La mattina in cui è morto, papà ha pedalato accanto ai binari e alla gente lì per rubare il rame e poi sotto il cavalcavia ma la sua bicicletta non è arrivata oltre. Quando il cuore gli si è fermato, ha lasciato il manubrio e la bicicletta è caduta qualche metro prima dell’ufficio delle poste
La mattina in cui è morto, mio padre si è svegliato alle cinque e trenta, come gli ho visto fare ogni giorno da quando sono nato. A quell’ora non sono sempre alzato, ma anche quando me ne resto a letto, le orecchie mi dettano tutti i passaggi del suo risveglio. Scende dal lato destro del letto, trova sotto i piedi le ciabatte di sughero e spantofola fino al bagno. La parete del bagno è la stessa contro cui poggia il lato lungo del mio letto: così, quando papà svuota la vescica nel water, io posso ascoltarlo e fare delle scommesse tra me e me, nel dormiveglia, sulla durata della sua pipì. A volte vinco, altre mi stufo prima.
Sul bordo del lavandino papà tiene due pezzi di sapone duro: con uno si lava là sotto, con l’altro le ascelle, le mani e la faccia. Poi si asciuga e se ne torna nella sua stanza da letto, provando a non svegliare mia madre che gli dorme accanto. Dall’armadio, pesca camicia e pantaloni di cotone. Se la temperatura scende, indossa una giacca.
Ma non la mattina in cui è morto: l’aria appiccicosa di settembre da qualche giorno è un alito caldo che sale dall’asfalto raccogliendo lo smog, i tubi di scappamento delle auto, gli odori del cortile condominiale – bidoni della spazzatura aperti, gerani che perdono gli ultimi petali, cacche di cane – e si infila fino dentro il nostro appartamento al dodici, scala A, quinto piano.
La casa, papà l’ha avuta dal Comune quando sono nato io e dopo tredici anni ancora mia madre si contorce le dita delle mani dicendo che arriverà, prima o poi, il momento in cui ce la toglieranno. Ci viviamo dentro in pochi, secondo lei: «Non ce la lasciano tenere. Un giorno ce li troviamo a battere contro la porta e allora ti saluto, vedi dove andiamo a stare tutti e tre quanti siamo». E quando dice così non capisco se in tre, quindi, noialtri siamo troppi o troppo pochi: ma non glielo domando, a mia madre, sono cose che tengo per me.
Sul fornello, in cucina, c’è la moka piena del caffè che papà prepara sempre la sera prima; dopo averne bevuto una tazzina amara, esce di casa alle sei in punto. La sua bicicletta è legata nel cortile condominiale. Di lavoro fa il postino, anche se non ha mai vinto il concorso: l’impiego gliel’ha dato il direttore delle Poste in persona, Dino Scarpa, che porta sempre la cravatta su una camicia a righe con le maniche corte; un giorno ha convocato papà e gli ha chiesto se voleva da lavorare, tanto di consegne in quartiere se ne fanno tante.
I soldi glieli dà ogni mese dentro una busta gialla di quelle che usano loro all’ufficio postale. Le Poste si trovano in via Buozzi, alla fine del cavalcavia, davanti la stazione, dove fanno capolinea gli autobus per il centro. Per arrivarci, da casa nostra, bisogna seguire i binari lungo un sentiero stretto di cemento polveroso e spazzature: mia madre dice che è pericoloso andarci in bici, perché non sai mai cosa può uscire dai mucchi di rifiuti, topi e qualche volta persone.
L’ultima mattina
La mattina in cui è morto, papà ha pedalato accanto ai binari e alla gente che si trova lì per rubare il rame e poi sotto il cavalcavia, ma la sua bicicletta non è arrivata oltre. Ho ascoltato mio padre pisciare, lavarsi e bere il caffè ma non ho sentito il suo cuore accelerato, ottanta battiti al minuto, hanno detto i medici. Dicono che i dolori al petto sono durati dieci minuti, prima di raggiungere la schiena, il collo e le braccia, pesanti come quando ti porti dietro uno zaino troppo grosso.
Sotto il cavalcavia è tutta discesa e – se sei bravo a stare sulla bici – puoi farti metà strada senza muovere i pedali: quando il cuore gli si è fermato, papà ha lasciato il manubrio e la bicicletta è caduta di lato qualche metro prima dell’ufficio delle poste, lasciandolo sul cemento della piazza attaccata alla stazione.
