Per parlare dell’attualità di Thomas Bernhard basterebbe sedersi nel corso principale della città in cui si vive e aprire l’incipit della sua Autobiografia – cinque testi che Adelphi ha finalmente pubblicato in un unico volume a prezzo popolare – e leggere la sua perentoria descrizione di Salisburgo: «Questa città è popolata da due categorie di persone: gli affaristi e le loro vittime». Alzo gli occhi, mi guardo intorno: ancora una volta ha ragione lui. 

Naturalmente non è della mia città che parla Bernhard, ma nella descrizione della sua io ci vedo la mia perché così funziona la letteratura e così funziona in particolare Thomas Bernhard: leggerlo significa impiantarsi in testa, a tempo più o meno indeterminato, un demonietto ciarliero e inappellabile, un grillo parlante che ti sussurra nell’orecchio che il re è nudo, la tua città di fanfare e proclami in fin dei conti è questo, la Salisburgo del 1943 o la Vienna del 1965 non è diversa da una qualunque città europea del 2024: un raduno di inconsapevoli violenti, una giungla, il teatro di una lotta, «una gigantesca industria dell’idiozia», e così via, destrutturando e picchiando duro, con quella capacità che solo lui ha di svolgere ossessivamente un filo tirandosi via una cosa dopo l’altra fino a quando non viene giù tutto: città, regione, stato, nazione, governo e governi, chiese, religioni, culture, tutto rovesciato da pochi giri di frase. La realtà, stringi stringi, è sempre il teorema di un inferno. Una trappola.

Tutto è inferno 

Zanzotto una volta ha scritto che non c’è niente di umano che non possa essere ricondotto a un goringhio, a un aorgh, a un uah, a un vu vu vu; tutto, anche la poesia, anche i rotti cancelli dell’alba, anche i soli che urtano fili di ciglia. Bernhard fa così: ti mostra che tutto è goringhio, strepito, violenza concertata e mascherata, tutto è congiura ordita contro l’uomo – insomma tutto è inferno. Ogni speranza di salvezza in tutto questo è molto flebile. Eppure (questo è il miracolo quasi farmacologico che ogni lettore di Bernhard conosce bene) lui te la fa desiderare con un’intensità impareggiabile.

Di Bernhard si può dire quello che Francesco De Sanctis diceva di Leopardi: «Produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto».

Andrà detto, in questi tempi di etiche conclamate e buoni sentimenti: niente come il Negativo spinge alla forza, all’energia, alla vitalità; niente come il Negativo alza fino alla combustione la temperatura del pensiero.

Quali siano i temi preferiti di Bernhard è facile dirlo, perché ne ha uno solo: il dolore. Per tutta la vita e in ogni frase della sua opera, Bernhard si è rifiutato di accettare la sofferenza; con una tenacia che hanno solo i bambini (e gli ossessivi) ha usato la pagina per mettere sul vetrino disperato del microscopio un dolore che ha sempre ostinatamente ritenuto inaccettabile. Che l’uomo soffra, e che io soffra così tanto, è uno scandalo che non può e non deve passare in cavalleria.

Bernhard passa per uno scrittore cinico ma è tutto il contrario: è puerile, testardo, implacabile; un bambino capriccioso e geniale, un impunito di talento, uno che per tutta la vita ha scritto opere con il solo scopo di chiedere ragione di quello che non gli andava bene.

La sua autobiografia – l’autobiografia, diciamolo, più bella del Novecento, forse la sola grande alternativa alla Ricerca del tempo perduto di Proust – non è una confessione o una testimonianza ma un patibolo, un tribunale folle dove l’intera civiltà europea viene chiamata a giudizio. L’intero occidente è per Bernhard una congiura contro la felicità umana. O, se non altro, contro la sua.

Catalizzatore di conoscenza 

Si dice spesso che Bernhard è lo scrittore dell’odio, e che – proprio per questo – leggerlo costituisce sempre una passione passeggera; dopo un po’ stanca, è una frase che si sente spesso quando si parla di lui. Ma questa fedeltà al proprio assunto è esattamente la ragione per cui Thomas Bernhard è così indiscutibilmente grande: è uno tra i pochissimi in scrittori a tentare l’uscita dal romanticismo, dal patetismo, dall’idolatria dei sentimenti.

