È il più antico degli apocrifi dell’infanzia. La prima parte del racconto (attribuito all’apostolo Giacomo), la più lunga, è dedicata agli eventi precedenti la nascita di Gesù. Alla natività di Cristo viene riservata la conclusione, più estesa comunque delle narrazioni nei vangeli canonici e in altri apocrifi
Le narrazioni più antiche della nascita di Gesù sono contenute nei primi due capitoli dei vangeli di Matteo e di Luca, scritti nella seconda metà del I secolo. Ma a queste si sono aggiunti racconti successivi: quelli dei vangeli cosiddetti apocrifi, da un termine greco che significa «nascosto», e per estensione «falso», non autentico, anche nel linguaggio comune.
Nonostante l’esclusione dal canone (l’elenco dei testi riconosciuti ispirati), gli apocrifi hanno avuto molto presto una diffusione e un’influenza vastissime nella tradizione cristiana, dalla liturgia all’arte e alla letteratura. Un successo strepitoso, che si spiega con una delle loro caratteristiche più evidenti: quella di integrare i vangeli canonici.
Il protovangelo di Giacomo
Protovangelo di Giacomo s’intitola il più antico degli apocrifi dell’infanzia. Il nucleo risale alla metà del II secolo e il titolo è stato scelto dal suo scopritore perché la prima parte del racconto (attribuito all’apostolo Giacomo), la più lunga, è dedicata agli eventi precedenti la nascita di Gesù. Alla natività di Cristo viene riservata la conclusione, più estesa comunque delle narrazioni nei vangeli canonici e in altri apocrifi.
Giuseppe è un vecchio vedovo con figli, e insieme a Maria, vergine e ormai vicina al parto, arriva con loro a Betlemme. Trovata una grotta, lascia la giovane moglie in compagnia dei figli ed «esce a cercare una ostetrica ebrea». Ma all’improvviso il testo cambia di passo, lasciando spazio a un brano in prima persona. Con un effetto sorprendente: sembra infatti che l’anonimo autore abbia davanti la scena di uno dei meravigliosi presepi napoletani così amati soprattutto dai bambini.
«Io, Giuseppe, camminavo e non camminavo», come in un fermo immagine. «Guardai nell’aria e vidi l’aria colpita da stupore; guardai verso la volta del cielo e la vidi ferma, e immobili gli uccelli del cielo; guardai verso la terra e vidi una pentola e degli operai seduti con le mani nella pentola. Ma quelli che masticavano non masticavano, quelli che prendevano il cibo non lo prendevano, quelli che lo stavano portando alla bocca non lo portavano; i visi di tutti erano rivolti a guardare in alto».
In alcuni manoscritti questo brano è abbreviato o descritto in terza persona, ma si presenta in prima persona in quasi tutti i codici greci: oltre 150, trascritti tra il IV e il XVI secolo, senza contare quelli, numerosissimi, delle antiche traduzioni – una decina, dal latino all’arabo, fino all’antico irlandese – che ne dimostrano l’enorme diffusione. Il testo in prima persona appartiene dunque al racconto originale.
Gli occhi di Giuseppe
Davanti agli occhi di Giuseppe compaiono altre figure, proprio come in un presepe affollatissimo. «C’erano delle pecore spinte avanti ma che non si muovevano: il pastore alzava la mano per percuoterle, ma la sua mano restava in aria. Guardai la corrente del fiume e vidi dei capretti con il muso nell’acqua, ma non bevevano. Poi, in un istante, tutte le cose ripresero il loro corso».
Il significato della scena è chiaro, perché la sospensione del tempo, il silenzio e l’immobilità sono motivi che nei testi antichi accompagnano la manifestazione del divino. In questo caso «l’arresto del creato all’arrivo del suo Creatore» scrive Luigi Moraldi, traduttore degli apocrifi per Piemme. Il primo presepe, sia pure letterario, con le sue figurine fermate per un istante, è insomma quello del Protovangelo di Giacomo: oltre un millennio prima del Natale a Greccio di Francesco d’Assisi, considerato l’inventore del presepe, quando l’iconografia della natività era già molto diffusa, sin dai sarcofagi della seconda metà del IV secolo.
A questo punto il racconto riprende. Aggirandosi nei dintorni di Betlemme, finalmente Giuseppe incontra un’ostetrica, e questa gli domanda chi sia la partoriente: «È Maria, allevata nel tempio del Signore. Io l’ebbi in sorte per moglie, e non è mia moglie, bensì ha concepito per opera dello Spirito santo» le risponde. Arrivati alla grotta, una «nube splendente» – o, secondo alcuni manoscritti, «oscura», in entrambi i casi segno evidente di una manifestazione divina – nasconde alla vista umana il parto miracoloso.
