- L’amore come accudimento, come rito di passaggio, come forza motrice o spinta inerziale. In tutte le sue forme l’amore implica ambiguità e in Avere tutto (Einaudi 2022), Marco Missiroli lo racconta in modo stupendo
- «Nata mia figlia, ho iniziato a nutrire dubbi sul fatto che volessi essere padre», confessa, «perché accudire mi rompe i coglioni»
- «Iniziai a leggere scrittori e scrittrici che avevano avuto figli. Ma presto capii che i rapporti scrittori figli non sono semplici»
L’amore, in tutte le sue forme e direzioni, implica ambiguità, qualcosa che dà una perenne sensazione di irrisolutezza. E ciascuno di noi, inseguendo la vita, è destinato a essere plasmato da questo senso d’insoluto. L’amore per il padre che non si comprende, per la città che si ha dovuto abbandonare, per la donna che avrebbe potuto essere altro. L’amore come accudimento, come rito di passaggio, come forza motrice o spinta inerziale. In tutte le sue forme e direzioni, l’amore implica ambiguità e in Avere tutto (Einaudi 2022), Marco Missiroli lo racconta in modo stupendo.
Lo scrittore – di Rimini, oggi vive a Milano – è al suo settimo romanzo. Con il precedente, Fedeltà (Einaudi 2019), ha vinto il premio Strega Giovani. Ed è tornato nella sua Rimini per portarci con sé nella vita di un padre, Nando, e di suo figlio, Sandro, la voce narrante.
Con una lingua essenziale, che scava e ferisce, i protagonisti danzano e si fissano senza posa, in un intreccio di sguardi per noi lettori impenetrabile: si prova quasi vergogna, a spiare l’intimità dei due. Una resa dei conti, una relazione di acciaio e piume, un viaggio nelle profondità del legame più antico e complesso: quello tra un genitore e il figlio.
Cominciamo da Rimini. Quand’è che l’hai lasciata?
A 19 anni andai a studiare a Bologna ma già allora sapevo che era un addio parziale. Ai riminesi piace tornare spesso in città, e quando mi trasferii ero certo che avrei continuato a frequentarla con una certa assiduità.
Che ricordi hai dell’adolescenza lì?
Rimini è un vortice dorato, posto che non vorresti mai lasciare, e ha in sé una prospettiva di vita grassa. Lì si è abituati a traversare l’esistenza in un contesto di tradizione intelligente, in una collaborazione agiata con la famiglia. Ne ho dei bei ricordi, insomma, e amo ancora oggi la città.
Che intendi con vortice dorato?
Da ragazzo avevo la camera da letto in casa dei miei, una villetta bifamigliare. La loro auto che potevo usare per uscire con gli amici. Il pub dove andavo nei weekend. Ecco, a Rimini vivi l’agio della provincia facendo il minimo sforzo.
E poi?
E poi arriva un momento in cui devi decidere: è questa la vita che vuoi, o vuoi giocare d’azzardo e rompere il banco?
Risposta?
Ho scelto l’azzardo.
Come l’hai rotto, il banco?
Iniziando a scrivere a Bologna quello che sarebbe stato il mio primo romanzo, Senza coda (Fanucci 2005).
La reazione di Rimini e dei riminesi qual è stata?
La maggior parte mi disse che ero pazzo. Se esci dalla tua cornice di comfort, ci sono sempre delle proteste da parte di chi hai vicino. E Rimini protestò. Si sentì tradita dal ragazzo che vedeva giocare a beach volley lì tra i suoi confini.
A proposito dell’azzardo, su cui è imperniata una zona del tuo romanzo. Cos’è che ti fa puntare nella vita? C’è una sorta di istinto che ti suggerisce quando farlo?
Sì, sempre. Chi maneggia l’azzardo ce l’ha scritto nel Dna, spesso è qualcosa di organico. La corteccia prefrontale si irrora maggiormente di sangue, questo porta anche a una sintomatologia: sudano i polpastrelli, il battito accelera e lo senti pulsare alla base del collo, l’adrenalina impazza. Certi provano qualcosa di simile prima di fare sesso. Io l’ho provato in parecchie situazioni, compreso nel gioco d’azzardo e nel sesso, appunto.
Quindi è qualcosa che ti accompagna da tempo.