In tutto mio padre ci ha messo quindici minuti per morire, lo hanno riferito i medici. La metà di quanto impiega per prepararsi la mattina. Non lo dico a nessuno, ma io lo so meglio di chiunque, perché gli ultimi minuti della sua vita li ho passati ad ascoltarlo pisciare.
Mamma dice che di notte sente viaggiare la risata di papà per le stanze, insieme all’aria appiccicosa che sale dall’asfalto di città. Non è mai stato facile vedere mio padre divertito oppure di buon umore: si lagnava ogni sera dei dolori alle ossa, bestemmiava quando si tagliava con un coltello sbucciando la frutta, batteva i pugni sul tavolo se io e mia madre non ci eravamo rivolti a lui con rispetto.
Però durante certe serate d’estate si fermava sveglio in cucina fino a notte fonda – solo la luce della televisione a illuminare e spegnere la casa – per guardare vecchi film comici con Walter Matthau, seduto al tavolo, con i gomiti appiccicati alla tovaglia cerata. In quelle sere, dal mio letto, lo sentivo ridere come non mai. Stanotte ho ascoltato mamma alzarsi e andare lei in cucina, o almeno credo, non ne sono certo: al contrario di papà, è così silenziosa che quando cammina sulle piastrelle non sembra neppure toccare con i piedi per terra. Secondo me si è seduta al tavolo e ha pianto un po’, pochissimo, con dei piccoli singhiozzi simili al suono di una porta che cigola. Dopo cinque minuti, è tornata a letto.
Papà, quando passava in corridoio, si accorgeva sempre se non stavo dormendo; si fermava a fianco al mio letto e, anche dandomi le spalle, lo sentivo mormorare: «Ancora sveglio? Guarda che domani suona pure per te la sveglia». Mamma, invece, torna nella sua stanza senza guardarmi, ma prima si ferma davanti alla porta ad asciugarsi la faccia: con gli occhi puntati contro la sua schiena ho provato quel gioco, quello che se fissi una persona troppo a lungo, poi lei si volta.
Conto uno, due, tre, quattro ma niente, non funziona. Mia madre dice sempre che questo mio letto in corridoio è un intralcio e che in un’altra casa avrei una stanza tutta per me, che sono grande ormai; ogni volta che ha questa pensata io ringrazio il fatto che siamo poveri, così posso restare a dormire nel mio letto. A pranzo mamma voleva restare io e lei, a mangiare così come viene, che se c’è una cosa che proprio non ha voglia di fare adesso è cucinare. Ma zio Armando ha deciso che questi momenti vanno passati in famiglia e così adesso a tavola c’è il minestrone di verdure, con il pane fresco del forno, di cui nessuno ha voglia. La sedia di papà, di solito accanto alla mia, tiene aperta l’anta della finestra. Zio Armando mi chiede come va a scuola.
«Bene, ho la media dell’8».
«Il lavoro che ti scegli, sarà meglio che ti dia abbastanza soldi per vivere. Ascolta a me». Non aggiunge altro, si mette a raccogliere dal tavolo briciole di pane con la punta del dito e se le mette in bocca. Guarda me e mia madre, poi guarda sua moglie e scuote la testa.
Zia Flora è sempre in un mondo suo, dove nessuno può raggiungerla. Mamma non mangia. Zio Armando non le piace. Lui il lavoro ce l’aveva, controllore sui treni, ma siccome è molto più grande di papà è già in pensione; la casa che danno ai ferrovieri può tenersela anche se non lavora più ed è grande e bella, dice mia madre “una casa vera”, e io non lo dico ma penso che forse è per questo che zio Armando e zia Flora non ci invitano mai da loro.
Al bar
Quelli delle pompe funebri arrivano che ancora siamo a tavola, all’una, un’ora prima del previsto. Un uomo si presenta a zio Armando e a mia madre: «Sono Scotta, il titolare. Condoglianze. Lei è la moglie? Condoglianze signora».
Con lui ci sono due uomini più giovani, indossano un camice bianco sopra gli abiti neri. In camera da letto spogliano papà e iniziano a spalmargli creme gialle sulla faccia, sul collo, sul torace, sulle braccia. Il signor Umberto dice che il funerale sarà domani alle undici, zio Armando si volta verso di me: «Vai al bar di Solario e avvisa tutti. Per chi vuole venire, appuntamento domani ore undici. Ma mi stai sentendo?».
