- Quello che è strabiliante è, ancora una volta, la formidabile capacità di Carrère nell’instaurare una familiarità profonda con il lettore: Yoga è innanzitutto il racconto cordiale e aperto di un uomo abituato a vivere guardandosi vivere.
- Nell’epoca del selfie, Carrère è, per definizione, lo scrittore che inquadra sé stesso. Come se lui stesso fosse un paesaggio su cui sta avvenendo una battaglia. È la cifra della sua autorialità.
- Ma di cosa parla Yoga? Di meditazione orientale e di depressione, certo. Di dolore e di morte; e della vecchiaia di una generazione, quella nata negli anni Cinquanta, schiacciata fra declino fisico ed egemonia culturale.
Yoga di Emmanuel Carrère è appena uscito in Italia, eppure ne avevamo già parlato. A ottobre 2020, quand’era appena uscito in Francia, da noi quasi nessuno ancora l’aveva letto ma i detriti del pettegolezzo arrivarono eccome: la giornalista Hélène Devynck, ex moglie di Carrère, aveva rilasciato a Vanity Fair un lungo intervento in cui smascherava le pretese di sincerità assoluta del libro appena uscito. Carrère – diceva allora Devynck – nel raccontare la storia della propria depressione, aveva a suo dire manipolato in più punti la propria storia, dando di sé un’immagine più eroica e benevola di quella reale. Da un lato, erano le conseguenze fin troppo leggibili di uno sputtanamento fra ex coniugi che si tirano gli stracci; dall’altro, veniva a cadere un’ombra di insincerità su uno scrittore che ha fatto dell’autofiction l’emblema della propria identità letteraria. Di certo c’è che questo libro, prima ancora di arrivare in Italia, è stato uno dei rarissimi casi in cui ancora la letteratura ha saputo sforare nel mondo del gossip. Le dichiarazioni di Devynck hanno collocato Yoga in uno spazio anomalo per un romanzo, in un cortocircuito fra realtà e finzione difficile da districare.
Ma questo, lo sappiamo, fa parte del gioco. Tanto più che, rispetto a La vita come un romanzo russo – il libro a cui questo più assomiglia – Yoga alza parecchio la posta in gioco autobiografica: vi si racconta la depressione dell’autore, il tunnel di sofferenze e ossessioni, culminate nella degenza in ospedale psichiatrico e nella successiva riabilitazione. Ma quello che è strabiliante è, ancora una volta, la formidabile capacità di Carrère nell’instaurare una familiarità profonda con il lettore: Yoga è innanzitutto il racconto cordiale e aperto di un uomo abituato a vivere guardandosi vivere, in un piano-sequenza dove lui è sempre presente. Nel libro c’è tutto, come al solito, senza alcuna pietà: il tentativo iniziale – poi deragliato – di scrivere «un libricino arguto e accattivante sullo yoga»; il racconto di un seminario di meditazione vipassiana come un thriller alla Midsommar; la depressione e la diagnosi di sindrome bipolare, gli elettroshock, la degenza alla clinica Sainte-Anne di Parigi, la crisi dei migranti, la scomparsa di un amico. Il tutto misto a considerazioni, aneddoti erotici, paginate di autodescrizioni, autoaffabulazioni, egolatrie. Troviamo in Carrère tutto ciò che invidiamo e insieme detestiamo dei narcisisti patologici: l’esibizionismo, la presunzione, il coraggio spudorato di parlare sempre e solo di sé: «Il mio unico, vero problema (certamente innegabile, ma comunque un problema da ricchi), era un ego ingombrante, dispotico, di cui aspiravo a ridurre il potere».
Nell’epoca del selfie, Carrère è, per definizione, lo scrittore che inquadra sé stesso. E, secondo quella consuetudine appunto molto narcisistica di risolversi un difetto semplicemente ammettendo di averlo, lo dichiara continuamente: «Desiderare chi mi desidera, perdere rapidamente interesse per chi non è interessato a me è stata una costante della mia vita amorosa. (…) Quello che dovrei fare io è dare la caccia alle frasi che cominciano con “io”». Si osserva, si guarda vivere, si romanza: come se lui stesso fosse un paesaggio su cui sta avvenendo una battaglia. È la cifra della sua autorialità, e va bene così. Non può però certo considerarsi un caso che uno fra gli scrittori più importanti e popolari della letteratura del nostro tempo ci consegni proprio ora il più estremo e personale dei suoi libri: il racconto del proprio dolore, dettagliato e crudele ai limiti dell’autopornografia. Portandoci in un territorio dove ansia di verità e narcisismo si confondono, e forse smettono di distinguersi: una zona inesplorata che dovremmo però iniziare a perlustrare, perché ci riguarda da vicino.
Soffrire in pubblico
Carrère è un emblema del nostro tempo forse più di quanto lui stesso creda: tutto Yoga è attraversato dalla convinzione che soffrire in pubblico sia il più nobile degli spettacoli, e che la condivisione del dolore sia la più generosa delle offerte: «Dal punto di vista della sofferenza nevrotica non temo confronti. Posseggo un autentico talento nel trasformare una vita a cui non manca niente per essere felice in un vero e proprio inferno, e non permetterò a nessuno di minimizzare questo inferno».
