La famiglia “libera”, l’impegno nel volontariato, il femminismo, l’interesse per la politica e i riferimenti culturali da cui ha tratto ispirazione per scrivere. Dopo l’esperienza di Sanremo che l’ha vista duettare con Fedez, la cantautrice di Bassano del Grappa si racconta
- Francesca è una femminista, e di questo certamente parleremo, anche perché ha scritto una canzone, un anno fa, proprio sul catcalling. Io preciso subito, non si mai, che al massimo fischio al cane. Ma le propongo di partire dall’inizio.
«L’educazione è tutto, soprattutto quella scolastica, proprio perché non tutti nascono in famiglie libere e aperte. Oltre che l’ambiente familiare, ho avuto la fortuna di vivere in un’isola felice veneta».
«Grazie ai migranti ho capito cosa fosse la dignità. Ho sempre in testa le immagini dell’incendio del ghetto di Rignano del 2017. Morirono due migranti, molti altri non sono mai tornati, ed erano tutti miei studenti nel 2016».
In attesa dell’arrivo di Francesca Michielin, mentre chiacchiero con una collaboratrice del suo ufficio stampa, ricevo un messaggio dal programma TV-Talk; mi invitano a parlare di catcalling (ovvero la pratica esercitata da quei villani et sfigati uomini che fischiano alle donne o che dicono «Ciao bella» col gomito appoggiato alla portiera dell’Alfasud).
Lo dico a Ilaria, la collaboratrice di cui sopra e ci mettiamo a parlarne; è chiaro che è un tema “caldo”, come si dice. Francesca è una femminista, e di questo certamente parleremo, anche perché ha scritto una canzone, un anno fa, proprio sul catcalling. Io preciso subito, non si mai, che al massimo fischio al cane.
Anche perché, se proprio uno volesse discettarne, penso che il numero delle storie d’amore o anche solo di sesso cominciate con un fischio si approssimi allo zero. Si fischia per essere applauditi dagli altri maschioni, insomma. Ma vabbè, arriva Francesca, in ritardo a causa di una telefonata dalla prof. per la sua tesi (si laurea in canto jazz, su Charles Mingus. Per dire). Le dico che siamo già in medias res sul catcalling, ma le propongo di partire dall’inizio. Gentilmente conviene.
Raccontami il tuo romanzo di formazione – hai definito la tua famiglia “libera”. Mi spieghi cos’è una famiglia libera?
È una famiglia nella quale non ci sono schemi preimpostati. A casa mia non ho mai percepito quella forma malsana e divisiva in cui la donna fa certe cose e l’uomo altre. Ho però avuto una formazione piuttosto rigida su alcune cose; l’educazione, non tirarsela mai, testa bassa e pedalare, avere sempre rispetto per gli altri in tutte le forme possibili. I miei genitori hanno insistito molto che mio fratello e io fossimo sensibili a questi temi. Mi ricordo mio padre alle medie mi disse «Non me ne frega niente del voto che hai in pagella, per me è fondamentale che tu ti ricordi sempre che esistono anche gli altri». E mi propose di iniziare a fare attività “sociali”. Poi alle medie presi ottimi voti e chiesi un regalo, perché tutti gli altri ricevevano regali per i voti buoni, ma mia madre disse no: «È il tuo dovere Francesca, è l’unica cosa che fai!». Però sulle nostre ambizioni, passioni e desideri sono stati molto liberi. Sia io che mio fratello volevamo suonare e mamma ci disse: «Se volete suonare comprate gli strumenti musicali, io vi pago le lezioni, basta che siate seri e non saltiate una lezione per nessun motivo». Se dicevo a mia mamma: «Non ho voglia di studiare biologia, voglio studiare basso», mi diceva «coltiva il tuo sogno, fallo!».
Ho anche avuto il privilegio di crescere in un contesto sia collettivo che multiculturale perché in diversi periodi i miei genitori assistevano famiglie in difficoltà prendendo in affido i loro figli. Eravamo poi molto vicini a una comunità ghanese, quindi ho davvero vissuto una realtà multiculturale, cosa non facilissima in Veneto. Mi ha aperto gli occhi. E poi, cosa fondamentale, non ho mai percepito che mia madre fosse sotto mio padre o viceversa, e anche se siamo comunque generazioni diverse abbiamo una grande capacità di ascoltarci. Per me è molto importante.
