Ai Mondiali di ciclismo su pista a Glasgow, siamo il paese delle bici stampate in 3D, delle ruote e dei caschi avveniristici, dei body tecnologici. Abbiamo anche una straordinaria generazione di campionesse e campioni, in linea con la tradizione. Eppure, mancano gli impianti. Dei cinquanta censiti, molti non sono agibili. Siamo l’unico paese dell’élite a non avere un velodromo coperto aperto al pubblico, Roma l’unica capitale senza. Come se si potesse vincere nel nuoto senza avere una piscina.
Se arrivasse il solito marziano e buttasse un occhio sulla pista mondiale di Glasgow vedrebbe che c’è l’Italia tra le grandi potenze. Meno di 60 milioni di abitanti, eppure siamo un paese di riferimento in uno degli sport più sofisticati: il ciclismo su pista è dettagli, millesimi di secondo, potenza e velocità ma anche tattica e strategia, forza e intelligenza.
Materiali all’avanguardia, studi approfonditi, ore in galleria del vento. Le bici - Pinarello, Treviso - hanno telai concepiti con la stampante in 3D. Le ruote - Campagnolo, Vicenza - sono lenticolari tubeless. I caschi - Kask, Bergamo - hanno visiere avveniristiche che aiutano la prestazione. I body - Castelli, azienda del bellunese - hanno plasmature in plastica che cambiano da atleta ad atleta.
A bordo pista ci sono gli ingegneri, come nella Formula 1. E sulla bici - a scatto fisso, senza freni né cambio - i Nuvolari che stanno facendo la storia del loro sport. Viviani, Ganna, Milan, Consonni, Lamon. Balsamo, Paternoster, Guazzini, Barbieri, Fidanza.
Una scuola
Dire che siamo diventati una potenza nel ciclismo su pista non è corretto. Lo eravamo già, molto tempo fa. Popolo di poeti, artisti, eroi ma anche pistard. Nell’Inseguimento a squadre - la disciplina regina - siamo andati a medaglia dall’Olimpiade di Anversa 1920 a quella di Città del Messico 1968. Senza interruzioni. Sette ori, tre argenti e un bronzo: quasi cinquant’anni di dominio assoluto, che però si sono cappottati in altrettanti anni di vuoto.
Per ritrovare un quartetto azzurro sul podio abbiamo dovuto aspettare il 2021, con Filippo Ganna, Simone Consonni, Francesco Lamon e Jonathan Milan che hanno vinto i Giochi di Tokyo con il record del mondo. Se negli anni Novanta ci eravamo consolati con gli exploit di Silvio Martinello, Andrea Collinelli e Antonella Bellutti, è l’Inseguimento il biglietto da visita di un movimento che funziona. E adesso l’Italia non ha soltanto un quartetto: ne ha due. Lo scorso ottobre a Roubaix Elisa Balsamo, Martina Fidanza, Vittoria Guazzini e Chiara Consonni (il nome non è una coincidenza: è sorella dell’oro olimpico Simone), sono diventate campionesse del mondo per la prima volta.
Gli impianti
Abbiamo i campioni, abbiamo le vittorie. Che cosa ci manca? Gli impianti. Sul sito della Federazione italiana ciclismo, alla voce velodromi ne sono censiti 26, di cui cinque soltanto nel Veneto, quattro in Lombardia, ma anche uno in Puglia, uno in Basilicata e addirittura due in Sicilia. In realtà i velodromi italiani sono addirittura il doppio, più di cinquanta. Ma il numero non dice granché: siamo l’unico paese tra quelli del Mondiale a non avere un velodromo coperto aperto al pubblico. E Roma l’unica capitale a non averne uno (esiste un progetto per l’Eur, ma sulla carta).
Quelli che ci sono vanno bene per i ragazzi: molti genitori preferiscono veder correre i figli in pista, in un ambiente protetto, piuttosto che saperli nel far west delle nostre strade. Ma a livello nazionale non c’è un’attività giovanile degna di questo nome. L’unico impianto con un tetto, per quanto periodicamente ci piova dentro, rimane quello di Montichiari, nel bresciano. Che però è un velodromo riservato alle nazionali. Di quei cinquanta e passa impianti, molti non sono agibili.
