Esce il 10 ottobre in Italia L’impostore, il nuovo libro della scrittrice che, per la prima volta, si misura con il romanzo storico. Occuparsi di fatti del XIX secolo è stata l’occasione per l’autrice di sfidare la tradizione e cercare di superarla
Il giorno in cui ho scoperto che Zadie Smith sarebbe ritornata in libreria, ho perso un aereo. Ero all’aeroporto di Gatwick e sullo schermo del mio cellulare era apparso un articolo del New Yorker in cui la scrittrice raccontava di quanto fosse stato liberatorio uccidere Charles Dickens in uno dei capitoli del suo prossimo romanzo.
Ad avermi coinvolto fino al punto di dimenticare di procedere verso il mio gate, non era stata solo la voce fresca, ironica e sempre inedita di Smith, né il mio amore per i suoi libri, l’ultimo dei quali, Swing Time, a pensarci bene, apparteneva all’ormai lontanissimo 2016.
Certo, ho sempre seguito Zadie Smith con la devozione che si riserva insieme a una grande maestra e a una pop star. Le passeggiate della protagonista di NW e le descrizioni di Camden Town, Islington e Willesden Green mi hanno insegnato a leggere attraverso gli strati culturali e sociali meno stereotipati di Londra; è vero, dai ritratti di Jay-Z e Justin Bieber, Barack Obama e Mark Zuckerberg raccolti in Feel free ho scoperto un modo tutto nuovo di guardare al tempo che ci circonda; ho sempre ammirato quel modo tipico della scrittrice di passare dal particolare di alcuni specifici fenomeni contemporanei al loro significato in quanto simboli della cultura nella quale ci muoviamo.
Romanzo storico
Tuttavia, più che il mio amore per la scrittura di Smith, ad avermi distratta è stata la notizia che il suo nuovo libro sarebbe stato un romanzo storico. Il dettaglio ha avuto su di me l’effetto di una dissonanza, posizionandosi in contrasto con l’idea che mi ero fatta della scrittrice fino a quel momento: quella di una mente incredibilmente curiosa di capire il nostro tempo e di raccontarlo. La verità, avrei scoperto, è che Zadie Smith è arrivata al romanzo storico con l’intenzione di riformularne i confini.
Avere tra le mani L’impostore, Mondadori, sfogliarlo, lasciarsi tirare dentro la storia della grande frode vittoriana che ha occupato la mente della scrittrice negli ultimi undici anni come un’ossessione, significa porsi domande tanto sulla natura del genere quanto sulla sua ragion d’essere oggi, soprattutto in una fase in cui il dibattito sulla letteratura sembra essersi ridotto in modo fin troppo semplicistico all’opposizione tra finzione e verità.
Per moltissimo tempo Smith ha cercato di allontanare l’idea di dedicarsi alla stesura di quest’opera. Un collega romanziere, che si dedicava soprattutto al genere storico, le aveva detto che cimentarsi nell’impresa era come scrivere un’opera di finzione e fare un dottorato in storia al tempo stesso. Il paragone non era sembrato incoraggiante, fino a che la necessità di quanto aveva da raccontare non è prevalsa sulle sue ansie di scrittrice.
Il macellaio di Wapping
La storia prende avvio da un caso di cronaca che nel 1873 ha effettivamente invaso le prime pagine dei giornali di tutto il Regno Unito. Un macellaio di Wapping si fa avanti presentandosi come l’erede della famiglia Tichborne, scomparso in mare anni prima, e ne reclama l’eredità.
L’uomo è accompagnato da Andrew Bogle, che afferma di essere stato un suo servitore. Il processo accende l’interesse dell’opinione pubblica e la divide in chi sostiene le surreali affermazioni dell’uomo e chi invece lo definisce un impostore. Del resto, l’erede dei Tichborne viene ricordato dai più come un nobiluomo che parla fluentemente francese, mentre questo pretendente ha un fortissimo accento cockney e una stazza fisica molto diversa da quella che tutti conoscevano. Com’è possibile, si chiedono alcuni personaggi, che una frode così evidente sia invece sostenuta da una larga fetta della popolazione? E fino a un certo punto, anche noi lettori ce lo chiediamo.
Nel romanzo Smith filtra le cronache pubbliche del tempo attraverso lo sguardo di un gruppo di personaggi vittoriani realmente esistiti. I primi capitoli del libro sono occupati da un ironico spaccato sulla quotidianità della famiglia di William Ainsworth, uno scrittore mediocre che vive un forte senso di inferiorità nei confronti del suo ben più famoso collega Charles Dickens; ogni giorno, in salotto, Elizabeth Touchet, cugina di Ainsworth e sua governante, partecipa alla lettura delle notizie del giorno che il padrone di casa ama declamare e commentare al cospetto delle due figlie, della nuova giovane moglie e della servitù.
