I riti delle baccanti promettevano di raggiungere uno stadio superiore della conoscenza, rispetto a quella della ragione. Da qui si credeva nascessero la poesia, l’arte, la danza e le profezie. Ma anche la pazzia più grande: quella dell’amore
- Una grotta, una culla, un dio neonato, gruppi di gente selvatica che si raccoglie per celebrare una nascita sacra: una specie di presepe pagano. A festeggiare il dio rinato erano le donne che si raccoglievano lì da tutta la Grecia.
- Delfi, si sa, era la sede dell’oracolo di Apollo, il dio della luce e della poesia; ma accanto a lui si venerava anche il suo bizzarro fratello, Dioniso, il signore della follia, dell’ebbrezza e della danza.
- Solo lasciando libera strada alla follia, proclama il coro, si può esplorare l'estremo confine della mente umana: «Non è saggezza il sapere», osano dire le baccanti.
In una grotta del monte che sovrasta Delfi, il Parnaso, era collocata una culla; la ponevano lì, ogni due anni, le baccanti che salivano in pieno inverno tra quelle rupi e quelle nevi, per celebrare danzando e urlando il culto di Dioniso. Quella culla era di Dioniso bambino, che veniva risvegliato dalle sue seguaci le quali lo invocavano come Dioniso liknìtes, “Dioniso nella culla”.
Una grotta, una culla, un dio neonato, gruppi di gente selvatica che si raccoglie per celebrare una nascita sacra: una specie di presepe pagano. A festeggiare il dio rinato erano le donne che si raccoglievano lì da tutta la Grecia.
Possiamo immaginare con un certo sbalordimento questi cortei femminili che partivano da tutte le città, anche da Atene, e si ingrossavano raccogliendo via via altre donne dai villaggi che attraversavano: una turba femminile in piena libertà, che saliva cantando sino alla cima del monte, dove alla luce di mille fiaccole danzava davanti alla grotta, sino a sfinirsi e cadere in trance.
Sempre a Delfi si mostrava anche la cosiddetta “tomba di Dioniso”: un pozzo con gradini che portavano nel sottosuolo. Delfi, si sa, era la sede dell’oracolo di Apollo, il dio della luce e della poesia; ma accanto a lui si venerava anche il suo bizzarro fratello, Dioniso, il signore della follia, dell’ebbrezza e della danza. Tra tutti gli dèi dell’Olimpo, era il solo che conosceva la morte e la sofferenza: era stato estratto dal grembo di sua madre fulminata, da piccolo era stato ucciso e smembrato dai Titani, che lo avevano sorpreso mentre giocava spensierato coi suoi balocchi, ma poi era rinato un’altra volta.
Tornare all’Uno
Un dio che muore e rinasce dovrebbe essere un’idea a noi familiare, come del resto era familiare alle antiche culture agricole. Tutti conoscono la formula di Nietzsche: Apollo è la ragione, Dioniso l’irrazionale, apollineo e dionisiaco sono le due parti dell’anima. Ma che tipo di irrazionale?
Attraverso il suo culto si realizza un ritorno alle radici del Sé, non però in maniera individuale: attraverso i suoi riti estatici Dioniso consente di abbattere la barriera che separa ogni essere umano dagli altri, di scordare i dolori della vita, per tornare a confondersi con l’indifferenziato Uno da cui ogni cosa proviene. Un’armonia a cui ognuno in fondo tende: «Il mio tormento», scriveva Ungaretti, «è quando non mi sento in armonia».
Ma quella di Dioniso è ben lontana dall’essere l’armonia del Rinunciante indiano. Significa entrare nell’ignoto: «Se scruterai troppo a lungo dentro un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te», scriveva ancora Nietzsche.
Nelle Baccanti di Euripide questo abisso è Dioniso, e leggere le Baccanti significa assistere a un tuffo nell’abisso. In questa tragedia, l’ultima di Euripide, il dio arriva a Tebe travestito da profeta di sé stesso, desta nelle donne la follia e le spinge a celebrare i suoi riti sui monti, dove danzano in trance. Penteo, il re, si oppone, ma alla fine Dioniso renderà folle anche lui che, travestito da baccante, salirà sul monte per spiare i segreti del dio; là sua madre Agave, in preda alla follia, lo farà a pezzi e tornerà in città con la sua testa piantata su un bastone, convinta di avere ucciso un leone.
È questa la felicità e l’armonia che il dio promette? Inutile cercare di opporsi, si viene trascinati dentro. E sul fondo che cosa c’è? Il sangue e la morte, una madre folle che fa a pezzi il figlio, oppure la pace e l’armonia, come proclama il coro delle baccanti? Il nucleo intorno al quale è costruita la tragedia è la perdita del Sé, per affondare in una dimensione che scavalca la ragione e ne svela la fragilità.
Quando, contro la loro volontà, il re Penteo e sua madre Agave passano quella soglia, ciò che vedono non è più la realtà, ma un mondo annebbiato e popolato da fantasmi. Le baccanti del coro, invece, danzano e si abbandonano gioiosamente alla forza che scorre nelle loro vene; un dio entra nel loro corpo, ed esse si sentono tutt’uno con lui: che ci può essere di più esaltante?
