanee/ i giorni brutti inizieranno a migliorare/ e rideremo insieme»). Il video mostra la piccola Hailie Jade mentre gioca in casa, poi mentre cresce e mentre va all’altare, e insieme al marito scrivono su un cartello che Eminem sta per diventare nonno, e l’ultimo fotogramma è l’ecografia del/della futuro/a nipote. Un video edificante, un inno agli affetti e alla speranza, lontanissimo dall’Eminem violento e misogino e disperato di Just Don’t Give a Fuck.

Un filo ci sarà

Che c’è in comune tra questi fatti, o per meglio dire che nesso ci trova la mia mania inguaribile di voler connettere ogni cosa con ogni altra? Il primo collegamento che mi viene in mente ha a che fare con la nozione di vitalità, e col sorriso: il sorriso delle ragazze malgasce, o anche dei giovani che colano a piedi nudi l’alluminio fuso dentro gli stampi per fare le pentole (in sprezzo di ogni norma di sicurezza sul lavoro), è un sorriso che sa di timidezza, di rassegnazione, di creaturalità. Là le "relazioni umane”, per quel che mi pare di avere intravisto, sono ovvie perché necessarie, si ha bisogno degli altri per sopravvivere. Si sorride spontaneamente, per non piangere e per non aggredire. Il “ridere insieme” di Eminem è consolatorio, è la maturità raggiunta dopo una vita accidentata e spesso autolesionista, è insomma una riscoperta a cui si arriva attraverso un percorso. Non credo nella commozione russoian-pasoliniana per i popoli ingenui incorrotti dalla civiltà, sono contento di aver visto tanti ragazzi entrare e uscire dalle scuole con le loro brave divise, spero che il Madagascar avrà il proprio sviluppo industriale e tecnologico. Poi accadrà quel che deve accadere.

È un errore (della sinistra) credere che il nemico sia chi non vuole cambiare le cose, o chi crede cinicamente che non si possa cambiarle – certo che si può, tant’è vero che cambiano. Gli stessi reazionari si presentano come coloro che vogliono rimettere in sesto il mondo, cambiandolo. Il difficile è prevedere chi sarà a cambiarlo, e in che direzione; non sempre i risultati corrispondono a ciò che sperava chi ha messo in moto un determinato processo. Eterogenesi dei fini. Nel mattatoio della Storia, chi o che cosa incarna il cambiamento più duraturo, quello che si realizza a dispetto delle singole volontà?

EPA

Dunque non è sui bianchi sorrisi africani che voglio soffermarmi (anche perché non ne so niente, e quante volte sono controbilanciati da dentature in rovina per mancanza di cure mediche), ma sul nostro attuale bisogno, nella cultura mainstream, di riscoprire le relazioni con una sfumatura di nostalgia. Come se di colpo e tutti insieme, in una specie di nuova Arcadia, ci stupissimo di quanto siano belli l’amore, l’amicizia, l’inclusione, la solidarietà, il prendersi cura; e quanto siano brutti l’odio, il rancore, la "tossicità” dei rapporti, l’avidità, l’invidia. I sentimenti, insomma. Che dovrebbero essere, e sono stati per molto tempo, l’abc del vivere; voler bene ad alcuni e detestare altri è l’assoluta normalità. Si parla tanto della necessità di “accettarsi interi”, ma poi l’interezza la spezzettiamo in tante etichette da piazzare sulle relazioni che di colpo sembrano aver perso naturalezza. Esiste ormai un “manierismo del restare umani”: il manierismo, che lo si intenda come corrente artistica o come caratteristica psicologica, è per l’appunto una torsione e una forzatura che deriva dalla ripetizione di schemi già dati, allontanandosi dalla natura – la ripetizione di qualcosa che non si padroneggia fino in fondo, una vitalità che si dibatte cercando forme di esistenza raffinate nella paura. Le Deposizioni di Pontormo e Rosso Fiorentino dopo la crisi politica e religiosa di fine Quattrocento, le sottospecie di schizofrenia studiate da Ludwig Binswanger.

La “lega dei sensibili”

La paura, forse è questa la chiave. Il desiderio di riscoprire i sentimenti, positivi o negativi, nasce dalla sensazione che umani forse stiamo per non esserlo più. Che qualche “sistema” (come quello dei finestrini comandati da Air France che non ti permettono di guardare fuori se non quando vogliono loro) stia decidendo per noi l’essenziale. Anche la letteratura, che in questi casi è un termometro sensibilissimo, sembra focalizzarsi sulla riscoperta delle emozioni (una gravidanza, un innamoramento, una guerra in casa d’altri, una malattia improvvisa); emozioni che ovviamente sono il tessuto connettivo della letteratura da sempre, ma adesso vengono presentate come novità per “motivare” la vita. La letteratura rischia di confondersi con i manuali di self help, di cui già vent’anni fa erano pieni gli scaffali delle librerie americane. Come se il testo letterario potesse essere la sede di un’etica e perfino di una precettistica (nel catalogare innaturalmente i sentimenti, è quasi fatale distinguere tra quelli buoni/utili e quelli cattivi/dannosi). Invece che ritrarre le ambiguità della vita privata per trasportarne le contraddizioni nell’universale, si sfrutta quel tanto di universalità garantito dall’istituzione letteraria per snocciolare la propria privata soluzione dei problemi e proporla come modello di apprendimento («io ce l’ho fatta, abbracciatemi e ce la potrete fare anche voi»).

È dai tempi di Kafka e Beckett che le “relazioni umane” sono state dichiarate insufficienti per la letteratura, ma ora di questi maestri si parla poco e Philip Dick è visto soltanto come uno sceneggiatore figo per film di cassetta. L’umanità sta perdendo sé stessa, è questa la cosa che fa davvero paura; e allora ecco che bisogna convocare la “lega dei sensibili” per recuperare umanità. Sono gli stessi “sensibili” che devono essere protetti da qualunque forma di conflitto. Il corpo umano non si presenta più solido e indiscutibile come un tempo, l’intelligenza artificiale può simularlo così perfettamente che un corpo inesistente può diventare oggetto di desiderio carnale; e a un corpo artificiale si può accompagnare una psiche artificiale, basta vedere i sentimenti liofilizzati che traspaiono dai social, o il manierismo degli emoticon che appunto irreggimentano le emozioni in un insieme con un numero finito di elementi. Il viale dei baobab di Morondava ha già il suo shopping center, ci sono video realizzati col drone che permettono di osservarlo meglio di quanto un occhio umano potrebbe mai fare.

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