Il caso del “ricercatore fantasma”: Luciano Lattanzi, 62 anni, dal 1997 è ricercatore dell’Università di Urbino, nel dipartimento di Scienze applicate. Dal 2003 non si è più fatto vedere in laboratorio e non ha pubblicato nulla. Tuttavia, in tutti questi anni ha continuato a percepire lo stipendio di ricercatore. Un caso che ha suscitato un ampio dibattito, non solo nel mondo accademico
Con cadenza regolare (annuale, semestrale) emerge agli onori della cronaca lo scandalo di un ricercatore fantasma che percepisce lo stipendio senza farsi mai vedere in università. Le reazioni pubbliche seguono uno schema consolidato e comprensibile: università di fannulloni che fa il paio con il paradigma dell’università di baroni.
Benché il fenomeno dell’abuso dei propri diritti e doveri esista in università, così come in ogni organizzazione complessa, la questione, per essere compresa, va contestualizzata, senza per questo essere sminuita. E per essere inquadrata bisogna capire come il carico di lavoro universitario è strutturato oggi e come lo era in passato.
Il fenomeno del “ricercatore fantasma” di cui parlano le cronache recenti è in sostanza l’eredità di un’epoca in cui esistevano tre livelli di ruoli universitari come dipendenti a tempo indeterminato (ricercatore, professore associato, professore ordinario).
A differenza dei ruoli di professore, il ruolo di ricercatore non prevedeva oneri didattici obbligatori. La maggior parte dei ricercatori svolgeva anche didattica, ma ciò non era contrattualmente obbligatorio. Il senso di questa regola risiedeva nell’idea che all’inizio della carriera universitaria i ricercatori e le ricercatrici avrebbero dovuto occuparsi prioritariamente della ricerca, in un periodo della vita in cui si è più freschi e originali nella ricerca.
Nei primi anni Duemila, in particolare durante il governo Berlusconi 2001-2006 (ministra Moratti), la politica e il dibattito pubblico si concentrarono sulla presunta inaccettabilità del ruolo di ricercatore. Questo dibattito, pur segnalando un problema (un’asimmetria tra i diversi ruoli universitari), era viziato da due posizioni entrambe fuorvianti che partivano da un comune malinteso: che fosse un problema rimanere ricercatori per tutta la vita.
La riforma Gelmini
Con un po’ di semplificazione: per la destra era uno scandalo che il ricercatore non avesse oneri didattici, per una parte della sinistra era uno scandalo che non ci fosse una progressione automatica di carriera per cui dopo qualche anno il ricercatore sarebbe diventato professore associato.
Questo dibattito è di fatto terminato con la riforma Gelmini del 2010 che, tra le altre cose, ha abolito il ruolo di ricercatore a tempo indeterminato per le nuove assunzioni e ha introdotto la figura del ricercatore a tempo determinato in due forme: con l’inserimento come professore associato dopo 3 anni previa abilitazione (RTD-B); o senza inserimento nel ruolo di associato rimanendo ricercatore per un massimo di 5 anni (RTD-A).
Pertanto le figure che creano questi scandali sono il retaggio di un sistema in esaurimento. Ma la soluzione trovata dalla legge Gelmini, partendo da una diagnosi discutibile, crea a sua volta problemi di cui è il caso di parlare.
Per ragioni di semplicità è meglio concentrarsi sulla questione centrale dell’abolizione del ricercatore a tempo indeterminato, una soluzione che crea più problemi del sistema precedente. Infatti, oggi l’assunzione a tempo indeterminato avviene solo a partire dal ruolo di associato dopo un periodo variabile di contratti post-doc o di ruoli da ricercatore a tempo determinato. Ma questo è un vantaggio solo apparente, e per capirlo bisogna partire da un assunto materiale: il definanziamento dell’università degli ultimi decenni.
Associati e frustrati
Visto che un professore associato è economicamente molto più oneroso di un ricercatore, un’università in cui si è stabili a tempo indeterminato a partire dal ruolo di associati è un’università con un corpo docente più ristretto, rispetto a un’università che prevede anche i ricercatori a tempo indeterminato. Dovrebbe essere noto a tutti che l’Italia ha un numero percentuale di docenti universitari inferiore ai paesi simili. Per aumentarlo, ci sono due strade: o incrementare il finanziamento ordinario con il regolamento vigente (cosa che non sarà fatta nei prossimi anni) o cambiare il sistema reintroducendo i ricercatori a tempo indeterminato.
L’abolizione del ruolo di ricercatore a tempo indeterminato ha creato anche un altro problema. Visto che il sistema attuale è a due livelli (professore associato e ordinario), tutti quelli che sono stabilizzati partono dal ruolo di associato. Questo genera un sistema di aspettative crescenti in cui l’associatura è vista come un punto di partenza e non di arrivo. Ora, infatti, i dipartimenti universitari sono attraversati da conflitti intestini per il passaggio dall’associatura all’ordinariato. Questi conflitti sono sempre esistiti, ma si stemperavano su tre livelli di carriera.
L’unica strada per diminuire i conflitti interni e aumentare il numero di docenti è reintrodurre il ricercatore a tempo indeterminato, prevedendo che abbia oneri didattici commisurati alla propria condizione. Del resto il sistema a tre livelli è, con alcune variazioni, usato in tanti paesi (assistant professor, associate professor, full professor). Il ruolo del ricercatore a tempo indeterminato avrebbe anche il vantaggio di ridurre, senza pretendere demagogicamente di abolire, il precariato post dottorato, rendendo possibili assunzioni a tempo indeterminato per persone più giovani.
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