Da sempre, e da bambino e da ragazzino lo avvertivo per contrasto a quel che stavo vivendo. Provengo da un contesto famigliare molto placido e prudente, da un nucleo assolutamente tranquillo: mia madre insegnante alle elementari, mio padre ferroviere. Eravamo in quattro, ho una sorella, e a regnare in casa c’era un ordine palpabile, che aveva una sua consistenza, era denso. E quando lo violavo, quell’ordine, avvertivo i sintomi di cui parlavo.
Torniamo a Bologna. In quel periodo ci fu anche la Holden, è corretto?
No, frequentai solo un corso a Cesena. Me lo regalò mia madre, convinta che sapessi scrivere, costava 1.200 euro. Feci questo corso, ma erano tutti più bravi e ne uscii con la certezza che non sarei mai diventato uno scrittore.
Le cose cambiano, però.
Le cose cambiano, però. Sì.
Ho letto che in quegli anni tuo padre ebbe un infarto.
Sì, nel 1999.
A tal proposito. Ci insegnano che la crescita è un processo, io però credo sia più l’insieme di tre o quattro calci nel culo a formarci davvero.
Sono d’accordo.
L’infarto di tuo padre fu un calcio nel culo, immagino.
Fu un gran calcio nel culo, sì. Gli altri, i dolori che in qualche modo mi hanno formato, sono stati la morte di mio nonno, precedente l’infarto, e la verginità protratta oltre il limite normale.
Quando la perdesti, la verginità?
Il 7 aprile 2001. Tutti ricordano l’aurora boreale nel cielo italiano, in realtà però ero io che facevo sesso per la prima volta. Accadde in piazza dell’Unità, a Bologna. Avevo vent’anni, troppi - tutti i miei amici lo avevano già fatto.
Sarebbe sbagliato dire che Avere tutto nasce da ciò che accadde nel 1999, dall’infarto di tuo padre?
Non c’è dubbio che sia così. Quel giorno vidi la paura nei suoi occhi, e quella paura mi fece sentire in diritto e in dovere di proteggerlo. Quel giorno diventai padre di mio padre.
Avere tutto si concentra sull’accudimento – appunto, su un figlio che deve accudire il padre come se i ruoli fossero invertiti. Trovo interessante però che ne parli nel primo romanzo da quando sei diventato padre. Non credi che la paternità – la tua, intendo – c’entri pure?
Sì, indubbiamente.
Cosa mi dici della tua neo paternità?
Nata mia figlia, ho iniziato a nutrire dubbi sul fatto che volessi essere padre.
Perché?
Perché accudire mi rompe i coglioni.
Odio fare l’ispettore dei lavori finiti, ma di nuovo: perché?
Perché la scrittura per me implica già una forma di accudimento estrema. Per scrivere un romanzo ci metto circa tre o quattro anni, a volte cinque. Ne scrivo dieci o venti versioni. Lavoro all’editing per un anno e mezzo. Alle bozze per due mesi. Un lavoro del genere mi richiede un accudimento che assorbe tante energie. E se devi pure pensare a un figlio, di tempo e forze ne hai meno.
Quindi?
Quindi o chi fa letteratura non dovrebbe far figli, o in chi fa libri i figli causano l’espansione del cuore: la fatica di accudirli allarga il tuo spettro sentimentale, il ché porta a scrivere meglio.
Com’è andata per te?
Credo che accudire mia figlia abbia allargato il mio spettro –quantomeno, in questo romanzo è andata così. È il mio migliore, secondo me.
Che sia il tuo romanzo migliore, quindi, credi dipenda solo da tua figlia?
No, da un insieme di vissuti. Ma anche, e forse soprattutto, dalla lingua.
A proposito della lingua?
È arrivata da sola, non l’ho scelta io. Una cosa del genere mi capitò scrivendo Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli 2015): la lingua venne da sé.
Però la lingua di quel romanzo è molto diversa quella di Avere tutto.
Indubbiamente. Quella ha maglie larghe, respira un’energia diversa. E anche in quel caso derivò da ciò che stavo vivendo.
Oggi è l’accudimento di tua figlia, all’epoca?
L’innamoramento di mia moglie, Maddalena. Ero talmente innamorato di lei, del suo sedere, che mi aprii alla vita come non mai. Ecco, Atti osceni in luogo privato respirò quell’energia. Non è un caso che fu scritto in ventitré giorni.
L’avevo sentita dire, questa cosa. Ma è vero?
Sì che è vero.
Eddai.
Eddai che?
Eddai, come si fa a scrivere un romanzo come Atti osceni in luogo privato in ventitré giorni?