Il tema è che se non hai la fortuna di nascere in una famiglia così, hai poche possibilità di sviluppare il dono fondamentale della sensibilità, dell’apertura. La scuola, la società, non sembrano funzionare nel loro scopo più importante: fornire strumenti di educazione civile.
L’educazione è tutto, soprattutto quella scolastica, proprio perché non tutti nascono in famiglie libere e aperte. Oltre che l’ambiente familiare, ho avuto la fortuna di vivere in un’isola felice veneta. La mia scuola era una scuola multietnica e multireligiosa, si faceva educazione sessuale nel modo giusto e gli insegnanti erano davvero open-minded. La scuola, a prescindere dalla provenienza e dal ceto, dovrebbe dare la possibilità di rielaborare con gli altri l’idea di sé; è il primo strumento per abbattere l’individualismo. Io in quarta superiore non riuscii a frequentare la scuola e studiando da sola mi sono resa conto che non era tanto quello che studiavo, era come lo studiavo in classe, con chi lo studiavo in classe, la cosa importante.
Ho seguito da vicino il tema scuola in pandemia. Penso sia ancora drammaticamente sottovalutato l’impatto psicologico causato dalla didattica a distanza.
Credo che la violenza, il danno psicologico che questo momento storico sta facendo subire ai più giovani sia catastrofico. Perché la loro vita è fatta innanzitutto di relazioni, socialità, capacità di ascolto, interazione. È il periodo degli errori, nel quale hai il diritto di fare un sacco di cazzate! Sono questi gli anni più importanti. Il fatto che non si parli tanto di salute psicologica è drammatico. L’atteggiamento prevalente, sia da parte delle istituzioni ma anche dei docenti, è quello di andare avanti imperterriti, senza ascoltare le difficoltà, senza adattarsi alla vera emergenza per i ragazzi, quella psicologica. Io parlo con sorelle e fratelli di mie amiche, magari hanno la maturità, persone che mi dicono: «Io non ce la faccio proprio a studiare così, non sono più motivato, non ho più le energie». E invece no, zitti, dovete stare zitti e studiare ancora di più perché tanto non avete un cazzo da fare. Ma il danno psicologico c’è ed è dilaniante.
Ci sono i dati. Aumentano i tentati o le ideazioni di suicido, le ferite autoinflitte, i disturbi alimentari.
Sì, ma anche semplicemente la sindrome della capanna, che sembra una cazzata e invece è una cosa enorme. Da un lato non vedo l’ora di andare in tour, dall’altra parte mi sento male a prendere un treno. Sono solo io?
No.
Ecco, vedi? Un giorno ci siamo visti all’aperto, in famiglia. C’era un bimbo di un anno. Era proprio a disagio, si vedeva che non era abituato a stare in mezzo alle persone, a incontrare altri bambini. Ci ha messo un’ora a calmarsi. Poi era felicissimo, come se avesse scoperto qualcosa di straordinario. Una cosa inquietante.
Com’è stato tornare al liceo dopo X Factor? Intanto figo che non hai fatto la rockstar e sei tornata a studiare, ma anche tu ti sarai dovuta riabituare al mondo reale…
In realtà ho fatto davvero la rockstar invece! Il mio singolo andava benissimo, avrei potuto dire sì a tutte le proposte che mi sono arrivate e invece me ne sono tornata al liceo. Avevo fatto quasi tutti i giorni possibili di assenza ma in realtà ho concluso molto bene l’anno. Mi sono proprio impegnata e sono uscita con una media alta. Poi ho fatto il mio primo disco con Elisa e un po’ di cose random che mi piacevano – cinema, collaborazioni con Fedez, Battiato – e poi fatta la maturità via, sono andata a fare volontariato. Reset totale. E dopo ho iniziato a scrivere canzoni, ma se non avessi fatto la maturità non avrei avuto la testa libera per fare tutto.
Che libri leggevi in quel periodo?
Memorie di Adriano della Yourcenair, che è il mio libro preferito. E poi Calvino! Mi ha accompagnata dalla prima superiore, poi ho recuperato altri suoi libri fondamentali come Le città invisibili e durante gli anni dell’università ho scoperto le Lezioni americane che mi ha aiutato tantissimo a scrivere. Lo ha scritto per chi scrive ma è utile anche per la composizione musicale. Calvino è illuminante.
