Con il termine “scholé” indicavano la ricerca del perfezionamento di sé. Non per un obiettivo specifico, ma per il solo piacere di farlo
- La parola che ci serve è scholé: una parola antica, in cui è facile indovinare l’origine della nostra scuola. Ma scholé non ha a che vedere con la scuola nel senso prescrittivo, con la scuola dei compiti, dello studio, dell’obbligo.
- È anche lo svagato dissiparsi di ore in cui si arriva a infischiarsene di quello che si dovrebbe fare, e si è quindi autenticamente creativi.
- Un’amica spagnola mi ha detto una frase, qualche giorno fa, che cercherò di tenere a mente la prossima volta che mi ritrovo a stressarmi per tutto il tempo che non so più perdere: «la siesta spagnola si fa beffe del sogno americano».
Quante sono le cose che possiamo imparare dai greci, mi ritrovo qualche volta a pensare. Per ogni circostanza, ogni dubbio, ogni cruccio, questi nostri lontani antenati, magari non di sangue ma certo di lingua e di pensiero, hanno una parola, un’idea che alla bisogna mi rallegro di estrarre dal vocabolario. La cosa incredibile è che queste parole antiche sono tutt’altro che consunte dal tempo: basta soffiare via un po’ di polvere, segno più che altro della nostra dimenticanza, e tornano a splendere, abbacinanti e come nuove.
In questi giorni mi torna spesso in mente una parola che mi pare particolarmente urgente recuperare dall’intrico di ragnatele in cui l’ho relegata. È in un angoletto della mia testa tutta impegnata a star dietro a troppe cose insieme, a rispondere a una miriade di mail, mentre mi lambicco sul regolamento delle feste natalizie per capire dove, come, quando spedire i regali, mentre compilo le notule per un lavoro che ho finito, mentre svuoto la lavastoviglie e lotto con il wi-fi per iniziare un corso in streaming, mentre rispondo con dei cuori ai messaggi di amici che non vedo da troppo tempo, mentre cerco di finire di scrivere un libro e di leggerne un altro, mentre mi sento dispersa, spezzettata, incapace di star dietro a tutto, e mi accorgo che i mesi di pandemia e di lavoro da casa, senza treni, senza viaggi, senza caffè al bar, senza tempo perso, fra tante cose che hanno cambiato, mi hanno ribaltato il senso del tempo.
«Lavori troppo», mi dicono tutti; e io capisco che è anche perché i momenti di vuoto, di calma e di silenzio li ho ridotti, li ho tagliuzzati per paura: per la paura dell’ansia che mi assale quando comincio a pensare a quello che succede, che è successo, alla gigantesca ferita che questi mesi stanno scavando nel mondo a cui eravamo abituati.
Scholé
Ma non è una cosa che riguarda solo me; tutti subiamo il dilatarsi della promiscuità fra lavoro e vita privata che pulsa nei nostri telefoni-uffici portatili. Dentro le nostre case trasformate a loro volta in uffici, asili, scuole, bar, ristoranti, cinema e quant’altro, piene di energia compressa come pentole a pressione; ci manca il tempo perso, ed è una perdita grave.
È per questo, io credo, al netto dell’angoscia e del dolore per le conseguenze più serie della pandemia, che siamo così stanchi, che ci trasciniamo, che non sappiamo nemmeno più con che parole dire la voglia che avremmo di riposarci, di dimenticare questo 2020 per fortuna ormai quasi agli sgoccioli. È perché, come ebbe a dire un gentiluomo piuttosto perspicace, il signor di Montesquieu, «bisogna aver perso metà del proprio tempo per saper impiegare l’altra metà». Ma ora che siamo perennemente raggiungibili e non abbiamo luoghi di svago, come facciamo a perdere quella metà del tempo che ci renderebbe tanto pronti ad apprezzare la metà rimanente?
Addirittura, ogni cosa congiura a farci risparmiare tempo: i diabolici smartphone, con cui puoi comprare il regalo alla zia mentre misuri quante calorie hai perso camminando in tondo per la casa, ci sollevano da un sacco di seccature, di noia, di vuoto – e meno male! Vi immaginate dover stare in coda senza uno schermo su cui incollare gli occhi? Ma c’è un però: quel tempo risparmiato va a finire che non lo riusciamo a perdere, che lo reinvestiamo in altre nervose occupazioni e quindi, di nuovo, rimaniamo chiusi fuori dall’infallibile formula del barone di Montesquieu, e così eccoci stanchi, stressati, nevrastenici sul divano, tutti dediti al binge-watching e cioè a un ozio passivo, poco rigenerante, che ci farà presto sentire ancora più stanchi.
Ed è qui che ci vengono in aiuto i greci, benemeriti. I greci che ci possono insegnare come stare davvero in panciolle, come goderci il far niente, come fiorire nella nullafacenza, come perdere, finalmente, una metà del nostro tempo ed essere parecchio più felici nell’altra metà. La parola che ci serve è scholé: una parola antica, in cui è facile indovinare l’origine della nostra scuola.
Il piacere di perdere tempo
Ma scholé non ha a che vedere con la scuola nel senso prescrittivo, con la scuola dei compiti, dello studio, dell’obbligo: non ci parla del tempo del dovere, bensì di un tempo di libertà, di piacere. Per i greci, quello della scholé era il tempo dedicato al perfezionamento di sé, allo studio e all’esercizio intesi nel loro senso più disinteressato: non per ottenere un obiettivo preciso, non per aggiungere voci al curriculum, non per vivere esperienze performative, ma per essere, per vivere. E non sarà un caso se il Simposio di Platone, in cui le menti più eccelse dell’Atene del secolo d’oro si lambiccano, con risultati di una poesia insuperata, sul tema più difficile di sempre – definire cosa sia l’amore – si svolga tutto durante una festa.
Perché la scholé è anche questo: è anche lo svagato dissiparsi di ore in cui si arriva a infischiarsene di quello che si dovrebbe fare, e si è quindi autenticamente creativi. E credo che sia bello ricordarci, anche oggi che ci sono ben altri problemi urgenti di cui occuparsi, che la scuola, l’idea della scuola, nasce da questa parola. Tant’è vero che dal corrispettivo latino di scholé, otium, si crea, per opposizione, la parola che copre l’universo semantico degli impegni e degli affari, negotium: ma viene prima otium, di negotium, e anche questo penso valga la pena, di tanto in tanto, ricordarlo.
Alla luce di questo, è chiaro come la scuola nel senso di scholé, del prendersi cura di sé abitando il tempo senza per forza farlo fruttare, senza aspettarsi miglioramenti da esibire come medaglie, sia, anche, il marinare la scuola. Ovvero dissipare il dovere nel piacere, fare azzurro, per usare un’espressione non greca ma tedesca, che trovo bellissima e che ho scoperto nel titolo nell’ultimo libro di Daria Bignardi: un modo di dire che racconta la libertà del tempo perso. Che, per essere goduto, dev’essere rubato, “proprio come i baci”, come prescrive un grande esperto di ozio, Jerome K. Jerome, autore di un delizioso pamphlet, I pensieri oziosi di un ozioso, dedicato nientemeno che alla sua pipa.
D’altra parte, come dimostra la collezione di aforismi messa egregiamente insieme da Stefano Scrima nel suo Della pigrizia (Ortica editore), molte grandi menti si sono dedicate all’ozio.
Un’amica spagnola mi ha detto una frase, qualche giorno fa, che cercherò di tenere a mente la prossima volta che mi ritrovo a stressarmi per tutto il tempo che non so più perdere: «la siesta spagnola si fa beffe del sogno americano».
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