Eh, fu per Maddalena. Scrissi dieci pagine al giorno, ed ebbi anche un malore. La mia testa e il mio cuore avevano capito, senza che io stesso me ne rendessi conto, che se ci avessi messo di più l’energia di quel periodo non sarebbe più entrata nel romanzo. Che poi abbia impiegato due anni a rimetterlo a posto è un altro discorso: qui parliamo del magma da cui venne la lingua.
Torniamo a padri e figli. Come dicevamo, capita di diventare genitori dei nostri genitori. Ma si smette mai di essere figli?
Mai. Anche alla morte di un genitore non smettiamo di essere figli. E anzi, da orfani capita spesso di cercare nel mondo quell’amore lì. Si è fortunati quando lo si cerca nelle piccole cose, o nella memoria dei genitori persi. Si è sfortunati quando si cerca di compensare - si corre il rischio di diventare un consumatore seriale di vita.
Nando, il padre di Sandro, balla. Tuo padre balla?
No, ma una volta l’ho visto ballare.
Com’era?
Leggero come mai prima.
Ballare è una forma di liberazione, e non mi aspetterei di vedere un uomo della generazione di tuo padre – o della generazione del mio – farlo.
Sono pochi gli uomini di quella generazione che ballano, è vero. Io stesso non ballo. Soltanto quando sono a casa.
Sì?
Sì. Quando sono a casa, solo e felice.
Sei bravo?
Sono un cazzo di cavallo imbizzarrito.
Torniamo alla volta che hai visto tuo padre ballare.
Era un’occasione speciale. Fece una mezza piroetta, fu meraviglioso. Lo vidi da poco lontano, ma lui non mi notò.
Avresti voluto il contrario – che sapesse che lo avevi visto?
No.
Perché?
Perché era libero.
Che rapporto hai con tuo padre?
Splendido. È una persona buona, democratica, dolce, nervosa a suo modo. Me li ricordo, i suoi nervosismi. Da bimbo mi spaventavano perché avevo paura che sarebbero diventati i miei.
E li hai ereditati?
Ho ereditato il suo modo di vivere le prime due ore della mattina: per noi sono terrificanti. Ci svegliamo con una forma di dolore all’anima molto forte, dura un paio d’ore. Lui ce l’ha, io ce l’ho, mia figlia ce l’ha.
Ce l’ha anche tua figlia?
Sì, la mattina è incazzata. Ha solo tre anni: mi dice ho la rabbia qui e si batte il petto; credo che al posto di rabbia voglia dire inquietudine.
Come la combatti, questa inquietudine mattutina?
Con l’operosità. Tant’è che fino a poco tempo fa andavo in palestra presto.
Nel romanzo c’è un personaggio assente ma molto presente. Caterina, la madre di Sandro e moglie di Nando, morta anni prima. Leggendo, si ha l’impressione che viva e che accudisca i due nel ricordo che ha lasciato.
Volevo scrivere una storia in cui le donne dominassero senza essere presenti, in cui gli uomini si trovassero a comunicare tra loro senza la mediazione dolce della donna. Volevo rendere l’idea di due maschi che tra loro comunicano con la ruggine che si crea quando entrano in contatto.
Per te e tuo padre è così?
Quando torno a Rimini e tento di abbracciare mio padre, ci riesco a malapena. Così mi muovo per introduzioni affettive corporali - gli tocco la punta di una spalla, gli sfioro un orecchio. Abbracciandolo, sento una forte inadeguatezza.
Con la mediazione di tua madre le cose vanno diversamente?
Sì, è lei spesso a spingermi fisicamente verso mio padre. Ed ecco, volevo dare l’idea di un padre e di un figlio che un Andreotti affettivo non ce l’hanno.
Quando l’hai scoperto, il corpo di tuo padre?
La prima volta in cui lo vidi nudo. Nove anni, giocavo al campetto lì accanto casa e il pallone si scoppiò, così decisi di tornare su e prendere l’altro, che era in camera mia: lì sorpresi mio padre nudo. Era appena uscito dalla doccia, era un uomo di mezz’età in un atto della quotidianità, ma per me fu incredibile: per la prima volta presi coscienza della potenza virile del corpo di mio padre. Una forza che andò in disgregazione quando, esattamente dieci anni dopo, lo vidi sofferente su una barella, quando ebbe l’infarto. Un Cristo del Mantegna.
Ancora su accudimento e paternità. In una scena del romanzo, Amedeo, l’infermiere di Nando, dà sua figlia – Margherita, tra l’altro: stesso nome della tua, di figlia – a Sandro. E Sandro non ha idea di come prenderla, è a disagio. In questo episodio sto vedendo te, Marco, diventare padre?
