Ciò-che-è-opportuno-dire socialmente prevale su ciò che gli individui vivono e dicono nella realtà, che dovrebbe essere il fondamento di ogni racconto. Nelle attrazioni fisiche che si accendono e spengono manca completamente la conclusione sessuale; c’è sempre qualche paletto esterno da rispettare. E su tutto, come al solito, la preoccupazione lessicale.
- Fausto Leali eliminato per la parola “negro”. Paolo Brosio rimproverato per un toscanissimo “diobòno”, Patrizia De Blanck costretta scusarsi per aver usato la parola “frocio”. Sono solo alcuni delle cose accadute durante l’edizione del Grande Fratello vip.
- Ma la difesa della morale è più formale che sostanziale. Senza contare che i poveretti rinchiusi nella Casa sono vittime di un paradosso logico, “vi ordino di essere spontanei”.
- Forse il peccato maggiore commesso dal GF Vip non è quello di far ascoltare qualche involontaria bestemmia o qualche performance volgare di linguaggio: è piuttosto quello di mostrare individui che barattano la loro intimità con un boccone di visibilità.
In quella negazione dell’originario Grande Fratello che è il GF Vip, una modella messa lì per provocare sta esagerando; un ragazzo forse anche lui modello, o tronista, reagisce esasperato: «Sei una maleducata, i tuoi genitori da piccola non te ne hanno date abbastanza».
Dopo proteste social, nella puntata successiva Signorini, impostati il viso e la voce a una certa unzione gesuitica, lo redarguisce «la violenza sui minori è una bruttissima cosa» ed esige le scuse dal ragazzo. Scuse chieste anche alla marchesa De Blanck per aver usato la parola “frocio” (ma lei sinceramente assicura di averlo detto con affetto); e Fausto Leali viene addirittura eliminato per la parola “negro” e la parola “razza” usata al posto di “etnia”, nonostante che nel 1968 fosse uscito un suo album intitolato Il negro bianco, che conteneva il brano Angeli negri.
Il giovanissimo tiktoker Denis Dosio viene espulso in lacrime per una bestemmia notturna di cui neppure si è accorto, e perfino Paolo Brosio (che ha ormai fatto della religione la propria ragione di vita) viene rimproverato per un toscanissimo “diobòno” che gli è scappato come intercalare – puntiglioso Signorini, in versione maestro Manzi della morale, gli ricorda che il secondo comandamento proibisce di «nominare il nome di Dio invano».
Forma e sostanza
Se la morale non vuol essere farisaica, la sostanza dovrebbe contare più della forma; in tutti i casi accennati sopra, il criterio di giudizio dovrebbe essere quello della reale volontà di offendere, più che l’ansia di mettere le mutande al linguaggio.
Se vogliamo attenerci alla sostanza, e ferma restando la lodevole obbedienza degli autori al secondo comandamento, mi chiedo per esempio che ne sia, al GF Vip, dell’ottavo, «non dire falsa testimonianza», se l’intera trasmissione pullula di bugie incrociate, compresa la bugia suprema che è smascherare una falsità per farne spettacolo.
E non parliamo del nono, «non desiderare la donna d’altri», visto che la scelta stessa del cast promuove (e spera in) tradimenti veri o presunti. Se poi dai comandamenti mosaici volessimo passare alla morale tomistica riflessa da Dante, che dire dei «seminatori di discordia» puniti in modo orribile nel ventottesimo e ventinovesimo dell’inferno?
Mettere zizzania è addirittura una delle vocazioni del programma, le litigate e i conflitti essendo uno degli obiettivi espliciti degli autori; e se la cosa sfugge di mano, attirando diffide, si preferisce glissare in silenzio: nessuna punizione è stata prevista per i due attori che hanno accusato il loro produttore-mentore di avere indotto al suicidio il proprio compagno e convivente.
Il baratto dell’intimità
Ai concorrenti nella Casa viene impedito di leggere e scrivere, se si isolano Signorini li sgrida perché «non partecipano alle dinamiche», dunque passano giorno e soprattutto notte a chiacchierare scherzando, e le fesserie si fanno più probabili; gli si chiede di dimenticare le telecamere ma allo stesso tempo di ricordarsene sempre quando parlano, perché essere noti presuppone cautela.
Alba Parietti, in una paternale (maternale) al figlio colpevole di uno scivolone misogino, lo dice con chiarezza: «Noi che andiamo in televisione siamo degli esempi».