Poli opposti della disragione
Le Baccanti mostrano grandiosamente i due poli opposti della disragione: quello cupo e devastante della pazzia e quello felice che libera dai lacci e dilata la personalità. Solo lasciando libera strada alla follia, proclama il coro, si può esplorare l'estremo confine della mente umana: «Non è saggezza il sapere», osano dire le baccanti.
I rituali estatici di Dioniso pretendevano di offrire, attraverso la trance, una forma superiore di conoscenza, contrapposta a quella ricercata dalla ragione. In questo senso, Dioniso è la forza che governa la vita in fermento attraverso il caos dei baccanali, ovvero, per usare le parole di Kerényi, «una follia connaturata al mondo stesso».
Dioniso è il dio del vino, ma il vino è il mezzo attraverso cui si sperimenta la parte ebbra di sé; consente l’oblio delle pene che ci seguono giorno per giorno e il dramma della solitudine. Dioniso offre la coppa e sorride: in un inno omerico lo si descrive come un giovinetto con capelli biondi e occhi viola; una nave di pirati lo rapisce, non immaginando chi sia. Lo legano, ma i legami si sciolgono da soli; sorride imperturbabile e d’improvviso crescono tralci di vite e foglie d’edera, compaiono animali feroci. I pirati si gettano in mare ed ecco, mentre si tuffano nell’aria, i loro corpi si inarcano e si mutano, ricadono in acqua in forma di delfini che guizzano tra le onde.
Non teologi ma poeti
Un dio greco non è affatto una cosa semplice; i greci non ebbero un sommo pontefice che guidasse la loro vita spirituale, né un libro sacro che dettasse le loro regole una volta per sempre. La religione greca non ebbe teologi, ma poeti: procedeva attraverso i miti e i rituali e aveva la natura sfuggente e colorata di un caleidoscopio. Era amorale, crudele, istintiva, come la vita.
Se i greci avessero onorato un Dio creatore e sapiente, non avrebbero avuto (e nemmeno noi) una filosofia, bensì una teologia: invece i loro dèi, così belli ed egoisti, li lasciarono soli a cercare una verità con la propria mente. Potremmo dire che ci vuole audacia per cercare il sacro nel bello, anziché nel giusto o nel saggio o nel buono. Dunque, un dio come Dioniso, che nasce e che scende nel buio per poi rinascere ancora, ci può stare, anzi ci deve stare in questo sistema: è il ciclo della vita che si rinnova, come si rinnovano ogni anno le foglie di un albero.
Su questo rapporto tra la forza che fa nascere e quella che fa perire si gioca una buona parte dell’interpretazione del mondo degli antichi. Quando si sviluppò da origini mitiche, la filosofia greca tentò di dare un ordine e leggi a questo caos, e allora gli dèi dell’Olimpo divennero una presenza imbarazzante per gli spiriti illuminati.
Un dio folle
Dioniso aveva poco a che fare con la logica di Aristotele; aveva però un posto nella concezione dell’anima di Platone. Dioniso è il vino, la follia, l’ubriachezza e la trance di chi danza fino a stordirsi. Non è il dio della follia, ma un dio lui stesso folle.
Questo tipo di follia fa sperimentare a un essere umano la dilatazione dell’anima, è un incremento delle energie della mente e non la perdita della ragione: poesia, arte, danza ed ebbrezza, profezia, e la più grande di tutte, la follia d’amore che trasforma sino dalle radici un essere umano e lo rende capace di fondersi con la persona amata (così diceva Platone).
È il momento in cui ci si sente vicini a quell’Uno da cui il principio di individuazione ci separa. Separare le barriere che uniscono l’uomo dagli altri e dalla natura e sperimentare una specie di ritorno alle origini: ecco ciò che i culti estatici propongono ai loro fedeli. L’Islandese dell’operetta morale di Leopardi si sente dire dalla Natura: «Io sono indifferente a voi, i vostri destini non mi interessano».
Se l’umanità scomparisse
I seguaci di Dioniso non avrebbero accettato questo discorso. Basta pochissimo per constatarlo, nella nostra modesta esperienza; basta pensare a come durante il lockdown la natura sia rientrata senza pensarci troppo nelle nostre città: i delfini nuotavano nei porti, capre e anatre passeggiavano sui marciapiedi.
Così farebbero, stiamone certi, se l’umanità scomparisse. L’umanità ha costruito nei millenni la sua cultura, cosa di cui dobbiamo essere fieri, ma la natura è sempre lì pronta a reinghiottirci.
Questo dice anche Dioniso, il dio dalle molte facce: il dio che si percepisce nell’edera che striscia silenziosa in un bosco, o nelle grida assordanti di un baccanale, o nella follia delle sue seguaci, o nell’ebbrezza del vino, o in un corpo che danza.
Giulio Guidorizzi ha curato l’edizione delle Baccanti di Euripide, per la Fondazione Lorenzo Valla di Mondadori
© Riproduzione riservata