Sì, è così. Io credo si diventi padri man mano, non nel momento in cui si vede il figlio la prima volta. Margherita all’inizio non sapevo come tenerla o come prenderla, e nel frattempo pensavo piccola smorfiosa, mi stai rubando tempo alla scrittura. Aveva due giorni di vita. È una colpa terrificante.
Cosa hai fatto, quindi?
Iniziai a leggere scrittori e scrittrici che avevano avuto figli. Ma presto capii che i rapporti scrittori figli non sono semplici. Hemingway: li abbandonò tutti. Faulkner: perse la figlia che aveva pochi mesi. Houellebecq: l’ha rinnegato. Ernaux: mi disse che aver avuto figli fosse stato il più grosso errore della sua vita. Poi pensai a Veronesi: ha figli ma scrive libri stupendi. Mi tranquillizzai; fortuna che esiste il buon Veronesi.
Insomma, il rapporto scrittori – figli non è semplice, pare.
L’unico screzio che ho avuto con Carrère fu su questo: gli chiesi come facesse a scrivere avendo una figlia piccola, e mi rispose che c’entra la scrittura con mia figlia? Mi disse che poteva ancora prendere un aereo, andare in Thailandia e rimanere lì per mesi a scrivere, con la figlia a Parigi. Non lo concepivo.
Però tua figlia l’ho vista giusto ieri, sembra così buona.
È il concetto: il figlio può essere buono o cattivo ma è il fatto che dal momento in cui viene al mondo dovrai proteggerlo, e parte delle energie andrà, volente o nolente, su questa creatura.
Ti toglie tempo e forze?
Toglie la magia dell’accudimento che prima era riservata ai libri. In verità poi avviene qualcosa, un’altra magia, per cui il figlio ti aiuta, ti allena ad accudire i libri. E funziona tutto in modo naturale: il cuore si allarga.
Tu da chi ti senti accudito?
Da Maddalena, mia moglie. Da me stesso, tanto. Perché mi concedo l’azzardo - è una forma di accudimento pure questo. Non è un azzardo di vizi, ha a che fare con il concedersi ciò che si desidera.
Hai addomesticato l’azzardo?
Un po’. Altrimenti avrebbe fatto troppi casini.
C’è una figura del libro di cui non si parla e che non sono riuscito a…
Giulia?
In realtà, volevo chiederti di Amedeo. Vuoi parlarmi di Giulia, per caso?
No.
Ma come no. Perché?
È il personaggio più difficile che ho fatto da quando scrivo.
Eh, allora parliamone.
Sono appena undici righe in tutto il libro. Ogni riga doveva dare l’impressione che questa ragazza fosse tra il presente e il fantasma del passato, senza essere troppo tratteggiata e senza dare la sensazione di essere una figurina messa lì. Mi ha massacrato, in fase di stesura.
Ti ha massacrato da un punto di vista autoriale, quindi.
Sì, tecnico.
Solo tecnico?
Forse no. Lei è tutte le forme di amore di cui abbiamo fatto esperienza.
Su Bruni, che aiuta Sandro a trovare i posti dove giocare a poker, che mi dici? È il diavolo tentatore?
È la parte di te che ti vuole portare al male. Una scissione di te stesso.
Ma Bruni esiste o è l’immaginazione di Sandro, un po’ alla Fight club?
Sta al lettore deciderlo. Lui nel romanzo è un’ombra.
A proposito di ombre. Perché hai scelto il poker per rendere la parte più oscura di Sandro?
Perché ci giocavo anch’io.
Allo stesso modo?
Con egual forza.
Ho avuto l’impressione che guardando Sandro giocare, a lui interessasse il poker in sé mentre a te, autore, interessasse il luogo.
Non il luogo, ma l’ingegneria. Mi interessava la fisionomia dell’azzardo, quel che prova una persona quand’è esposta all’azzardo, mi interessava l’abrasione che produce in chi se lo concede.
Lo squallore degli appartamenti in cui gioca a poker a cos’è dovuto?
È lo squallore che la vita ti presenta in certi momenti dell’esistenza, qualcosa che tutti, bene o male, abbiamo visto o provato.
Che farci con lo squallore della nostra esistenza?
Credo sia meglio godercelo. Averne paura non porta a niente. Ma so bene che vedersi squallidi è terrificante, può portare a un dolore interiore molto forte e difficilmente gestibile. Io mi sono visto squallido in varie occasioni e ancora oggi me ne vergogno.
Perché?
