Davanti, bassa e lontana, c’è una radura che nasconde il fiume. Vado piano perché la strada è sconnessa. Mi accorgo che mi vuoi chiedere se so dove stiamo andando, ma non lo fai.
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Il treno è fermo da un’ora per un guasto. A nessuno nello scompartimento sembra importare. Dopo cinque o sei avvisi confusi, di punto in bianco, hanno aperto le porte, e parecchi sono scesi per fumarsi una sigaretta. Scendiamo pure noi, portandoci dietro le borse, e camminiamo fino alla prima stazione. Qui si ferma un treno ogni dieci.
A giudicare dalla polvere e dallo stato d’abbandono il bar è chiuso da un paio d’anni. C’è perfino una sala d’attesa, assurdamente divisa in prima e seconda classe, ma è vuota.
Il paese è tutto ai lati della strada, Strada Ab, che nome del cavolo. Fa freddo, vediamo l’insegna blu di un bar-ristorante-tabacchi duecento metri più avanti, ma senza nemmeno guardarci ci infiliamo nel buio ingresso dell’albergo Italia. Non c’è la reception, ma un tavolone basso ingombro di pacchi di pasta, scatolette per cani e un faldone zeppo di bollette.
A parte il rumore di stoviglie dalla cucina, sembra che non succeda nient’altro qui dentro. Sul tavolo c’è pure un campanello d’ottone mangiato dagli anni. Premo il pulsante cercando di attutirne il suono.
Dal corridoio che porta alla cucina sentiamo venire dei passi, preceduti da un botta e risposta di cui non capiamo niente.
«Volete una stanza?» fa la signora, mentre si sistema il grembiule, e dopo averci squadrato.
«S’è fermato il treno, eh?» dice subito dopo il marito con gli occhi bassi sul nodo che le sta facendo dietro.
«Quanto state?»
Ci guardiamo e non facciamo in tempo a rispondere perché il marito dice: «Che ti importa quanto stanno, ce lo diranno domani».
«Vi do la 104, la più bella di tutte. Andatevi a sedere lì, che lui vi prepara un caffè o un tè mentre vado su a da’ una sistemata».
Fugge via verso le scale, e noi sentiamo lo sciabordare delle pantofole sulla moquette e dei piedi nelle pantofole. «Accendigli il fuoco a ’sti ragazzi, e pure la caldaia» urla da sopra.
Il vassoio di latta con la pubblicità della Peroni e le tazze giganti arriva poco dopo.
«Aspettate che do una pulita al tavolino».
Si ripresenta con uno strofinaccio che sa di menta e un altro vassoio con un pacco di fette biscottate del Carrefour e un barattolo di marmellata cominciato. Lo guardiamo fare mentre dondoliamo la bustina di tè nell’acqua bollente.
Hanno acceso il riscaldamento per noi. Non vedendoci scendere, alle tre la signora ci ha portato il pranzo in camera.
«So’ le stesse cose che abbiamo mangiato noi, non fate complimenti».
Il giorno dopo il marito ci presta la macchina. Ci dice cosa andare a vedere, si raccomanda di non fare tardi per pranzo. Andiamo dove ci ha detto: alla Cascata delle Marmore. Ci ha dato due impermeabili da pescatore. Perché se vogliamo goderci lo spettacolo, dove il Velino ha il massimo impatto sul Nera, dobbiamo mettere in conto di bagnarci.
In macchina mi stai appiccicata alla spalla e canticchi qualcosa, io cerco di stare attento alla strada ma tanto so che ci sei tu che rimedierai ai miei errori.
A un certo punto ti accorgi che abbiamo girato dove non dovevamo. È una stradina fangosa che si incunea in un campo giallo canarino di sterpi rinsecchiti.
Davanti, bassa e lontana, c’è una radura che nasconde il fiume. Vado piano perché la strada è sconnessa. Mi accorgo che mi vuoi chiedere se so dove stiamo andando, ma non lo fai.
Hai smesso per un attimo di canticchiare. Mi guardi. Io ti guardo con la coda dell’occhio e vedo che sorridi. Hai lo sguardo disteso. Non so dove andare ma davanti a noi c’è un bel paesaggio. Il sole si fa strada tra le nuvole. È un grigio diverso qui. In lontananza si sente l’impeto dell’acqua e anche se il riscaldamento è al massimo i vetri continuano ad appannarsi.