Ci sono migliaia di canzoni nei suoi libri…
Sì, è vero. Poi è solido! Per dirti, quando ero più giovane, alle medie, mi piaceva tantissimo Baricco. Adesso non riesco più a leggerlo, ho bisogno di stimoli e i suoi ultimi romanzi sono un po’ aerei, ecco. In quinta elementare leggevo già Seta, al mare a Jesolo. Ho sempre letto tanto, amo gli scrittori che riescono a essere fantasiosi e pragmatici. Ora sto rileggendo uno scrittore della mia terra, Mario Rigoni Stern, che amo tanto. Tutti lo associano alla guerra ma ci sono due libri suoi che sono Il bosco degli urogalli e Le stagioni di Giacomo che hanno uno spirito bambino nel descrivere le cose e al contempo una grande solidità narrativa. Crescendo mi piacciono più cose così…
Beh adesso Baricco mi pare più concentrato sulla saggistica… Io quest’inverno grazie a Sandro Veronesi ho riletto i racconti di Fenoglio. Te li consiglio. Ragazzini, contadini, partigiani. E in contemporanea sto leggendo Caldwell. Incredibile quanto abbiano in comune. Che sia il Veneto, le Langhe o la Georgia, la terra è sempre la terra.
Io ho ripreso Meneghello, Libera nos a malo, perché sto scrivendo pezzi ispirati alle mie terre. Quando ero più giovane non lo capivo, adesso penso di sì. È un capolavoro.
Confesso che mi manca, sarà il mio prossimo libro… tornando alla tua attività di volontariato: non pensi mai che la necessità che sia la libera iniziativa delle persone ad aiutare i deboli sia la prova di un fallimento politico e istituzionale?
Io ho iniziato a fare volontariato l’estate dopo la terza media, a Parigi, per un progetto di distribuzione alimentare per le famiglie indigenti. Poi, dopo altre esperienze, a 19 anni sarei dovuta andare in Mozambico ma il mio formatore mi disse di stare in Italia, nel foggiano, a Borgo Mezzanone dove ci sono i braccianti sfruttati. Ci sono andata. Ho conosciuto realtà durissime, dalla prostituzione, ai braccianti, ai rom. Ho insegnato italiano, ho fatto formazione sanitaria e giuridica, abbiamo messo in piedi una ciclo-officina per i migranti, perché siano autonomi e non debbano pagare il caporale per raggiungere il posto di lavoro. La frustrazione più grande è sempre quella: dov’è lo stato? Non ci posso credere che questa è l’Italia, non è possibile che sono in Puglia, non ci voglio credere! Almeno ora rispetto a quando ho iniziato si parla molto di quella realtà. È qualcosa. Grazie ai migranti ho capito cosa fosse la dignità. Ho sempre in testa le immagini dell’incendio del ghetto di Rignano del 2017. Morirono due migranti, molti altri non sono mai tornati, ed erano tutti miei studenti nel 2016. È stato il mio primo vero confronto con la morte. Mi ricordo queste persone che dopo ore e ore sotto il sole arrivavano profumate, con la camicia bianca, per fare lezione con me. Per me quello è il simbolo della dignità. La regola era che si finiva solo quando loro volevano finire, andavamo avanti finché non tramontava il sole perché dopo non c’era più luce e non sapevo come fare lezione. Poi spesso mi invitavano a cena, volevano a tutti i costi offrirmi la cena! La dignità è anche questo. Sembra davvero che meno hai e più sei generoso.
Ora hai un podcast, che si chiama Maschiacci. All’inizio degli episodi ti chiedi retoricamente perché se giochi a calcio ti chiamano maschiaccio. La risposta qual è?
Per millenni si è dovuto attribuire a una donna una peculiarità maschile quando fa certe cose o addirittura ci si complimenta usando espressioni come “avere i coglioni” oppure “sei cazzuta”. Sai quante volte faccio tweet di apprezzamento sulle partite delle azzurre o della Juve femminile e ricevo commenti del tipo: «Ma quelle non sono donne»? Però la mia generazione cammina sulle spalle di gigantesse che hanno fatto rivoluzioni, annaffiamo un terreno ben seminato cercando di raccogliere più frutti possibile, lavorando sul tema della rappresentanza, vedere più donne in ruoli ricoperti sempre e solo da uomini. Non si tratta delle quote rosa, espressione che odio.
