Per paradosso l’attore di uno dei ruoli più drammatici della storia del cinema si è guadagnato così una schiera di pretendenti. Compresa la principessa Margaret. Ora rivela cosa c’è di vero nelle leggende su Kubrick sul set
Contrordine: il vero cult, nella storia del cinema legata al volto di Malcolm McDowell, non è Arancia meccanica ma If...., diretto nel 1968 da Lindsay Anderson e Palma d’oro a Cannes nel 1969. Anche perché, senza If...., Clockwork Orange di Stanley Kubrick, uscito in Italia cinquant’anni fa, non sarebbe mai esistito.
Lo ha dichiarato Kubrick a più riprese e lo conferma Malcolm McDowell in questa intervista off records che intervista non è, piuttosto una lunga chiacchierata tra amici riuniti dal più storico amico italiano di Malcolm, David Grieco, con cui l’attore ha girato nel 2004 l’implacabile, nerissimo Evilenko.
«Kubrick aveva accantonato il progetto di filmare il romanzo di Anthony Burgess perché non riusciva a trovare l’attore giusto», racconta Mc Dowell davanti a una tazza di tè, con latte, grazie!, «finché a casa non si fece proiettare con sua moglie Christiane il film di Lindsay Anderson. Con l’interfono, chiese al proiezionista di far ripartire il film dall’inizio. Lo ha rivisto quattro volte di seguito, poi ha guardato Christiane e le ha detto: “Lo abbiamo trovato!”».
Lo aveva folgorato anche il film, con quella catarsi finale degli studenti armati di mitra, oltre al giovane protagonista. «Ma non lo avrebbe mai ammesso apertamente», sostiene l’attore, «perché tutti i registi sono gelosi del lavoro altrui». Anche Anderson, del resto, era geloso di Kubrick.
Alex il drugo, figlio di If....
La cosa curiosa è che fu proprio Anderson il consigliere di McDowell per la recitazione in Arancia meccanica. «Una settimana prima delle riprese gli mandai lo script, perché non avevo istruzioni da Kubrick, e lui mi ricordò la scena del suo film in cui apro la porta della scuola e sorrido: “Usa quel sorriso”, mi ha detto “per entrare nel personaggio di Alex DeLarge”».
Un sorriso non basta per costruire un personaggio, ma «ho capito cosa intendeva». Input prezioso, perché «Stanley mi diceva “go” e girava, non discuteva mai niente con nessuno».
Nelle mie memorie personali di ragazzina, diciamo da apprendista cinefila, l’impatto di If.... è stato molto più tosto di quello di Arancia meccanica. McDowell: «Questo perché era un film rivoluzionario, in quello scorcio di 1968/69. È puro istinto rivoluzionario contro la classe privilegiata, quella che fa le leggi. Il contesto sociale del film è cruciale. Quando è uscito nessun film criticava la ruling class, le scuole in cui venivano formati i figli dell’aristocrazia chiamati ad amministrare l’impero. Quasi tutti i primi ministri hanno frequentato Eton, un posto da brividi (ride)».
Un film sociale
Per qualche ragione avevo sempre pensato che If.... partisse, per ribaltarlo, da un classico molto conservatore sulla public school di Rudyard Kipling, Stalky & Co. Faccio ammenda: sbagliavo.
Racconta McDowell che davanti alle sue perplessità su certi passaggi Anderson lo rimbeccava: «Malcolm, tu credi che le zucche diventino carrozze a mezzanotte?».
È stato, per lui, un esordio folgorante, una scuola d’arte, di provocazione e di vita: «È un film shock, coraggioso, profetico e poetico, ancora attualissimo. I film sociali oggi sono rari. Ai produttori e alle piattaforme non interessano, anche se i grandi sceneggiatori oggi lavorano per la televisione».
Giocando a ping pong con Kubrick
Circolano leggende a raffica intorno alle riprese di Arancia meccanica. Si tramandano racconti di partite a scacchi e a ping pong tra Kubrick e il suo protagonista.
«A scacchi mai: sapevo che lui era un maestro. Solo a ping pong. Lo stracciavo sempre, ma non si arrabbiava. O almeno fingeva di non arrabbiarsi: mi studiava».
L’altro aneddoto mitico riguarda Singin’ in the Rain, in paradossale dissonanza con la sequenza dello stupro. «Stavamo inchiodati da cinque giorni, e K. mi chiese cosa sapevo ballare. Ho improvvisato quello che mi veniva in mente, lui è scoppiato a ridere e ha chiesto alla Warner di pagare i diritti. L’uso di quella canzone ha fatto infuriare Gene Kelly. Quando mi accadde di incontrarlo, molti anni dopo, mi ha attraversato con lo sguardo e mi ha girato le spalle. Il tizio della Warner con cui stavo era mortificato, io no: avevo preso un momento leggendario e ci avevo pisciato sopra!».