È dai commenti di questi personaggi che Smith ci fa capire come L’impostore non si tratti di una ricostruzione accurata di un periodo, quanto piuttosto di una rilettura dell’epoca vittoriana il cui scopo è quello di aumentare il volume alle voci meno interrogate dalla storiografia.
La battaglia degli ultimi
La questione di classe e la riflessione sul passato colonialista del Regno Unito vengono fuori attraverso protagonisti come Arthur Orton, il macellaio, e Mr Bogle, il suo testimone con un passato nelle piantagioni in Giamaica, ma soprattutto emergono nelle descrizioni della folla che si raduna ovunque i due decidano di tenere discorsi. La loro causa, e con essa la narrazione del processo, presto diventa la battaglia degli ultimi e di tutti quelli che della società vittoriana occupano i margini.
«Se tu prendi un romanzo e ti rendi conto che avrebbe potuto essere scritto in qualsiasi momento degli ultimi secoli» aveva scritto Smith sul New Yorker, «allora quel romanzo – that novel – non sembra aver fatto il suo lavoro, no? Non sta nel Dna del romanzo il fatto di parlare di qualcosa di nuovo?»
A far vacillare la posizione della scrittrice poi ci ha pensato Marguerite Yourcenar e il suo Memorie di Adriano, una lettura che le ha dimostrato come non solo il romanzo storico non debba limitarsi a una ricostruzione pedissequa del tempo di riferimento, ma possa servire per approcciare gli eventi da angolazioni diverse, gettando luce non solo su quel passato che si credeva di conoscere, ma anche sul presente abitato da chi legge e scrive quelle pagine. Ed è proprio in questi termini che un’opera come L’impostore si mostra in tutta la sua coerenza nella bibliografia di Zadie Smith.
The ‘hood
L’estate scorsa, verso la fine di luglio, sul profilo Instagram della scrittrice sono comparse le date del tour di promozione per il lancio del nuovo libro. La prima assoluta era stata fissata tra gli eventi di una piccola manifestazione letteraria in partnership con la Local History Society di Willesden, il Queen’s Park Book Festival, e per uno strano allineamento di pianeti (altrimenti chiamato algoritmo) sono riuscita a prendere un biglietto prima che andassero tutti esauriti.
It’s great to be back in the ‘hood ha detto Smith, salutando la platea di lettrici e lettori che il tre settembre hanno preso posto sotto un tendone bianco trasformato per un pomeriggio in salotto letterario. The ‘hood, il quartiere: Willesden infatti è stata l’area di Londra in cui la scrittrice ha vissuto fino ai trent’anni, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove dal 2010 insegna scrittura creativa alla New York University.
Nel pubblico sedevano gli uni accanto agli altri lettori affezionati, parenti, e vecchi amici della scrittrice, tanto che la presentazione del libro sprigionava la gioia di una festa di bentornata a casa.
Se da un lato si è celebrato il ritorno di Smith ai suoi luoghi di sempre, il benvenuto è stato anche per la sua scrittura, riemersa dopo circa sette anni dall’ultimo romanzo, un periodo molto denso che ha attraversato le ferite di una pandemia ed eventi come l’assassinio di George Floyd a opera della polizia statunitense, le dimostrazioni pubbliche del movimento Black Lives Matter e l’abbattimento della statua dello schiavista Edward Colston in Bristol.
L’impostore è un romanzo scritto in modo preponderante durante i mesi dell’emergenza Covid e lungi dal prendere le distanze dalla contemporaneità – viaggiando indietro di circa duecento anni – in realtà dall’oggi è stato fortemente influenzato.
Affrontare il proprio tempo
Tornare a eventi del XIX secolo e gettarsi negli archivi non ha significato per la scrittrice allontanarsi dal proprio tempo ma affrontarlo. C’è una scena nel romanzo in cui la vittoriana Mrs Touchet incontra faccia a faccia Mr Bogle, il testimone chiave del processo Tichborne.
La donna è interessata alla sua storia e alle motivazioni che hanno spinto l’uomo a sostenere una causa che appariva persa fin dall’inizio. Da questo colloquio nasce il racconto dell’esperienza di Bogle nelle piantagioni giamaicane che Zadie Smith è riuscita a ricostruire grazie alla digitalizzazione di alcuni rarissimi documenti conservati negli archivi della UCL.
Se l’accuratezza storica è sempre stata una priorità nel processo di scrittura de L’impostore, Smith ha combattuto a lungo con la costante tentazione di nascondere tra le parole di Bogle la celebre frase di Malcolm X – «con ogni mezzo necessario» – pronunciata in relazione alle lotte per i diritti civili nel 1964.
Che la scrittrice si sia concessa o meno questa soddisfazione, è poco importante ai fini di una storia che fa sentire con potenza in ogni pagina la sua portata politica e che senza dubbio costituirà un confronto imprescindibile per chiunque in futuro dovrà cimentarsi con il genere del romanzo storico. Uccidere Charles Dickens voleva dire, alla fine, soprattutto questo: sfidare la tradizione e cercare di superarla.
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