Dicevano che era la donna più bella di Agrigento. Si chiamava Leila, Leila Motta. E aveva sposato un commissario di polizia. Gli agrigentini di una certa età se li ricordano ancora, nei pomeriggi di domenica, i due mano nella mano in via Atenea o al viale della Vittoria, la passeggiata sopra la valle dei templi.

Una coppia ammiratissima in una Sicilia sprofondata nel mistero. Si erano conosciuti quando lei aveva appena quindici anni e lui era ricoverato in un ospedale da campo dopo le ferite di guerra riportate sul fronte russo, una lunga corrispondenza epistolare e un primo incontro giù nell'isola. Poi il matrimonio. Lui, Cataldo “Aldo” Tandoy, pugliese di Monopoli, classe 1916, capo della squadra mobile della Questura di Agrigento.

Lettere maligne

Dall’altare alle lettere anonime non passarono molti mesi. Tante, e sempre di più. E tutte che frugavano nella vita privata di Leila e di suo marito. Dettagliate, maligne. Continuarono ad arrivare sino alla fine.

Sino alla sera del 30 marzo 1960, fra le 20 e le 20:03, quando un'ombra si allunga verso di loro e spara tre volte. Un proiettile al polmone, un altro al fegato, l'ultimo al cuore. Il commissario Tandoy scivola a terra, una quarta pallottola gli sfiora il capo e come per impazzimento si conficca trentadue metri dopo nella carotide di un ragazzino che passa lì per caso. Ninni Damanti, il giorno dopo avrebbe compiuto diciassette anni.

Un delitto passionale ma commissionato a terzi. Il caso è chiuso per sempre. Una storia di corna finita male. È già sentenza.

Gli “amanti diabolici” vengono arrestati. Leila, la vedova del commissario. E il professore Mario La Loggia, il suo amore segreto, direttore dell'ospedale psichiatrico di Agrigento e fratello del presidente della regione siciliana Giuseppe La Loggia, uno degli uomini più influenti della Sicilia. Ufficialmente è la polizia che indaga, in realtà è la mafia che conduce l'inchiesta e semina indizi di colpevolezza che i magistrati raccolgono per poi imbastire una trama che si rivelerà uno dei più grandi depistaggi prima di quelli sulle stragi del 1992.

I “giovani turchi”

Sangue e politica. Con l'assalto al potere della Democrazia Cristiana siciliana rappresentato proprio da Giuseppe La Loggia, sferrato a Palermo dai “giovani turchi” Giovanni Gioia e Salvo Lima (e, per un lungo pezzo di strada, anche dal corleonese Vito Ciancimino) e nell'agrigentino dai loro alleati che ribaltano i rapporti di forza, sconvolgono gli equilibri nella corrente che in Sicilia fa capo ad Amintore Fanfani, la più forte. In mezzo c'è la morte del commissario Tandoy.

Il giallo che poi non è un vero giallo e infatti il libro ha come titolo L'imbroglio (Navarra editore, 235 pagine, 18 euro) è ambientato in un’Agrigento lontana e feroce, cinquecentoventi omicidi senza un solo colpevole dal secondo dopoguerra al 1960, patti fra mafia e stato, i latifondisti protetti dai campieri, la politica collusa, i giudici dormienti.

Gli autori sono Sergio Buonadonna e Massimo Novelli, due cronisti che in diverse epoche hanno scritto per il quotidiano L'Ora di Palermo e che nella loro ricostruzione del caso Tandoy fanno riferimento per l'appunto a Un maledetto imbroglio, il film di Pietro Germi uscito nella sale appena un anno prima del delitto di Agrigento e tratto da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, il romanzo di Carlo Emilio Gadda.

Uno strano incidente

Il giornalismo del tempo ha fatto la sua parte, nel bene e nel male. E nelle pagine dell'affaire decifrato da Buonadonna e da Novelli riaffiora con prepotenza. Le cronache ufficiali, i “mattinali” dei questurini. E il fiuto di reporter come Mauro De Mauro ed Ezio Calaciura, il primo che sparirà dieci anni dopo rapito dalla mafia e l'altro morto in un incidente stradale sulla Salerno-Reggio Calabria in circostanze mai del tutto chiarite.