Che pensi del modo in cui Enrico Letta, il nuovo segretario del Pd, ha posto la questione? «Non importa chi, ma voglio che siano donne», mi pare il modo sbagliato, quasi insultante.
Io dal Pd mi aspettavo molto di più da un punto di vista di rappresentanza femminile, è un lavoro quotidiano. Così sembra un voler tappare buchi e non seminare.
La questione ha due aspetti. Il primo, come dicevo prima, è la questione della rappresentanza: le donne devono occupare più ruoli di potere. Non per una questione meritocratica ma di semplice parità. Non credo che non ci siano tante donne quanti uomini in grado di fare la cosa X. Il secondo è che troppi uomini vorrebbero dire alle donne su cosa devono lottare. È una cosa inconcepibile.
Per questo ti chiedevo di Letta; c’è anche un tema di come racconti, come comunichi quel che stai facendo. Fatto così è sembrata davvero una decisione dall’alto. E di fatto lo è stata.
C’è un doppio sessismo; è una riflessione che andava fatta internamente. Il concetto di quota rosa secondo me ha solo funzione propedeutica, perché non deve mai venire meno la meritocrazia, su questo siamo tutti d’accordo. Per questo parlo di rappresentanza.
Che pensi della frammentazione della comunicazione su questi temi? Ogni giorno c’è una micro-lotta diversa, ora c’è il catcalling, ma il fischiare o apostrofare volgarmente una donna è un effetto di una mancanza di cultura, di ignoranza. Non credi che ci si debba concentrare su questo e che questa frammentazione a botte di hashtag possa addirittura essere controproducente?
No, al contrario, penso sia utile la frammentazione. Non esiste il femminismo ma i femminismi, come dice per esempio Giulia Blasi, l’autrice di Manuale per ragazze rivoluzionarie: non si può parlare in nome del femminismo. Puoi parlare in nome di quello che tu ritieni giusto fare. È un tema politico.
La cosa fondamentale è che l’uomo non determini quali sono le lotte giuste per le donne. L’uomo deve essere un alleato, deve ascoltare. Capisco il tuo punto, ma si affronta su due livelli. Uno è più immediato, l’altro è molto più lento e ha a che fare ovviamente con l’educazione. Ho un progetto di educazione sessuale che spero di realizzare l’anno prossimo nelle scuole medie. Un ciclo di incontri che riguardi anche il linguaggio, compreso ovviamente il catcalling. Solo le donne possono dire quanto sia spiacevole, violento e ansiogeno essere abbordate in malo modo. Sono portatori malati di patriarcato.
Che poi naturalmente sono quasi sempre gruppi, lo fanno solo per gli altri maschi, vista la nulla possibilità di “successo”. Puoi essere ignorante finché vuoi, ma non mi capacito del fatto che fischia fischia sempre davanti a PornHub ti ritrovi. Perché non vuoi davvero il contatto con una donna, ne sei spaventato ed esorcizzi facendo il bulletto.
Credo sia una sorta di punta dell’iceberg di mascolinità tossica, una specie di ciliegina sulla torta di un atteggiamento machista. È ovunque; io non ho avuto questo “privilegio” però tanti fidanzati, o meglio ora ex-fidanzati di mie amiche, avevano anche un modo di scrivere i messaggi o di avanzare delle pretese in un modo che tradiva proprio l’idea del possesso, che le donne fossero lì per soddisfarti – soddisfare te e solo te.
Penso che l’idea stessa di “possedere” in esclusiva il corpo di un essere umano sia, per dirla bene, nazista. E peraltro la comunità internazionale continua ad accettare senza problemi che in molti paesi le donne siano, di fatto, schiavizzate dalla legge.
Io percepisco uno stato e delle istituzioni molto assenti sui problemi dei giovani e delle donne. Che siano a due chilometri da casa nostra o in altri paesi.