Penso: rimani così per sempre.
Intanto la macchina ballonzola e le ruote non hanno una gran presa. Sono costretto a rallentare un po’. Allo sterrato si è sostituita una viuzza lastricata di ciottoli bianchi lisci, segno che siamo prossimi al fiume.
Le macchine dei pescatori sono tutte parcheggiate davanti al faggeto. Qualcuno sta dormendo nell’auto, chissà se perché è già soddisfatto della pesca oppure perché vuol dare il massimo prima di pranzo, quando gli amici saranno stremati dall’alzataccia.
Giro a sinistra per allontanarci da loro e proseguo, credo, parallelo al fiume e controcorrente.
Come una bambina urli: «Eccola», e ti sbracci per indicarla.
Ti stacchi da me e giri il busto di tre quarti dandomi le spalle, rallento quel poco che c’è da rallentare e visto che siamo in leggera salita aziono il freno a mano. Mi giro verso di te, verso la tua mano ancora sospesa, e occupo la posizione che avevi tu su di me. Mi appoggio alla tua spalla sinistra, facendomi spazio accanto al bavero del cappotto e alla sciarpa che avevi sciolto e che ti cala sul petto. Ora posso seguire la direzione del tuo indice, posso dare forza al tuo sorriso.
Al di là del fiume, un paio di chilometri oltre la radura, si vede la cascata. Quando la guardiamo, pur in quell’abbraccio dolcissimo, una folata di aria gelida sembra sferzare il veicolo, un ringhio o un richiamo all’ordine. La neve increspa le cime delle montagne, dalle cascine oltre il fiume si sentono i rumori della campagna.
Immaginiamo due campagne diverse in quel momento. Tu i Paschi, il reticolo di stradine segrete, e la geometria dei sassi dei casolari, la levità dei pendii che hai percorso da piccola e che continui a percorrere ora.
Io la casa dei miei nonni, le giravolte del nostro cane, Dear, e generazioni di gatti eterni a cui era vietato entrare in casa.
Anch’io ho un paio di sentieri che ho percorso per trent’anni. Adoro quello che attraversa il boschetto di castagni e meli selvatici fino alla rete che delimita la proprietà. Proprio su quel confine mi divertivo a scendere il declivio che portava alla provinciale e, una volta attraversata, arrivavo al canale di irrigazione.
Noi bambini eterni sognavamo di pescare lì, ci inventavamo storie di pesci giganti che avevamo visto spuntare dall’acqua.
Mentre affondo il viso nei tuoi capelli penso che anche tu hai avuto il tuo ruscello, il tuo confine da passare e un corredo di storie da imbastire.
Il tuo braccio si abbassa lentissimo, si piega e serra ancora più forte il mio attorno a te.
Quel poco di nebbia che prima ci impediva di distinguere certi particolari se ne è andata e il paesaggio oltre il fiume comincia a tingersi.
Quello che pensiamo lo teniamo per noi, ma ci accorgiamo che nel salto del Velino che abbiamo di fronte c’è qualcosa che ci riguarda.
«Tra un po’ andiamo dove ci ha detto. Ora voglio restare così» lo dico per essere sicuro che è tutto vero, che potevo pure rovinare un silenzio così bello, che siamo lì, al cospetto di un fiume, con il rumore della cascata che ci entra nella pelle, la brina che s’attacca ai vetri, con una voglia di fare l’amore che ci scava da mesi. Sto per girarti verso di me, per trascinarti su questo sedile, consapevole che il volante ci darà fastidio ma non ce ne accorgeremo, e mi ripassa nella mente tutto ciò che vorrei vedere nei tuoi occhi, nell’angolo del tuo sorriso: la lezione, il tuo saggio di fine corso, una mail, una distesa di messaggi, la prima grande delusione, un elenco inconfutabile di motivi per lasciarsi scivolare tutto addosso, e poi l’abbraccio al mercato delle pulci, le impennate e i silenzi, e momenti come questo qui, davanti a una cascata, in una macchina che ci hanno prestato, con due impermeabili verde marcio che ci stanno due volte sul sedile posteriore, con questo odore di carbone che invade l’abitacolo.
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