Difficile immaginare un autore capace di scrivere, fra narrativa e teatro, quasi cinquanta opere, senza che nessuna contenga uno straccio di Storia d’Amore. Thomas Bernhard è l’unico scrittore che ha dato all’Odio più spazio, più dignità, più importanza che all’Amore. È un gesto sovversivo, una rivoluzione copernicana.

L’odio – la più disprezzata e criminalizzata di tutte le passioni – in Bernhard diventa un formidabile catalizzatore di conoscenza, una forza con cui scorticare un lembo di mondo fino alla carne viva che c’è sotto. Un odio, diciamolo, appassionato e radicale proprio come un atto d’amore. Ma cifrato, diverso. Inconfessabile. Bernhard dovrebbe essere il padre fondatore, il santo protettore degli haters: il teorizzatore dell’odio come la forma d’amore più adatta ai nostri tempi, quella che l’ipocrisia del contemporaneo ci fa meritare.

Piena di bugie

Sbaglierebbe chi pensasse all’Autobiografia di Bernhard come a un’opera di “verità”, un qualche primitivo esempio di autofiction. Ne ha solo l’apparenza. L’autobiografia di Bernhard è piena di bugie, costellata di iperboli e deformazioni surreali come qualsiasi suo romanzo d’invenzione, dove in fondo a parlare sono sempre delle controfigure, attori che impersonano sempre lo stesso personaggio: lui, l’Autore, e la sua disperata rivolta contro il cosmo.

Ma questo non vuol dire che non sia vera. Anzi: proprio come accade nella Recherche, la mistificazione della realtà biografica ha lo scopo di rendere più visibile il meccanismo che la domina. Nomi troppo propri, circostanze troppo specifiche, situazioni troppo personali rischierebbero di inquinare la ragione principale del lavoro: mettere a nudo il Congegno. A Bernhard non interessano i fatti, ma l’ingranaggio che li governa: quella concomitanza di circostanze apparentemente casuali che trasformano un’esistenza normale in un dispositivo di dolore.

Non c’è altra finalità, nessuno scopo etico o estetico o politico al di fuori di questo: far deflagrare pubblicamente il proprio dolore, come una cavia da laboratorio a cui qualcuno abbia dato una voce e un microfono; un esemplare umano che, dal suo folle speaker’s corner letterario, strepiti la sua invettiva a nome dell’intera specie contro tutto ciò che leopardianamente gli è “matrigno”: la città, la società, la storia, la cultura, la natura. Inutile sarebbe elencare i suoi avversari: gli austriaci, naturalmente, ma anche i tedeschi, gli inglesi, gli italiani, gli americani, e così anche molte altre nazionalità; lo sport, i parchi pubblici (il Prater soprattutto), le guide dei musei, i monumenti, Dürer, Heidegger, Stifter (e diversi altri); i padri, le madri, gli zii e le famiglie in genere; i testi teatrali, i testi romanzeschi, i testi poetici, i testi filosofici e in generale tutti i testi artistici, con la quasi totale eccezione di Montaigne e Voltaire – tutti ingranaggi di quell’eterna fabbrica d’inferni che è la società civile: «Sempre, in una collettività, si va in cerca di una vittima e poi la si trova, e se per caso costui non è già una vittima a priori, comunque si fa in modo che diventi una vittima. (…) La società non si dà pace fino a quando uno dei suoi membri, pochi o tanti che siano, non viene prescelto come vittima e non diventa, da quel momento in poi per sempre, l’individuo contro il quale tutti, in ogni circostanza, puntano il loro indice fino a trafiggerlo. La comunità trova sempre l’individuo più debole e senza farsi alcuno scrupolo lo espone alle sue risate di scherno e ai suoi torturanti sarcasmi e dileggi, i quali si rinnovano ogni giorno e ogni giorno diventano più atroci».

Questo non è il discorso di un cinico, ma la lamentazione di una vittima. A un mondo brutale ed espiatorio, Thomas Bernhard chiede giustizia.


Autobiografia (Adelphi 2024, pp. 574, euro 16) di Thomas Bernhard

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