Si è perso il senso del concetto di politica, che secondo me consiste nell’avere interesse per l’altro: il tuo problema diventa il mio. Per i nostri stessi politici non credo sia così, senza andar lontano, basta solo vedere come gestiscono alcune realtà italiane.
Mah, vediamo, magari Draghi riesce a fare il miracolo di riformare il paese. Almeno un minimo, ma proprio minimo, sarebbe tanto.
Draghi, come tutte le persone intelligenti, prima di parlare agisce e sta agendo. Vediamo cosa farà e poi capiremo. Per dirti, una cosa piccola, il fatto che lui abbia deciso di vaccinarsi con AstraZeneca mi ha colpito positivamente. Lo stesso giorno si è vaccinato mio nonno, che ha ottantacinque anni e beh, confesso che mi ha fatto sentire più sicura, ovviamente le mie erano piccole paure irrazionali, ma pensa un piccolo gesto di un politico quanto può pesare…
Dove ti informi? Leggi i giornali, hai dei siti di informazione e approfondimento di riferimento?
Io leggo da più fonti possibili, leggo i quotidiani nel formato online e li confronto tra loro, poi leggo delle opinioniste su Instagram che scelgono e analizzano vari articoli e poi una ragazza che lavora con me tutte le mattine mi manda degli articoli che pensa possano interessarmi. Poi sono abbonata a Internazionale e uso molto Twitter.
E ora, musica, maestro! È vero che sei un’ammiratrice di Joe Hisaishi, il compositore giapponese autore delle colonne sonore di Miyazaki e Kitano?
Da piccola amavo la musica orchestrale cinematografica e ovviamente tutti mi parlavano di Morricone e Zimmermann. Poi alle superiori ho scoperto Joe Hisaishi, perché ero abbonata alla rassegna su Miyazaki.
Ogni lunedì vedevo un suo film, così ho scoperto le sue colonne sonore, me le sono studiate, ho preso tutti i dischi e quando ho iniziato a studiare composizione al conservatorio il mio grande riferimento è stato lui, e lo è ancora. Mi trasporta in un mondo… sai quelle cose che fa la musica? Che ti tocca il cuore?
Sì. Parliamo un po’ di musica a cazzo di cane? Io ti dico tre nomi fondamentali per me, i primi che mi vengono in mente, e tu mi dici i tuoi. Allora io mi gioco Nick Cave, i Sonic Youth e i Nirvana.
Ah lo sapevo!
Ma come lo sapevi?
Eh, lo sapevo. I primi tre che mi vengono in mente sono Damian Rice, Bon Iver e Bat for lashes.
La musica è generazionale, non c’è verso. Ascolta, sei d’accordo sul fatto che non esista quasi più l’appartenenza a un genere o a un movimento musicale? Tu passi da un pezzo tirato e incazzato come quello con i Maneskin, sul catcalling peraltro, a uno molto classico e melodico con Fedez a Sanremo, solo per fare due esempi noti.
Forse la nostra generazione vuole, più o meno consapevolmente, porsi come un’antitesi, per arrivare a una sintesi finale. Io ho vissuto questa fluidità di generi musicali nei miei dischi e in questo ultimo progetto particolarmente: c’è dentro tutto quello che non avevo il coraggio di fare. Prima non si poteva fare così, dovevi fare un genere e basta.
Adesso fare cose anche molto diverse è socialmente accettato, è una manifestazione di diversità fortissima e secondo me l’identità si ritrova proprio nell’espressione dell’eterogeneità della mia generazione. Siamo tante cose diverse. Penso che arriverò a una sintesi ma questo momento di esplosione di generi, di diversità è un passaggio necessario.
Hai un punto di vista estremamente razionale sul tuo lavoro.
Molti miei colleghi e colleghe mi prendono in giro, dicono che sono troppo razionale, che analizzo troppo il mio lavoro. Io rispondo: «Rega, se Hemingway ha deciso di venire a Bassano a scrivere un motivo ci sarà».
Mi serve un pensiero organico su quello che faccio perché altrimenti ai famosi posteri cosa rimane? Bisogna gestire la complessità, accettarla ma gestirla, per non esplodere. Serve il fiume che scorre e al contempo la solidità della montagna che ti sta alle spalle. Io sono molto istintiva e mi lascio fluire ma credo anche nell’organizzazione e nella disciplina. Il fiume e la montagna.
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