Mi sono visto per ciò che posso fare. Lo squallore è il marciò che c’è dentro.
Questa vergogna nasce nel momento in cui ti ci vedi tu, squallido, oppure quando vieni visto dagli altri?
Credo nasca quando cade la quarta parete e qualcuno che hai accanto ti vede, e ti fa sentire tale.
Come hai reagito quand’è crollata la quarta parete?
Ho preso lo squallore e la vergogna e li ho messi nei miei libri.
La prima volta in cui l’hai avvertito?
Avevo quattro o cinque anni. Ero in Puglia con i miei genitori e un mio amico poco più grande che mi mandò a rubare un pacchetto di patatine, di quelle con la sorpresa dentro. Lo feci, ma venni beccato appena uscito dal locale. Venni portato dai miei, la malefatta raccontata e mi fu regalato anche il pacchetto di patatine che, mentre le buscavo di santa ragione, rimase sul tavolo lì accanto. Mentre me le suonavano, non riuscivo a non guardarle, quelle patatine.
Rimanendo sull’azzardo. C’è una carica autodistruttiva in Sandro?
Sì, come in tutti i prefrontali e quelle persone che tendono a cercare di portare i propri limiti alle estreme conseguenze. C’è in lui sia una parte autodistruttiva sia una parte che tende all’autoconservazione, e lui sta sempre in mezzo senza mai scegliere. La sua unica vera forma di salvezza è l’amicizia.
Sandro ha due amici a Rimini a cui tiene e con cui ha un bel rapporto.
L’amicizia l’ho riscoperta con l’adultità. Tornando a Rimini, e credo si possa dire di tante provincie - chi vive in città diverse da quelle di nascita lo sa -, le primissime sere sono sempre dedicate ai vecchi amici. Prendi il Natale: tutte le volte che torno a Rimini per Natale, il ventitré si va al solito pub con i soliti amici. È una cosa incredibile. Nonostante i sussulti della vita (i matrimoni e i divorzi, i figli e i viaggi, il lavoro e le famiglie), ci si ritrova sempre.
Parli spesso di Rimini. Perché ci sei voluto tornare, con questo romanzo?
È Rimini che ha generato la storia. Il titolo poteva anche essere solo Rimini.
L’hai scritto lì?
Sì, un po’ nella cucina di Sandro e suo padre, un po’ al bar Zeta.
Un luogo di Rimini a cui sei legato?
Il mio quartiere, Ina Casa.
Marco, per concludere. Non ti faccio la domanda che ti hanno già fatto e rifatto – su cosa faresti con vent’anni di meno e un milione di più –, però…
Perché no?
Perché conosco già la risposta.
Finora ho dato una risposta seriosa, ma se vuoi quella frivola te la do.
Vai.
Con un milione. Comprerei: un Patek Philippe Aquanaut e un Patek Philippe Nautilus – sono orologi –, due paia di sneakers da collezione, una Porsche GT con il tettuccio bordeaux, poi a mia moglie il cappotto che adora ma che costa uno sfracello e, per completare in bellezza, un’esperienza divertente e che non farei mai più - dormire un mese nelle Water Villas alle Maldive per svegliarmi e buttarmi in acqua appena sveglio. Queste sono le cose frivole che farei, ma, come hai letto altrove, penso che se avessi un milione lo metterei in banca per usarlo con morigeratezza.
Perché?
Perché così potrei concentrarmi sulla scrittura.
Sei la persona più intrecciata alla scrittura che io abbia mai conosciuto.
Per me la scrittura è tutto.
Quando l’hai capito?
Nel 2008, avevo già pubblicato due libri: all’epoca ho capito che avevo questo demone dentro.
Ferrante dice che non è lei a scrivere, ma una creatura dentro di lei.
Ferrante è romantica. Non solo siamo noi, ma lo siamo in modo assoluto. Non credo sia una creatura, ma noi concentrati al cento per cento su noi stessi. Noi all’ennesima.
Ultima domanda – la faccio a tutti. Marco, hai settant’anni ed è domenica mattina: dove sei, con chi sei, che fai?
Sono a letto. Mia figlia Margherita bussa alla porta di casa, viene a svegliarmi e mi invita a fare colazione con lei. Allora invitiamo pure mia moglie, ma lei ci dice che rimarrà a casa. E a fare colazione ci andiamo solo io e Margherita.
Avere tutto (Einaudi 2022, pp. 168, euro 18) è l’ultimo romanzo di Marco Missiroli, in libreria dal 27 settembre
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