Rivelerà la moglie: «Poco dopo due uomini vennero a casa ad offrirmi una grossa somma di denaro in cambio del rottame dell’auto che era stata distrutta nell’incidente. Provai ad indagare sul motivo di tanta generosità di quei due uomini, ma presto fui fermata. Qualcuno mi disse che quelli erano mafiosi e che era meglio lasciare perdere. Altrimenti avrei messo a rischio la vita della mia bambina di sette anni». Dalla casa di Calaciura furono portati via anche documenti, falsi ladri, un furto mascherato. Qualcosa che portava alle sue ricerche sull'omicidio Tandoy?
Ad Agrigento però avevano già alzato un muro di gomma. Tutti sicuri del movente passionale. Il questore Monteleone, il maggiore dei carabinieri Sussarello, il prefetto Querci, il procuratore Ferrotti. Un po' come succede oggi, nessuno che osava cantare fuori dal coro. Tutti insieme erano certi anche dell'identità del sicario, Salvatore Calacione, un fedelissimo servitore del professore Mario La Loggia. Ci sono voluti sette lunghissimi mesi - e in assoluta mancanza di prove - per abbandonare la pista privata e rimettere in libertà i presunti colpevoli.

Il memoriale 

Perché è stato ucciso allora Cataldo Tandoy, che negli anni della sua permanenza ad Agrigento non si era particolarmente distinto per scoprire i crimini durante il suo comando della squadra mobile? L'ipotesi che ribalta la scena è un memoriale, uno scritto del commissario che non si troverà mai e che lui avrebbe voluto consegnare - questa era l'insidiosa voce che circolava - ad Aldo Moro, uno dei leader della Democrazia Cristiana con il quale era stato compagno di liceo a Bari durante l'adolescenza. Un memoriale con tutte le vicinanze fra mafia e politica ad Agrigento. Altro che amanti diabolici, altro che corna.
Il pericolo era lui, Tandoy, che stava lasciando la Sicilia trasferito a Roma al nuovo reparto "Archivio della criminalità” del ministero dell’Interno. Aveva appena acquistato casa alla Balduina, era tornato ad Agrigento solo per una testimonianza in un processo fissato per il primo di aprile. Due giorni prima di quei colpi di pistola.

Annotò nel suo saggio Antimafia occasione mancata lo scrittore Michele Pantaleone: «È apparso chiaro che il commissario era stato eliminato per impedirgli di portare a Roma i segreti sui delitti politici commessi dalla mafia di Agrigento... Tandoy poteva mettere in piazza quanto sapeva rovinando carriere politiche, creando crisi nel partito di governo, mettendo in pericolo libertà e vita di altissimi amici degli amici e di pezzi grossi....».

L’inchiesta taroccata

Il libro di Buonadonna e Novelli ripercorre ogni fase dell'inchiesta taroccata fino a quando - è il 1963 - il nuovo procuratore generale di Agrigento Luigi Fici avoca a sé l’indagine, smonta le idiozie messe su carta dai suoi predecessori e punta l'attenzione su Cosa Nostra. Sulla cosca di Raffadali.
È un piccolo paese dell'entroterra agrigentino, il padrone è Vincenzo Di Carlo, che è contemporaneamente capomafia, giudice conciliatore e segretario della locale sezione della Democrazia Cristiana. È il mandante dell'omicidio del commissario. Così almeno crede il procuratore Fici.

Dopo la nuova istruttoria il procedimento, come usava in quegli anni, viene spostato alla corte di assise di Lecce per legittima suspicione, legittimo sospetto (una deroga al principio del giudice naturale dettata dalla necessità di garantire un regolare svolgimento del processo per evitare condizionamenti ambientali) che nel 1968 condanna Di Carlo e altri venti imputati, ergastolo al boss e pene per 175 anni ai suoi complici. La Cassazione conferma tutto nel 1975.

Il romanzo di Sciascia

I poliziotti che indagarono inizialmente sulla pista passionale saranno trasferiti in silenzio a Roma. Il procuratore Ferrotti che abboccò agli indizi forniti dai mafiosi continuerà, va da sé, a fare il magistrato in Sicilia. Pia Dammanti, madre di Ninni, il ragazzino colpito alla carotide dal proiettile pazzo la sera del 30 marzo 1960, cercherà inutilmente giustizia per suo figlio rivolgendosi anche al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Della vita e della morte di Cataldo Tandoy non se ne curò più nessuno tranne Leonardo Sciascia che, nel 1966, si ispirò all'eccellente delitto di Agrigento per scrivere A ciascuno il suo, uno dei suoi romanzi più densi.
Lettere anonime, l'improbabile relazione amorosa di un farmacista con una donna in un paese siciliano, un'esecuzione scambiata per un incidente di caccia, un cugino e una cugina sentimentalmente legati, l'ingenuo professore Paolo Laurana che prova a capire, una tresca che nasconde le manovre di uno spregiudicato avvocato ben inserito negli affari di mafia. Il regista Elio Petri ci fa pure un film nel 1967, protagonisti uno straordinario Gian Maria Volontè e Irene Papas. Il commissario Cataldo Tandoy era morto già da sette anni.


 

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