Il corpo di papà è steso, in mutande, dentro la bara. Il suo volto, sotto vari strati di cerone, è diventato azzurro.
«Gli mette il trucco, come a una femmina».
«Non ti devi impressionare, fanno il loro lavoro. Preparare i morti è importante, sai? Questa faccia che vediamo oggi è l’ultima cosa che ci ricorderemo di lui».
Il naso azzurro di papà è una puntina aguzza sotto il pennello dell’uomo con il camice.
«Allora voglio decidere io come deve fare il viso di mio padre. Non lo voglio così azzurro, deve essere una faccia normale».
Il truccatore nemmeno sembra sentirmi e continua ad agitare il pennello sotto le narici di papà. Lo zio mi prende per le spalle e mi spinge fuori dalla stanza: «Ma che vuoi decidere tu, lo stabiliremo io e tua madre come farlo sistemare. Adesso vai al bar di Solario, e vedi di arrivare entro le sei, che dopo non ci trovi più nessuno».
Sulla bici di papà, inizio a pedalare. Il sellino è alto, il pedale leggermente svitato e la ruota storta. La mattina che mio padre è morto, alle orecchie di qualcuno già sveglio, deve essere arrivato il suono della sua caduta. Hanno chiamato i poliziotti e l’ambulanza, hanno chiamato mia madre e lei ha chiamato me. Le mancava il fiato e la voce le si interrompeva a ogni parola, come quando non c’è linea al telefono.
Non mi è venuto di mettermi a piangere – avrei solo peggiorato le cose, ansiosa com’è mamma – ma adesso me ne pento. Ho sentito zio Armando dire a mia madre: «Ma è normale che l’ha presa così, glielo hai spiegato bene il fatto di suo padre? Se serve aiuto, ci posso parlare io. Da qui in poi sono sempre a disposizione, lo sai». Mamma gli ha detto che di stare buono che a me ci pensa lei. «Ha i suoi tempi, è sempre stato così, e sicuro tutta ‘sta confusione che ha attorno non aiuta. Ci vorrebbe un poco di tranquillità, per lui e per me pure».
Mi spiace non avere pianto. Mi pare che così la faccio preoccupare di più mia madre e che, insieme a tutte le altre cose che deve fare, adesso le tocca anche levarsi di torno zio Armando.
Davanti al bar di Solario trovo posto in una rastrelliera, ma non sto a legare la bici, tanto rimango poco. L’entrata principale è nella piazza della stazione e guarda la P dell’ufficio postale. Il bar è quasi vuoto. Ci sono un paio di uomini che leggono il giornale in piedi contro il bancone: non li conosco, non li conosceva neppure papà, forse è gente che deve prendere il treno; da quando partono da qui gli intercity veloci, al bar di Solario ci si trovano persone mai viste. Vittorio Solario non è al suo posto e, quando mi affaccio oltre il bancone, incontro gli occhi di un vecchio, seduto su una sedia a rotelle, che mi guarda curioso da sotto le sopracciglia a cespuglio. Una cinghia lo tiene legato sotto la pancia, per non farlo alzare, e ha una sciarpa gialla al collo, nonostante il caldo.
«Quanti anni hai tu». La sua voce somiglia a una stanza vuota.
«Tredici».
Allunga verso di me il collo da tartaruga. Penso che non abbia sentito, così parlo a voce più alta, scandendo meglio: «Tre-di-ci».
Vittorio Solario emerge da una porticina dietro il bancone e viene verso di me, grattandosi la testa pelata: «Ah sei tu, sei qua. Povero ragazzo, che disgrazia». La sua voce grossa attira l’attenzione degli uomini con il giornale, che si girano a guardarmi.
«Dice mio zio Armando che l’appuntamento è domani alle undici qua alla piazza».
«Vuoi qualcosa? Offro io». Non è nemmeno una domanda, e comunque no non voglio niente e glielo dico. Solario toglie il freno alla carrozzina dell’uomo con la sciarpa gialla. Mi dà le spalle e spinge il vecchio davanti alla porta del bar. «Avanti papà. Mettiti qua, prendi un poco di aria fresca». Scuote la testa. «Poveracci questi padri nostri, che brutta fine». Vorrei dire che poveraccio sarà quel vecchio e non mio padre, mio padre era giovane fino all’altro ieri e gli svuotava il bar un bicchiere per volta a Solario; ma queste cose le solo nella mia mente, non nella realtà, e così il barista torna al suo posto. Annuisce non una, ma due volte: «Quindi alle undici, capito. Condoglianze a tuo zio e a tua madre. Che disgrazia, povera donna».