Come il velodromo degli Ulivi, a Monteroni di Lecce, che ospitò le gare del Mondiale nel 1976: è stata ristrutturata la pista, mancano i servizi. I lavori a Lovadina di Spresiano, per quello che veniva pomposamente annunciato come «il velodromo definitivo», sono fermi da tre anni, quello che c’è sta marcendo e i soldi rimasti nelle casse non sono più sufficienti per un impianto faraonico (6mila posti a sedere) e costosissimo, che doveva diventare come quelli di Londra, Parigi-Bercy, Berlino, Hong Kong: leggermente sovradimensionato per la campagna di Treviso. Il Vigorelli a Milano è stato restaurato ma è scoperto, e la pista non è a misura. A Padova il comune ha speso quasi un milione di euro per rimettere a posto l’impianto storico del Monti, ma ci sono soltanto 28 biciclette.
La geografia dei pistard
Di Padova è Silvio Martinello, 60 anni, campione olimpico nella corsa a punti ad Atlanta 1996. «È un paradosso molto italiano. Siamo in un’epoca particolarmente felice quanto a campioni e risultati, ma non abbiamo impianti di alto livello, a parte lo sgangherato velodromo di Montichiari che comunque non è a disposizione della società ciclistica». Gli ultimi Europei giovanili in Portogallo hanno evidenziato altri ragazzi molto interessanti (23 medaglie, 16 d’oro) che potrebbero prendere un giorno il testimone da Ganna e i suoi fratelli, eppure manca una programmazione, «è tutto lasciato alla buona volontà dei gestori di quei rari velodromi che funzionano, come Dalmine, Fiorenzuola, Pordenone, San Giovanni al Natisone, Portogruaro e Pescantina».
Una geografia chiara: Lombardia, Emilia, Friuli Venezia Giulia, Veneto. Per fare pista ad altissimo livello devi nascere nel posto giusto, e lo stesso non è una passeggiata. Quando Elisa Balsamo andava al liceo, a Cuneo, i suoi l’aspettavano fuori dalla scuola per portarla a Montichiari ad allenarsi: più di trecento chilometri all’andata, altrettanti al ritorno, e lei che studiava latino e greco sul sedile di dietro. Quest’anno si è laureata in lettere. I pistard si considerano fratelli, e tra loro funziona come in famiglia: il primo che prende la patente accompagna gli altri, gradualmente si diventa autonomi.
Quando non potevano andare a Montichiari, perché pioveva dentro, hanno cominciato a girare l’Europa per allenarsi. Marco Villa, il papà di tutti i pistard, quello che lo chiami a qualsiasi ora e si fa settanta chilometri per venirti ad aprire il velodromo e settanta a tornare, li aveva avvertiti: questa storia della pista non deve diventare un alibi. Come se uno potesse vincere nel nuoto senza avere una piscina, o diventare un campione di basket senza un canestro.
Ai mondiali di Glasgow - dove le date sono praticamente sovrapposte - Ganna e Milan hanno preferito la pista alla strada. Una decisione significativa, che però difficilmente ripeteranno dopo i Giochi di Parigi: il richiamo della strada rischia di diventare troppo forte. «Il segreto di questo gruppo - spiega Martinello, che in pista faceva coppia con l’attuale ct - è stata la capacità di Villa di coinvolgere nel suo progetto atleti di qualità, di sedersi al tavolo con loro e con chi li paga avendo quella credibilità che fa sì che squadroni come Ineos e Bahrain gli diano Ganna e Milan». Ma le pressioni perché concentrino i loro sforzi sulla strada - più redditizia e più popolare - sono enormi.
«Bisogna riconoscere - dice Martinello - che tecnici e federazione hanno creato una modalità operativa assolutamente efficiente. Mi sarei aspettato però che politicamente si usassero i risultati di Ganna e compagnia per attrarre i giovani e mettere in piedi una sorta di Pnrr ciclistico. Per dare quell’accelerata definitiva, sviluppare e sistemare gli impianti esistenti. Invece il pericolo è che i successi servano a nascondere la polvere sotto il tappeto. Dopo Sydney siamo stati 15 anni senza toccare palla, rischiamo che dopo i Giochi di Parigi succeda lo stesso».
© Riproduzione riservata