È una posizione che chi abita i social conosce bene: l’esperienza del dolore come patente universale, santuario insindacabile su cui nessuno a parte il diretto interessato può mettere bocca. Il piacere nel mettersi in posa completamente nudi, nell’esibire le ferite in piazza è un happening a cui, in forme meno stilizzate, assistiamo continuamente, e che sarebbe ingenuo ridurre a banale esibizionismo: performare sé stessi è la musica del tempo, e Carrère la suona meglio di tutti. Porta nel piano più alto della letteratura la disfunzione che pervade la natura del discorso ormai a tutti i livelli: in Yoga la postura narcisistica è portata a un tale voltaggio da diventare pubblica performance: il perimetro dell’io come una prigione che prende fuoco. Ma i cui confini restano invalicabili: da una certa nozione dell’io, sembra dire Yoga, è impossibile uscire.
Certo, chi voglia chiedere a questo libro un discorso diverso sul tema della depressione non potrà che restare deluso. La depressione è oggi uno tra gli argomenti su cui si parla di più e di cui si parla peggio: sembra sia in atto una cospirazione a trattare il male psichico come un accidente individuale, una patologia misteriosa che raggiunge il singolo dal profondo di oscurità inconoscibili, e di cui lui e lui solo sopporta la responsabilità. Una cospirazione comunicativa che non affronta mai un discorso pubblico intorno alle cause generali della depressione, ai suoi nessi con le disfunzioni sociali e la struttura economica, culturale e politica del mondo. Una cospirazione che continua a trattare la depressione come un male esclusivamente personale, esterno a ogni grammatica comunitaria. Una cospirazione che impedisce che la depressione diventi una domanda posta non solo a me, ma a noi. Una cospirazione che non vuole portare quel dolore fuori dal santuario del privato. Questo libro, pur bellissimo, fa comunque parte di questa cospirazione.
Il desiderio
Ma di cosa parla Yoga? Di meditazione orientale e di depressione, certo. Di dolore e di morte; e della vecchiaia di una generazione, quella nata negli anni Cinquanta, schiacciata fra declino fisico ed egemonia culturale, tra volontà di potenza e terrore del fallimento. Ma soprattutto Yoga è un libro sul desiderio: il desiderio come inferno da cui fuggire; il desiderio come confusione e depistaggio; il desiderio come enigma da decrittare; il desiderio come maledizione; il desiderio come scandalo; il desiderio come smania d’impossibile. Il termine stesso di «yoga» richiama il giogo che lega due animali che vanno in direzioni opposte. In Yoga assistiamo allo sfaldamento di questo giogo. Il libro ha esso stesso la forma di una contraddizione esplosa: nato come «libricino arguto e accattivante sullo yoga», è diventato la cronaca minuziosa di un disastro. Più che come una meditazione vipassana, il libro funziona come l’autosacramental di un uomo che – per dirla con Leopardi – prova orrore nel vedere confermata nel proprio caso particolare la regola generale. Yoga è la parabola di un uomo che tenta l’uscita al mondo, e ne viene ferito: il male psichico, gli elettroshock, la morte dei cari, gli attentati, la crisi dei rifugiati a Leros. Lo spazio dell’io non resiste ai bombardamenti del fuori: l’Esterno sfonda le resistenze e compie razzie, dilaga, distrugge.
Il miracolo è però che questo disastro avvenga dentro il perimetro aureo della letteratura. C’è qualcosa di stoico, di commovente in questo scrittore di successo – ricco, talentuoso, affascinante – che anche dopo la caduta di tutte le difese continua a contrapporre al male la posa della poesia, la formula dell’arte fuori tempo massimo e al di là di ogni ragionevole considerazione, aspirando a un cambio di paradigma che non gli riesce mai. Yoga è in fondo la formidabile stenografia di un fallimento. Ma un fallimento che coincide – per quel che può valere – con una vittoria della letteratura. La letteratura come siamo abituati a intenderla: tenace, instancabile atto di sublimazione; tentativo più o meno disperato di trasformare la rozza macelleria del mondo in conoscenza e bellezza.
«Col patire, il capire», scrive Eschilo nell’Orestea, pronunciando la descrizione più netta del pensiero tragico: la sofferenza come percorso necessario perché la verità si manifesti. «Col patire, il capire»: ecco il messaggio più profondo di Yoga, un libro che fin dal titolo usa le sapienze orientali per denunciare il più occidentale dei processi: il dolore come strada per una verità di sé. In questo senso, Carrère non poteva consegnarci un libro più sincero: il tentativo impossibile di avvicinarsi al nucleo terribile delle cose, come un insetto alla lanterna, senza disgregarsi. Il fallimento del «libricino arguto e accattivante» sullo yoga si risolve in un libro sul potere della letteratura e dell’arte: sopravvivere nel mistero doloroso dell’essere con le armi dello stile, mantenere alto lo sguardo della meraviglia.
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