Il vecchio con la sciarpa gialla, all’ingresso, solleva di nuovo gli occhi su di me: «Tredici anni. Minchia».
Ci scommettevo che, anche senza catena, non se la rubava nessuno la bicicletta di papà: e poi non ho la chiave del lucchetto, deve essere rimasta nella sua giacca o in una tasca dei pantaloni.
Il funerale
Papà non era credente, ma guardava tantissimi film sulle storie della Bibbia: quelli che fanno in seconda serata, dove Dio se la prende con Mosè, in cima alle montagne, o dove Gesù viene tradito, frustato e infilzato. Dio appassionava mio padre solo al cinema.
Zio Armando ha organizzato un piccolo funerale nella piazza accanto alla stazione. Oggi l’ufficio postale è chiuso, il direttore Dino Scarpa ha dato a tutti gli impiegati il giorno libero ma qua ci è venuto solo lui: indossa una camicia a righe e la cravatta, come sempre, ma con il vestito nero. La gente si avvicina allo zio, a mia madre e a me da tutte le direzioni e noi restiamo in piedi a stringere mani e a sentire condoglianze qua e condoglianze là.
Zio Armando ha deciso che devo aiutare a sostenere la bara: “Pesa”, mi dice, lo sanno tutti che pesa, ma ci tiene che sotto ci sia anche io insieme a lei e a certi tipi grossi che si è portato dietro Scotta delle pompe funebri. Infiliamo la bara dentro il bagagliaio della macchina nera. Zio Armando si avvicina e mi dice ben fatto, anzi mi dice: «Ben fatto. Così si fa in famiglia». Ma a me non sembra fatto bene proprio niente.
Mamma adesso piange e io mi sento tutto sullo stomaco. La colazione di oggi, la cena e il pranzo di ieri, ogni cosa che ho mangiato dalla mattina in cui papà è morto. Ma sullo stomaco ho anche le lacrime a singhiozzo di mia madre e le mie, invisibili, che non riesco a cacciare fuori. Il palmo umido di mamma sulla mia spalla, il peso del suo corpo addosso. Le dita che le tremano, i pugni che stringo in tasca. La voce di zio Armando, che vorrei non sentire più, e che invece continua a ripetere una, due, tre volte che l’ultimo ricordo di papà, l’ultimo suo ricordo sarà la faccia azzurra dentro la bara o l’immagine sulla pietra mentre la cassa da morto si infila nel muro e viene cementata.
Crede di dire una cosa intelligente, zio Armando, e quindi va avanti all’infinito e ancora. Ma io mi sono rotto le palle di sentirlo, stavolta basta davvero, e quindi gli urlo sta’ zitto cazzo, te lo ha detto anche mamma di lasciarci in pace ma che vuoi chi ti ha chiamato non lo volevamo nemmeno il funerale perché ci hai costretto. Solo che queste cose non le dico davvero, le penso. Mi scoppiano dentro la mascella da quanto le sto trattenendo in bocca. E le lacrime non ci sono davvero, perché le ricaccio indietro, mordendomi l’interno della guancia per non farle uscire, per non pensare a quello che dice zio Armando della faccia di papà.
Non ero ancora tornato a casa dal bar di Solario quando hanno chiuso il legno, e non ho potuto vedere come l’hanno fatto alla fine. Il volto azzurro, viola, rosso come quando beveva o rosa normale, come volevo io e come voleva mamma. Non sono d’accordo nemmeno con la foto che hanno scelto per la lapide: qui papà sembra pallido e magro, lui che non era una né l’altra cosa.
Quando la notte si alzava dal letto, per andare a pisciare, contavo i minuti che passavano prima di vedere la mamma fare anche lei capolino dalla loro stanza: «E fai piano con quei piedoni, che ti sentono tutti di sotto e poi la mattina mi tocca a me ascoltarli sulle scale che sparlano». Si mordeva la mano, mentre lo diceva, e gliela puntava contro come un cucchiaio di legno.
Papà rideva e, se mi trovava con gli occhi aperti, si fermava accanto al mio letto: «Che è, anche tu non dormi perché faccio casino?».
«No, io ero già sveglio di mio».
Ma la verità è che a me la notte, la mattina mi ha sempre addormentato e svegliato mio padre. Anche se non gliel’ho mai detto.
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