I poveretti rinchiusi sono vittime di un paradosso logico, “vi ordino di essere spontanei”. Forse il peccato maggiore commesso dal GF Vip non è quello di far ascoltare qualche involontaria bestemmia o qualche performance volgare di linguaggio: è piuttosto quello di mostrare individui che barattano la loro intimità con un boccone di visibilità, intesa come occasione di lancio o di rilancio («grazie Alfonso per avermi dato questa opportunità»).
Le azioni grossolane, tra l’altro, suscitano un cipiglio meno severo di quello provocato dalla pruderie verbale: fingere un rapporto lesbico per eccitare un uomo va bene, ma si copre subito con un bip se qualcuno dice “cazzo”. I sentimenti sono indotti da filmati opportunamente predisposti per scatenare il pianto, che si verifica copioso e puntuale; esiste addirittura una “stanza delle emozioni”.
Lì si parla soprattutto dei rapporti padre-madre-figli, non aver avuto figli viene presentato come una tragedia per una donna, ma sono adatti anche i fratelli, le vecchie tate, i temi gay friendly; il sentimento viene ridotto all’emozione, spesso stereotipa, quando non sia semplicemente emozione del gossip.
I guardiani del limite
Da scrittore, quel che mi ferisce di più è l’uso che si fa del termine “storie”: che storie (cioè che racconti) possono nascere dove nessuno può parlare col proprio linguaggio naturale e quotidiano, perché deve comunque stare attento alla propria condizione esemplare e alla censura mediatica?
Appena qualcuno accenna a una vicenda individuale, e a come ha reagito lui personalmente, c’è qualche conduttore o opinionista bene intenzionato che alza il dito: «Attenzione, non possiamo permettere che passi il messaggio che…».
Ciò-che-è-opportuno-dire socialmente prevale su ciò che gli individui vivono e dicono nella realtà, che dovrebbe essere il fondamento di ogni racconto. Nelle attrazioni fisiche che si accendono e spengono manca completamente la conclusione sessuale, ogni ipotesi di coito si ferma alla barriera dell’allusione; c’è sempre qualche paletto esterno da rispettare, qualcosa da titillare che non può essere esplicitato, gli autori sono i soli detentori del limite.
E su tutto, come al solito, la preoccupazione lessicale («la libertà verbale è bellissima», proclama Signorini, «ma non deve mai prescindere dal buon gusto e da una certa eleganza, a cui io tengo molto, come anche il pubblico a casa»).
Mario Balotelli, convocato per salutare il fratellino, è stato invitato da Signorini a entrare per qualche ora nella Casa; per avvalorare l’invito, Signorini si è fatto forte del sorriso favorevole di una bella concorrente che con Balotelli aveva vissuto istanti felici («anche Dayane vuole che tu entri») e lo sciagurato ha risposto «io entro, ma poi lei dice fermati che mi fai male».
Battutaccia maschilista da bar, analoga a quella con cui Amleto replica a Ofelia mentre si apprestano ad ascoltare gli attori («siete tagliente, signore»; «smussarmi il taglio vi costerebbe un gemito»), e anche Shakespeare l’avrà sentita in osteria. Apriti cielo, non solo il conduttore ma perfino il fratello hanno dovuto dissociarsi.
"Storie” dimezzate
La letteratura è piena di bestemmie, dalla Bibbia alla Divina Commedia, da Joyce e John Fante fino a Testori; il linguaggio non è libero perché si tratta di arte, si tratta di arte perché il linguaggio è libero.
Tra le responsabilità che si possono attribuire ai reality (e ai talent) c’è quella di diffondere “storie” dimezzate, guardate a vista dal perbenismo, prive di libertà proprio perché si sentono troppo responsabili. Se fosse solo una caratteristica della tivù non-fiction, ci si potrebbe adattare e si cercherebbe la libertà altrove, nella letteratura o nella fiction televisiva e cinematografica; il guaio è che la tendenza è contagiosa, e pure le fiction e i romanzi sembrano ormai ossessionati dal problema del messaggio da “far passare”.
Che dev’essere ovviamente positivo, secondo i criteri di una morale senza profondità e senza sorprese, quella che si sa condivisa dal pubblico di riferimento. Ogni romanziere si sente, in pectore, autore televisivo o pedagogo.
Mentre alcune serie americane vengono tenute ai margini del mainstream perché considerate troppo ciniche e realistiche, le narrazioni nostrane programmate con intenti virtuosi ci danno invece la fotografia di una società idealista, rassegnata alla distinzione tra ciò che si dice e ciò che si fa, contenta di stare sotto i riflettori senza fare brutta figura.
© Riproduzione riservata