Poi la nube si dissolve. Splende una luce abbagliante e appare infine il bambino. Che, come tutti i neonati, cerca «la poppa di Maria, sua madre».
L’incredulità di Salome
Non è però finita. Uscita dalla grotta, l’ostetrica s’imbatte in una comare, Salome, e si affretta a raccontarle il miracolo della nascita a cui ha appena assistito. La donna resta ovviamente incredula: «Se non ci metto il dito e non esamino la sua natura, non crederò che una vergine abbia partorito». Maria acconsente docilmente alla prova. Ma la verifica della sua verginità è seguita da un terribile prodigio: la mano di Salome viene divorata dal fuoco.
«Guai alla mia iniquità e alla mia incredulità, perché ho tentato il Dio vivo ed ecco che ora la mia mano si stacca da me, bruciata» grida la donna. E prega: «Non fare di me un esempio per i figli di Israele, ma rendimi ai poveri». Appare allora un angelo ed esorta Salome a prendere in braccio il neonato per esserne guarita. Così avviene, ma una voce l’avverte di «non propalare le cose meravigliose che hai visto sino a quando il ragazzo non sia entrato in Gerusalemme».
Trasparente è l’intenzione dell’apocrifo: quella di affermare la verginità di Maria, il carattere prodigioso della nascita di Gesù e la sua divinità. L’incredulità di Salome è così messa in parallelo con quella di Tommaso narrata alla fine del vangelo di Giovanni.
Dopo la crocifissione e la risurrezione, Gesù appare ai discepoli, ma l’apostolo è assente. «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» dice. Come avviene otto giorni dopo, quando Tommaso riconosce Gesù – «mio Signore e mio Dio!» – e Cristo commenta: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto».
La divinità di Cristo
In modo ingenuo e al tempo stesso efficace l’apocrifo rilegge e integra i vangeli canonici dell’infanzia (quelli di Matteo e di Luca). Ma il protovangelo intende anche rispondere alle obiezioni calunniose sulla nascita di Gesù come figlio illegittimo di Maria e di un soldato romano, Pantera: leggende che già secondo il filosofo pagano Celso – che scrive intorno all’anno 178 e viene confutato qualche decennio più tardi da Origene – erano diffuse in ambienti ebraici.
La divinità di Cristo, rivelata da allusioni al destino tragico e necessario della sua vicenda terrena, è chiara fin dalla nascita. Allusioni che si ritrovano anche nei primi capitoli di Matteo e di Luca: dalle fasce che stringono il neonato nella mangiatoia – e vengono accostate dai commentatori cristiani ai teli sepolcrali che avvolgeranno il suo corpo crocifisso – alla strage degli innocenti.
Fino alla parola che, secondo l’evangelista Luca (2, 34-35), il vecchio Simeone rivolge a Maria quando il piccolo Gesù viene presentato al tempio: «È qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele, come segno di contraddizione, e anche a te una spada trafiggerà l’anima». Il messia appena nato – scrive il biblista protestante François Bovon nel suo esaustivo commento (Paideia) – sarà un messia sofferente, «e sua madre parteciperà alle sue sofferenze».
La «natività di Maria»
Proprio alla giovane vergine e alle sue origini il Protovangelo di Giacomo, ripreso più tardi dal Vangelo dello Pseudo-Matteo, dedica la prima parte, quella più amata nella tradizione cristiana. La storia della «natività di Maria» – questo il titolo originale del protovangelo – entra infatti nella devozione, nella liturgia, soprattutto orientale, e nell’arte. Secondo il racconto Maria è la figlia desideratissima dei vecchi Gioacchino e Anna, protagonisti davanti alla Porta d’Oro del bacio più bello mai dipinto, quello affrescato da Giotto a Padova, nella cappella degli Scrovegni.
«Anna se ne stava sulla porta, e vedendo venire Gioacchino, gli corse incontro e gli si appese al collo esclamando: “Ora so che il Signore Iddio mi ha benedetta molto”» racconta il protovangelo. La nascita di Maria, sia pure da genitori ormai avanti nell’età, non è dunque prodigiosa ma frutto delle loro preghiere, come altre narrate dalla Bibbia ebraica. Consacrata a Dio, a tre anni la bimba viene presentata al tempio – altro tema iconografico frequente – e vi è allevata finché viene il momento di darla in moglie al vedovo Giuseppe. E qui la narrazione dell’apocrifo si riaggancia a quelle, più note, dei vangeli canonici, che il protovangelo rilegge e integra.
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