A onore dell’epoca, va detto che il film-scandalo di Kubrick uscì con la classificazione X (come Un uomo da marciapiede, peraltro, cosa che non gli impedì di vincere tre Oscar) ma l’unico taglio imposto fu di dodici secondi, una frattaglia di nudo.
Sadico
Fu un trauma invece la ‘cura Ludovico’, a palpebre atrocemente spalancate. «Finché si girava ero sotto anestetici, il problema era dopo, a casa. Il mio amico dottore che abitava dietro l’angolo doveva aiutarmi con la morfina».
Kubrick capiva il prezzo fisico che pagavi? «Ovvio, ma era un pochino sadico, solo un po’. E io, da principiante con un grande ruolo, abbozzavo».
Low budget
Kubrick diceva di aver scelto il romanzo di Burgess anche perché si presentava come un film low budget. Voleva dimostrare agli Studios di non essere lo sforatore sistematico di budget che terrorizzava i produttori. Gli contestavano gli sforamenti di Spartacus, Orizzonti di Gloria e 2001: Odissea nello Spazio.
Era consapevole, in quegli anni, a cavallo dei Settanta, di star lavorando a capolavori? «Sapevo che erano buoni, quanto buoni non potevo dirlo. Capivo però che di film così puoi sperare di farne uno o due in una vita. Prendi il bianco e nero di If...., che estasiò la critica. Si girava in una cappella del XIV secolo, e non si potevano usare le luci all’interno, soltanto fuori. E Lindsay Anderson ebbe l’illuminazione del bianco e nero. Ironico, no?».
Kubrick ricevette insulti e lettere minatorie di ogni sorta per Arancia meccanica. «Così diceva. Io però non le ho mai viste (ride). Anch’io ho avuto i miei stalker, e una valanga di lettere di signore con foto senza vestiti. Anche di uomini, se è per questo (ride)».
Era uno strano periodo: «Io ero un giovane attore che faceva teatro e cercava disperatamente di guadagnarsi da vivere. Molti di noi facevano i fattorini, praticamente i rider di oggi, perché girando per Londra trovavi il tempo di andare ai provini. Tutti gli attori a Londra cominciano dal teatro. Fare un film era una benedizione, perché con un film paghi i conti di un anno intero».
Da stupratore a sex symbol
L’effetto più paradossale di Arancia meccanica, e quello che finora Malcolm McDowell non aveva mai raccontato, è che il suo Alex DeLarge, stupratore, drugo amorale e picchiatore sadico, gli ha fatto conquistare lo status di sex symbol. Tra le vittime di questa seduzione via schermo ci fu la principessa Margaret.
«Quando ci mettemmo a tavola, mi ordinò: tu siediti qui. Fumando a raffica, mi interpellò con queste parole: “Così, hai fatto un film su uno stupro?” E io: “Beh, non solo su uno stupro..”».
Accadde senza preavviso, l’incontro: «Mi chiedono se ho una cravatta, mi caricano su un taxi senza dirmi dove stiamo andando, e mi ritrovo a Kensington Palace. Una guardia molto friendly mi dice di aspettare. La principessa è in ritardo. Chiedo se posso sedermi ma è vietato finché non arriva lei. Assurdo».
«Bellissimi occhi, per inciso, aveva Margaret, era molto più bella di persona che in fotografia. E il suo matrimonio stava andando a rotoli. Ma lo chaperon mi bisbiglia in un orecchio: “Si aspetta che tu vada via con lei”. “Non ci vado”, faccio io, “proprio non se ne parla”. Mi guardano male: non si può rifiutare. Sono scoppiato a ridere: “Cosa fate se non vado, mi rinchiudete nella Torre di Londra?”».
L’innocenza violata
Tra i suoi (pochi) film con registi italiani Malcolm McDowell predilige quello in cui ha impersonato “il comunista che mangiava i bambini”, quell’Evilenko che nella Russia anni Ottanta violentò e divorò una cinquantina di ragazzini.
Sarà forse per una scelta di fedeltà alla figura del villain, del cattivo estremo? «Dietro ogni villain c’è una storia, una innocenza violata. Sono personaggi disturbanti, come è disturbante la vita. Meglio però guardare in faccia le cose, parlarne, mostrarle, che tenerle nascoste. E la mia rivincita è stata la parodia di un nonno serial killer e violentatore in un film comico: la mia personale sublimazione nel ridicolo».
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